50 musei da vedere almeno una volta nella vita

Un viaggio globale alla ricerca dei musei che hanno fatto la storia attraverso quasi un secolo di archivio Domus.

Parlare di musei vuol dire parlare di cultura, perché i musei sono quelle architetture che contengono e custodiscono, promuovono e diffondono i “fatti” della storia naturale, scientifica e artistica dell’essere umano che attraverso questi esempi può sapere, evolvere e progredire. Ogni museo nasce storicamente intorno a una collezione, un insieme di “documenti” di cui ci si circonda per dare permanenza alla vita individuale o sociale.

Sulle pagine di Domus i musei contano innumerevoli occasioni di presentazione e dibattito, con progetti esemplari e saggi critici che ne delineano gli sviluppi lungo l’ultimo secolo di storia. Abbiamo selezionato, riletto, riscritto e ordinato 50 casi esemplari pubblicati dalla rivista e presenti nell’archivio digitale, che vanno dai progetti fondamentali dell’epoca moderna dell’architettura, ai casi più emblematici della scuola italiana che negli anni ’50 ha aperto una nuova via nella museografia internazionale. Casi straordinari sono poi i musei di design e architettura dove contenuto e contenitore spesso si mescolano senza soluzione di continuità in un’opera d’arte totale. Unici i musei dedicati ad un solo artista o a un solo collezionista, oppure quelli legati a fondazioni per l’arte che innovano i metodi di ricerca e di comunicazione culturale di un contenuto sperimentale. Infine, i nuovi grandi musei iconici e simbolici, che soprattutto dagli anni ’90 hanno iniziato a trasformare sistematicamente centri città e periferie con luoghi attrattivi ed evocativi di grande richiamo rigenerativo.

Attraverso questi esempi selezionati si riconoscono alcune caratteristiche progettuali che influenzano la lettura dell’architettura museale. Dopo la nascita di nuovo edificio isolato si pone spesso il tema del rinnovamento e dell’ampliamento. I musei si trovano a volte isolati altre volte aggregati in un sistema che integra parti di città, e dagli anni ‘70 la modalità dei concorsi pubblici diviene lo standard per eleggere il migliore progetto da realizzare. Spesso queste architetture sono opere prime che consacrano architetti emergenti che, per la loro portata pubblica e per la loro potenza espressiva, diventano riconoscibili e di riferimento. La luce, soprattutto naturale, è un tema costante che nei migliori dei casi ha conformato l’architettura per il migliore godimento delle opere, mentre il fluire del percorso è un’ulteriore variabile molto significativa nella progettazione di un luogo espositivo. I musei sono quindi sostanzialmente “macchine per esporre” in cui l’attività del mostrare è primaria e per cui insieme all’architettura (permanente), fondamentale è lo sviluppo dell’allestimento (temporaneo).

Una delle questioni sempre più attuali da tenere in considerazione nella lettura di un museo che, pur contenendo storia, è uno strumento contemporaneo rivolto alle generazioni future è la missione culturale e quindi la funzione didattica dei musei.
Beyeler Foundation, Riehen, Svizzera, 1997. Foto Mark Niedermann

Una delle questioni sempre più attuali da tenere in considerazione nella lettura di un museo che, pur contenendo storia, è uno strumento contemporaneo rivolto alle generazioni future è - come Gillo Dorfles già preannunciava nel 1955 su Domus - la missione culturale e quindi la funzione didattica dei musei, che non dovrebbero essere mai solo una raccolta di documenti o “fossili artistici” e nemmeno un’esposizione statica e polverosa di capolavori del passato. Il museo dovrebbe sempre rappresentare un organismo vivente, come un mezzo culturale dinamico di “attiva influenza sulla società”, come “vivaio umano”, auspicabilmente assiepato di giovani (fin da bambini) e di un pubblico “laico” adulto, che lo frequenta (e quindi ritorna) seguendo presentazioni, dibattiti e visite alle collezioni e, soprattutto, a nuove mostre che indagano la contemporaneità.

Un museo è dunque un luogo privilegiato, un tempio di culto e di cultura in cui attivare la funzione sociale dell’arte per la collettività che, stimolata da testimonianze artistiche e scientifiche, rifletta verso una consapevolezza comune del fare nel proprio tempo.

Palazzo dell'Arte, Triennale Milano, Italia, 1933 Foto Gianluca di Ioia © Triennale Milano

Triennale Milano, Italy, 1933 Foto Gianluca di Ioia © Triennale Milano

Triennale Milano, Italy, 1933 Foto Delfino Sisto Legnani-DSL Studio © Triennale Milano

Triennale Milano, Italy, 1933 Foto Delfino Sisto Legnani-DSL Studio © Triennale Milano

Triennale Milano, Italy, 1933 Foto Delfino Sisto Legnani-DSL Studio © Triennale Milano

Triennale Milano, Italy, 1933 Foto Delfino Sisto Legnani-DSL Studio © Triennale Milano

Triennale Milano, Italy, 1933 Foto Delfino Sisto Legnani-DSL Studio © Triennale Milano

Triennale Milano, Italy, 1933 V Triennale. Concerto serale

Foto Crimella

Triennale Milano, Italy, 1933 VI Triennale. Manifestazioni e concerti in Parco Sempione

Foto Crimella

Triennale Milano, Italy, 1933 XIII Triennale (1964). Peppo Brivio, Vittorio Gregotti, Lodovico Meneghetti e Giorgio Stoppino, Caleidoscopio

Foto S.r.l. Ancillotti Fotografie

Triennale Milano, Italy, 1933 Bagni misteriosi di Giorgio De Chirico nel giardino di Triennale Milano (1973)

Courtesy © Triennale Milano - Archivi

Triennale Milano, Italy, 1933 X Triennale (1954). Veduta aerea del Labirinto per ragazzi progettato da B.B.P.R. e costruito in Parco Sempione per la X Triennale

Foto Fotogramma

Triennale Milano, Italy, 1933 V Triennale (1933). Archi ornamentali di Mario Sironi

Foto Crimella

Oggi si chiama solo Triennale Milano – per via delle mostre internazionali organizzate ogni tre anni per cui è nata questa istituzione all’inizio degli anni ‘20 – ma l’architettura ha in origine un nome più importante e prezioso: Palazzo dell’Arte (al Parco), dove per arte si intendono tutte le espressioni umane di creatività, ingegno, progetto e bellezza, dal design all’architettura, passando dalle arti visive a quelle applicate, fino quelle sceniche e performative. Questo museo progettato da Giovanni Muzio – tipologia originale e straordinaria, esempio emblematico e innovativo ammirato in tutto il mondo – è stato una delle pietre di fondazione della modernità italiana da cui è passata, o per meglio dire è nata e si è formata, tutta una cultura del progetto. L’architettura isolata, con una prua arrotondata come un’arca dell’arte, ha una morfologia compatta ma dinamica, monumentale ma organica, che contiene spazi diversificati, modulari e flessibili per ospitare le tante diverse forme d’arte. Il parco è un luogo primario e ragione d’essere dell’architettura: qui da subito si è pensato, prima di altrove, di realizzare quelle opere che difficilmente sarebbero state contenibili in un contenitore, pure grande, bello e funzionale. Allora, anche passeggiando nella natura, si poteva fare esperienza di arti e architettura.

  • Giovanni Muzio
Museum of Modern Art (MoMa), New York, USA, 1939 © 2019 The Museum of Modern Art, New York. Foto Brett Beyer

È “il” Museo di Arte Moderna, pensato alla fine degli anni ‘20 da tre donne visionarie, filantrope e mecenati – Lillie Plummer Bliss, Mary Quinn Sullivan, Abby Aldrich Rockefeller – quando la cosiddetta arte moderna coincideva con la società moderna nascente, che vedeva New York come luogo del progresso in tutti i campi.
Per un decennio organizzò mostre in spazi in affitto e dal 1939 ebbe una sede definitiva progettata da Edward Durell Stone e Philip Goodwin, in quello che ancora oggi è parte di un insediamento che durante tutto il secolo (e ancora definitivamente all’inizio del nuovo millennio con un progetto di Yoshio Taniguchi) si è sviluppato e ampliato per dare continue risposte a nuove esigenze di spazio, evitando derive iconiche o monumentali. 
In questo concetto moderno di museo l’arte si poteva esprimere in nuovi modi diversificati, tra cui architettura (celebri le mostre sull’International Style del 1932 e quella prima sul Bauhaus nel 1938), design industriale, fotografia, teatro, oltre a pitture, disegni, stampe e sculture, esposte da subito anche all’aperto, nel giardino dedicato: l’idea originale di un “terreno di prova per le opere” in relazione al pubblico, si unisce alle prime mostre “critiche”, tematiche e comparative sui grandi maestri moderni, e a un’idea di diffusione attraverso un “Dipartimento delle Mostre Circolanti”, uno per le “Pubblicazioni”, e un “Centro Pubblico d’Arte”, in cui bambini e cittadini potevano cimentarsi con il fare artistico.

  • Philip L. Goodwin, Edward Durell Stone
  • John McAndre, Alfred H. Barr Junior
  • Yoshio Taniguchi
  • Diller Scofidio + Renfro e Gensler
SRGM New York

Foto David Heald © Solomon R. Guggenheim Foundation

Guggenheim Museum New York, USA, 1959

Foto David Heald © Solomon R. Guggenheim Foundation

Guggenheim Museum New York, USA, 1959

Foto David Heald © Solomon R. Guggenheim Foundation

Guggenheim Museum New York, USA, 1959

Foto David Heald © Solomon R. Guggenheim Foundation

SRGM New York

Foto David Heald © Solomon R. Guggenheim Foundation

Guggenheim Museum New York, USA, 1959

Foto David Heald © Solomon R. Guggenheim Foundation

Guggenheim Museum New York, USA, 1959

Foto David Heald © Solomon R. Guggenheim Foundation

Unico episodio museale nella sterminata produzione di Frank Lloyd Wright, questo suo capolavoro pubblico è stato concluso postumo, dopo una lunga e travagliata storia, iniziata nel 1943, legata anche alla sua morfologia originale e dirompente: un manifesto di quella “architettura organica” nel cuore della città verticale, affacciato sul suo polmone verde centrale. L’innovazione principale stava nel lavorare sulla sezione, portando i visitatori in quota direttamente con un ascensore, per poi farli ridiscendere lentamente lungo una rampa, un percorso ininterrotto a spirale, dove vedere le opere alle pareti o affacciarsi sul vuoto interno verso una piccola “piazza” centrale, illuminata da una grande cupola. Fin dalle prime idee le discussioni sull’imponenza dell’architettura, che diventava predominante rispetto al suo contenuto, e sulla sua funzionalità, messa in dubbio dalla possibilità di esporre bene quadri su muri curvi e obliqui, animarono il dibattito artistico e architettonico americano e internazionale, mettendo bene in luce rapporto architetto-committente, complesso ma di livello eccezionale. A metà degli anni ’80 l’architettura venne ampliata e integrata su una piccola porzione di terreno dove già in origine era prevista una estensione. Tra le varie ipotesi postmoderne di Gwathmey & Siegel, la versione definitiva ha dato alla “rotonda” di Wright un fondale astratto, che contiene un edificio di servizio con uffici e nuove gallerie espositive.

  • Frank Lloyd Wright
The Whitney Museum of American Art, New York, USA, 1966. Foto Ben Gancsos

Insieme al MoMA e al Guggenheim, il Whitney Museum è il terzo importante polo che New York dedicò negli anni ‘30 all’arte moderna, anch’esso fondato da una visionaria mecenate – Gertrude Vanderbilt Whitney – e stavolta dedicato ad autori di origine americana. Il progetto di Marcel Breuer per una collezione di qualche migliaio di opere accumulatasi in un primo trentennio di attività è radicale: un grande ziggurat capovolto e introverso, con grandi sale sovrapposte ortogonali, luce artificiale e zenitale, aperture “cubista” per la luce naturale, molteplici  e distribuite sul lato nord, concentrate in una sola iconica versione XL sulla facciata principale. Sotto questa massa imponente, a livello stradale, una scultorea e leggera pensilina a sbalzo copre un ponte sospeso sopra il giardino delle sculture, verso il foyer di ingresso. Dall’idea di ampliamento emersa negli ani’80, dopo un nulla di fatto per le proposte di Graves e di OMA, si passa ad un cambio di sede affidato a Renzo Piano: nel 2015 l’intera collezione, (ormai decine di migliaia di opere) ha trovato collocazione in un altro luogo, un edificio antimonumentale e funzionale, articolato e permeabile: una “grande fabbrica” per l’arte, un “condensatore sociale” in un nuovo distretto culturale ed ex-industriale.
L’architettura di Breuer, svuotata, ospita attività espositive temporanee, prima per il Metropolitan Museum of Art (MET Breuer), e poi per la Frick Collection (Frick Madison) che fino al 2024 usa gli spazi durante il periodo di rinnovamento della sua sede storica. 

  • Renzo Piano
Peace Memorial Museum, Hiroshima, Giappone, 1955. Foto panithi33

La prima presenza su Domus di Kenzo Tange è anche una dichiarazione d’intento del suo direttore, Gio Ponti, che attento alla nuova generazione degli architetti giapponesi che stavano emergendo nel dopoguerra con un nuovo linguaggio chiaro e universale, decide di pubblicare il progetto di un Museo della Pace in realizzazione proprio dove le bombe atomiche avevano chiuso la guerra mondiale. Sul sito distrutto dall’esplosione nucleare, il Giappone decise di realizzare un memoriale pubblico e urbano fatto di vari episodi architettonici, compresi i ruderi permanenti degli edifici distrutti, di cui questo museo è il centro. L’architettura lineare sospesa su piloni multiformi fronteggia su due lati il grande parco, custodisce reperti e ricostruisce la storia di questa tragedia, realizzando un luogo “sacro” ma laico, una “cappella dedicata alle anime delle vittime della guerra”. Questo progetto è inteso, nella lettura critica della sua pubblicazione, come contrario ai formalismi nazionalisti e perfetta celebrazione di uno stile moderno (Ponti scrive modernissimo) e finalmente internazionale, che potesse unire tutte le popolazioni nell’arte dell’architettura.

  • Kenzō Tange
Neue National Galerie, Berlino, Germania, 1968. © Staatliche Museen zu Berlin / David von Becker

L’ultimo capolavoro di Ludwig Mies Van Der Rohe che, lasciata la Germania da ultimo direttore della Bauhaus, ed espatriato negli Stati Uniti per una nuova leggendaria fase della sua carriera, torna in patria per questo progetto emblematico di tutta la sua poetica. Architettura moderna di “essenziale classicità”, omaggio al neoclassicismo di Carl Friedrich Schinkel e al suo Altes Museum dedicato all’arte antica, la Neue National Galerie è il centro di un nuovo Kulturforum pensato nel secondo dopoguerra, in una città rasa al suolo che rinasce con l’arte in tutte le sue forme, comprese musica e letteratura la filarmonica e la biblioteca di Hans Scharoun . Collocata alla sommità di un basamento che fa da podio, come un tempio di architettura moderna, custodisce ed espone in un contenitore seminterrato la collezione permanente, che si affaccia su una corte aperta protetta da un alto muro; al di sopra, l’ingresso e le mostre temporanee sono ospitati all’ombra di una copertura piatta a pianta quadrata, pura e “antica” ma nera e di acciaio, con lato di 50 metri e facciate continue tutte vetrate e trasparenti. Otto grandi pilastri composti con profili metallici industriali a sezione cruciforme lasciano liberi gli angoli del volume e sorreggono una spessa piastra che fluttua sullo spazio libero. Nel 2021 si è concluso un lungo e lento restauro filologico del moderno, condotto da David Chipperfield Architects, e oggi il museo con ogni suo dettaglio è tornato all’originario splendore.

  • Ludwig Mies Van Der Rohe
  • David Chipperfield Architects
MASP, Museu de Arte de São Paulo São Paulo, Brazil, 1968

Courtesy MASP

MASP, Museu de Arte de São Paulo São Paulo, Brazil, 1968

Courtesy MASP

MASP, Museu de Arte de São Paulo São Paulo, Brazil, 1968

Courtesy MASP

MASP, Museu de Arte de São Paulo São Paulo, Brazil, 1968

Courtesy MASP

MASP, Museu de Arte de São Paulo São Paulo, Brazil, 1968

Courtesy MASP

Lina Bo è stata una vera pasionaria dell’architettura moderna, una delle rare autrici affermate e internazionali, tanto radicale e visionaria quanto sensibile e attenta alle istanze sociali del progetto come strumento comunitario. Nell’immediato secondo dopoguerra, con il marito e critico d’arte Pietro Maria Bardi, lascia l’Italia per il Brasile dove si stabiliscono e naturalizzano, collaborando alla nascita di questo museo, il primo dedicato all’arte moderna e con la più grande collezione di arte europea del Sud America. Il progetto, durato una decina d’anni, si nutre delle diverse esperienze di Bo Bardi in vari contesti del Brasile, e il risultato è un caratteristico edificio a ponte sotto il quale si conforma uno spazio pubblico aperto. Con l’idea provocatoria di costruire un “anti-museo”, ovvero contro l’ipotesi di una architettura statica divisa tradizionalmente in stanze, l’edificio brutalista in cemento e vetro è composto da due grandi “cavalletti” strutturali dipinti di rosso, che sorreggono un contenitore trasparente a due piani in cui la pianta è libera da ogni ostacolo interno. Lina Bo Bardi progetta anche l’allestimento delle opere della collezione permanente (messo lentamente in disparte, poi recentemente ripristinato nell’idea originale) con cui vuole rinnovare anche il modello tradizionale di fruizione in un percorso continuo e lineare a favore di un percorso dove al visitatore, non guidato, si richiede una partecipazione offrendo un orientamento libero.

  • Lina Bo Bardi
  • Júlio Neves studio Metro Arquitetos Associados con Martin Corullon e Gustavo Cedroni
Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Louisiana Museum of Modern Art, Copenhagen Courtesy Louisiana Museum of Modern Art

Immersi in un parco, una vecchia villa neoclassica che dà il nome al museo e alcuni padiglioni indipendenti con i relativi collegamenti creano un organismo integrale con percorso ad anello continuo che circoscrive un giardino delle sculture che si affaccia sul mare del Nord. Ideato e diretto da Knud W. Jensen a metà degli anni ‘50, prima come necessaria piattaforma per valorizzare l’arte moderna scandinava e subito dopo per diventare un polo internazionale di arti contemporanee, si è sviluppato nei decenni con continue progressive integrazioni progettate da Jørgen Bo e Vilhelm Wohlert. L’architettura qui dà casa a tutte le espressioni dell’arte, tra pittura e scultura ma anche musica, cinema e design: un museo tanto discreto nella sua architettura, che pur dichiarandosi trova un perfetto equilibrio con la natura, quanto attraente per un pubblico eterogeneo che visita i suoi spazi interni ed esterni senza soluzione di continuità, trovando un giusto ritmo tra accoglienza e stimolo, momenti di concentrazione e momenti di distensione.

  • Jørgen Bo, Wilhelm Wohlert con Claus Wohlert
Denver Art Museum, Denver, USA, 1971. Foto Maciek Lulko da Flickr

Uno dei primi musei iconici realizzati per rigenerare un territorio fuori dalle geografie canoniche dell’arte, alle pendici delle Rocky Mountains: Ponti, appena compiuti 80 anni, realizza insieme a Joal Cronenwett e James Sudler un’architettura manifesto che riassume e concretizza perfettamente il suo pensiero a fine carriera, e quella “Architettura [che] è un cristallo”. Una torre asimmetrica di sette piani e ventiquattro facce è rivestita di piastrelle tridimensionali, poligonali e scintillanti, “tranelli per catturare la luce” che trasformano superfici opache in facciate brillanti. Non ci sono finestre ma feritoie lunghe e strette, verticali e orizzontali che proteggono regolano una luce naturale potente, lasciando percepire da dentro le vedute della città e delle montagne. Innovativo, il museo volutamente non si “intona” con il contesto anonimo costruito – non senza polemiche iniziali – ma dialoga con cielo, sole, paesaggio e siccome “l’arte è un tesoro da difendere”, è pensato da Ponti come un luogo sicuro, un castello.
Un recinto aereo libero e curvilineo che dialoga con i venti disegna un coronamento mai visto, paragonato a una “composizione musicale (music - muses - museum)”. Ponti stesso, presentando il museo in un articolo, enuncia appassionato: “nulla fu creato che non fosse dinanzi sognato”. Nel 2006 un ampliamento di Daniel Libeskind ha collegato volumi acuminati all’edificio originario per sale espositive, mentre con un recente accurato restauro con integrazioni sono arrivati un nuovo atrio e spazi di accoglienza.

  • Gio Ponti
  • Daniel Libeskind
  • Machado Silvetti Architects, Fentress Architects
Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Robert LaPrelle

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

Kimbell Art Museum, Fort Worth, USA, 1972

Foto Iwan Baan

La poetica progettuale di Louis Kahn trova in questo edificio museale una sintesi perfetta tra forma e funzione, proporzione, distribuzione, materia e luce. Ubicato al centro di un parco urbano e composto da una bassa sequenza di sale longitudinali parallele e voltate, il Kimbell trova la sua prima ragione d’essere nella qualità luminosa ricercata da Kahn per valorizzare al meglio le opere gelosamente custodite in ambienti tanto classici quanto metafisici. Una luce zenitale pura proviene dal centro delle volte in cemento a vista, attraverso aperture filtrate con riflettori ondulati di alluminio perforato, mentre un altro tipo di luce più terrena e orizzontale proviene da sottili tagli sulle facciate delle corti interne aperte, e dal perimetro esterno in cemento e travertino. L'area circostante è ricca di altre architetture museali significative, dall’Amon Carter Museum di Philip Johnson al Museum of Art di Tadao Ando, fino all’ultimo intervento che riguarda proprio l’ampliamento del Kimbell Museum, operato da Renzo Piano nel 2013. Nel rispetto della scala progettuale e della distribuzione spaziale generale, la nuova ala di Piano, che aggiunge sale per mostre temporanee e un auditorium, si caratterizza per un impianto più aperto con perimetri più trasparenti, pur riservando grande attenzione alla distribuzione luminosa zenitale per la valorizzazione delle opere.

  • Louis Kahn
  • Renzo Piano (Rpbw Architects)
Centre National d’Art et de Culture Georges Pompidou, Parigi, Francia, 1977. Foto sissoupitch da Adobe Stock

Questo progetto è stato da subito un caso straordinario di innovazione tipologica che ha cambiato le sorti di molti nuovi musei del mondo. Al concorso internazionale parteciparono quasi settecento progetti e il gruppo vincitore, costituito dai giovanissimi Renzo Piano e Richard Rogers insieme a Gianfranco Franchini, propose l’idea radicale di una nuovissima “macchina per esporre”. Una mastodontica astronave atterrata nell’antico contesto cittadino per occuparsi dichiaratamente di cultura contemporanea e futuro, come un nuovo “centro di informazione operante” in collegamento con tutto il mondo delle arti, del design, della letteratura, della musica e del cinema. Una ampia piazza inclinata che crea unità urbana tramite la continuità spaziale conduce all’ingresso sotto la facciata principale, di cinque alti piani fuori terra, combinazione delle giganteggianti strutture a vista che creano ballatoi orizzontali e della caratteristica sequenza diagonale delle rampe di scale estroflesse. L’edificio, e la sua lunga gestazione e realizzazione, suscitò non poche iniziali polemiche e proteste per il suo programma anticonvenzionale, che volle proporsi come dirompente in anni in cui la cultura chiedeva azioni coraggiose e lungimiranti. Tanto che ancora oggi questo museo è uno “strumento” attualissimo al servizio dell’arte, ammirato in tutto il mondo.

  • Renzo Piano, Richard Rogers con Gianfranco Franchini e Susan Jane Brumwell
Musée d'Orsay, Parigi, Francia, 1986. Foto Sophie Crépy

Un altro museo parigino, un’altra architettura “italiana”, ma con presupposti opposti rispetto alla rivoluzione portata dal Beaubourg. Progettato da Gae Aulenti, in una vecchia stazione ferroviaria, e dedicato all’arte dell’Ottocento, il Musée d’Orsay punta, pur con un linguaggio dagli accenni postmoderni a celebrare il periodo rappresentato dalle collezioni esposte. L’aspetto decorativo è molto presente nelle opere, per questo l’architettura ha voluto invece lavorare con sobrietà e rigore formale per trasformare l’ideale brulicare dei passeggeri della vecchia stazione in un quieto scorrere dei visitatori nel nuovo museo. Sotto la grande volta illuminata e decorata, la struttura monolitica e statica dei margini diventa tridimensionale e articolata, grazie ad un impianto distributivo unitario in lunghezza, organizzato su una sezione inclinata a gradoni ascendenti. Le opere vengono distribuite e ordinate per aree eterogenee che permettono di creare nuove relazioni tra i molti linguaggi e tecniche di quell’eroico periodo industriale che precedeva e produceva gli stimoli per le successive avanguardie artistiche.

  • Gae Aulenti
  • Victor Laloux
  • Gae Aulenti, Valérle Bergeron, Monique Bonadei, Giuseppe Raboni, Luc Richard, Marc Vareille, Emanuela Brignone, Colette Chehab, François Cohen, Nasrine Faghi, André Friedli, Pietro Ghezzi, Francois Lemaire, Yves Murith, Margherita Palli, Italo Rota, Jean-Marc Ruffieux, Gérard Saint Jean, Takashi Shimura
  • Piero Castiglioni
  • Estudio Campana
Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Carlo Alberto Alessi

Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Carlo Alberto Alessi

Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Carlo Alberto Alessi

Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Carlo Alberto Alessi

Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Carlo Alberto Alessi

Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Carlo Alberto Alessi

Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Daria Vinco

Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Daria Vinco

Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Jacopo Baccani

Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e di Palazzo Rosso, Genova, Italia

Foto Jacopo Baccani

Nell’Italia del secondo dopoguerra si era attivato un dibattito intellettuale e culturale che ha coinvolto architetti, urbanisti, storici, critici e direttori di musei, rivolto ai temi della ricostruzione dei centri storici, del rapporto tra antico e moderno, del restauro di edifici monumentali e della loro destinazione museale. Molti di quegli edifici che costituiscono il patrimonio artistico e culturale delle città, e che prima erano privati e destinati a residenza da secoli, venivano offerti all'uso pubblico con la nuova funzione di esporre opere d’arte alla cittadinanza. Franco Albini è stato uno degli autori che prima di tutti ha affrontato con progetti ancora oggi insuperati, questo tema di una nuova museografia. A Genova, a partire dalla fine degli anni '40, ha progettato e riconfigurato tre musei che insieme costituiscono un capitolo fondamentale dell'architettura degli interni e dell'allestimento, riconosciuti a livello mondiale. Le Gallerie Comunali di Palazzo Bianco e Palazzo Rosso, due edifici storici nobiliari collocati uno di fronte all'altro nel centro storico, e il Tesoro di San Lorenzo, collocato sotto la Cattedrale della città. Domus ha documentato questi capolavori, appena aperti al pubblico, tra parole dei cronisti dell'epoca, colme di uno stupore che ancora oggi genera l’entrare in questi luoghi, dove con pochissimo, con le idee chiare e lucide, Albini è riuscito a fare “miracoli”. Diceva lo stesso progettista, d’altronde, che “non esistono oggetti brutti, basta saperli esporre”.

  • Franco Albini
  • Pietro Antonio Corradi
PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, Italia, 1954. Foto Guido Cataldo

Milano non ha mai avuto un museo di arte contemporanea, che tecnicamente potrebbe essere considerato anche come una contraddizione in termini tra presente e passato, ma vanta un’altra tipologia per questo genere di programma: uno spazio disponibile, senza collezione. Si potrebbe chiamare Galleria, come in Europa si chiama Kunsthalle, ed è sostanzialmente un’architettura flessibile dedicata a mostre temporanee e sperimentali che indagano l’attualità delle arti. Ignazio Gardella subito dopo il secondo dopoguerra viene chiamato a progettare il Padiglione di Arte Contemporanea (P.A.C.) nei volumi che erano occupati dalle scuderie della vicina Villa Reale, presso i Giardini di Porta Venezia. La soluzione proposta e realizzata, che ancora oggi risulta perfetta per lo scopo, evoca termini come armonia, chiarezza, essenzialità e misura. Il padiglione è una sequenza ininterrotta di spazio continuo dove si differenziano tre zone a tre livelli: l’ambito primario delle alte navate parallele e modulabili con grandi ante mobili e luce zenitale diffusa, la galleria superiore senza aperture e con luce naturale condotta a cascata sui muri, e la galleria inferiore con grandi vetrate prospicenti il giardino privato. Un raffinato lavoro di architettura degli interni produce una naturale percorrenza tra i vari ambiti, identificati da superfici poligonali che “spiegano” lo spazio.

  • Ignazio Gardella
Musei Civici al Castello Sforzesco, Milano, Italia, 1956. Foto Strumet.polimi da Wikimedia Commons

Nell’ambito dei grandi lavori di ricostruzione, ristrutturazione e restauro di una Milano distrutta dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, il Castello Sforzesco viene coinvolto in una grande operazione di riqualificazione e ridestinazione funzionale che comprendeva il riordino delle gallerie dei Musei Civici intorno al Cortile della Rocchetta e alla Corte Ducale. Il dialogo tra le ricchissime collezioni legate alla storia della città, e l’architettura storica che le ospita – già museo di se stessa – genera, in una lunga sequenza di oggetti, nuove relazioni spaziali, occasioni per sostare concentrati, o scorrere attraverso il Castello. In un’epoca in cui l’architettura e la museografia italiana hanno fatto scuola nel mondo, lo studio B.B.P.R. contribuisce con questo progetto a scrivere un capitolo fondamentale, complesso quanto organico, focalizzato attorno all’ “architettura nell’architettura” creata per la Pietà Rondanini di Michelangelo. Vista la forte attrattività di questo corpo scultoreo, nel 1999 venne bandito un concorso internazionale per la sua risistemazione, vinto da un progetto di Alvaro Siza, mai realizzato. Nel 2015 dopo un lungo dibattito non privo di polemiche e critiche, si decide di trasferire la Pietà in un’ala indipendente, l’Ospedale Spagnolo, secondo un progetto di Michele De Lucchi, costituendo un museo indipendente fatto con una sola opera.

  • B.B.P.R.
  • Michele de Lucchi
Museo di Castelvecchio, Verona, Italia, 1956. Foto Thomas Nemeskeri da Flickr

Carlo Scarpa, quando intraprende il progetto di restauro e riqualificazione del Museo di Castelvecchio a Verona, ha già dato prova di raffinatissima pratica e ammirabile capacità di intervenire in un contesto storico esistente per allestire mostre temporanee e gallerie permanenti, come avvenuto per il Museo Nazionale di Palazzo Abatellis a Palermo (1954) e il Museo Gipsoteca Antonio Canova a Possagno (1957). Con Castelvecchio, Scarpa si immerge con ancora più cura, se possibile, e per un lungo periodo, nella nuova idea museografica del secondo dopoguerra, per cui dato un contenitore antico, l'architettura contemporanea lo studia, lo capisce, lo modifica e lo valorizza, anche con concessioni a nuovi interventi e demolizioni, allora anche criticate ma fortunatamente realizzate. Il suo lavoro è esemplare ancora oggi, fatto di pochi segni tutti pensati e disegnati fino al minimo dettaglio per valorizzare le opere e lo spazio contenitore. Il percorso lungo tutti corpi del castello è molto articolato ma le due parti principali, vicine al nuovo ingresso, si individuano al piano terra con la galleria delle sculture e al primo piano con le pitture, dove ogni posizione – ogni basamento o sostegno – è perfettamente studiata e ristudiata, allestita e riallestita, fino a trovare il giusto equilibrio spaziale tra sosta di contemplazione e dinamismo di percorrenza.

  • Carlo Scarpa con Arrigo Rudi e Carlo Maschietto
Scuderie Ducali e Galleria Nazionale della Pilotta, Parma, Italia, 1963 - 1983. Foto Sailko da Wikimedia Commons

In anni di ricostruzioni del patrimonio artistico e architettonico italiano, anche a Parma si pone la questione della musealizzazione di antiche residenze: il primo intervento riguarda le antiche scuderie della Pilotta, che dall’800 ha visto un progressivo ingresso di opere d’arte in luogo di militari e governatori al servizio dei Farnese. Il progettista, un giovane Guido Canali, non pensa all’imbalsamazione di un monumento architettonico bensì la sua partecipazione alla vita culturale. La coraggiosa sistemazione delle scuderie a sala mostre si confronta con le limitazioni date da numerosi elementi originali del XVII secolo, lentamente deturpati da un uso improprio: si adotta allora una lineare piattaforma centrale, isolata e sopraelevata, che conteneva impianti e dai cui bordi si ancoravano i pannelli espositivi e le strutture per le teche, oltre a tutte le attrezzature per l’illuminazione puntuale. Le superfici espositive, pannelli di legno rivestiti di tela tesa, erano quindi svincolate dal perimetro esistente.
A metà anni ‘80 Canali torna per un progetto molto più ambizioso e imponente dedicato alla Galleria Nazionale, con ampie travature metalliche a traliccio tubolare, assiti, cavi tesi, passerelle e passatoie per sorreggere tutti gli elementi espositivi e dare una sensazione di opera non finita, in progressione perpetua, un impianto adattabile per poter declinare tutte le necessità espositive.

  • Guido Canali
Pavillon Le Corbusier, Zurigo, Svizzera, 1967. Foto Roland zh da wikimedia commons

Originariamente pensato con il nome di “Maison de l’Homme” e destinato ad esporre la sua opera di design e architettura, questo museo è l’ultimo progetto realizzato da Le Corbusier, che purtroppo non lo vedrà finito, e sarà concluso postumo. Heidi Weber era una gallerista che promuoveva il suo lavoro e qui vuole creare un luogo espositivo ma impostato come una abitazione, un luogo da vivere ed abitare, dedicato ai problemi allora emergenti dell’architettura, dell’urbanistica e dell’arte. Unica realizzazione tra le tante del maestro svizzero costituita da una struttura metallica, è realizzata con soli profili industriali, lamiere e vetrate che, intorno al nucleo in cemento armato delle scale interne, vanno a creare un padiglione nel parco di Zurigo affacciato sul lago. Sotto una tettoia poligonale con falde contrapposte sorrette da snelli pilastri, si trova un volume cubico indipendente fatto di elementi prefabbricati e proporzionato sulle misure del Modulor. Le vetrate intervallano un gioco compositivo di pannelli orizzontali o verticali opachi, verniciati con i vari colori fondamentali e primari.

  • Le Corbusier
Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Courtesy Aalto2 Museum Centre

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Courtesy Aalto2 Museum Centre

Aalto2 Museum Centre Courtesy Aalto2 Museum Centre

Aalto2 Museum Centre Courtesy Aalto2 Museum Centre

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Aalto2 Museum Centre Foto Maija Holma © Alvar Aalto -säätiö, Alvar Aalto Foundation

Nel cuore della Finlandia, in una cittadina che ha visto la nascita e l’evoluzione dell’architettura di uno dei progettisti più importanti del XX secolo, si trova un museo progettato dallo stesso autore a cui è dedicato: Alvar Aalto. Inizialmente commissionato come Art Museum e pensato da Aalto stesso per mettere in collegamento le varie arti contemporanee con l’architettura, va ad affiancare il Museo della Finlandia centrale, altro edificio espositivo progettato in precedenza da Aalto. Visitare il Museo che porta il suo nome, ed è stato concepito per lo specifico scopo di mostrare il suo pensiero progettuale, non significa solo immergersi nel suo mondo personale tra documenti e storia, o nel suo mondo professionale tra design e architettura, ma è anche un’esperienza spaziale in sé che fa immergere il visitatore in una sorta di opera d’arte totalizzante. Un volume poligonale, rivestito di ceramiche bianche che tracciano modanature verticali, contiene al piano terra i servizi e un auditorium, mentre al primo piano si sviluppa una galleria espositiva. Nel 2023 lo studio A-Konsultit ha concluso un lungo lavoro di restauro e ampliamento del complesso museale, aggiungendo un corpo di ingresso e accoglienza con dei servizi comuni, che collega i due musei precedenti e li integra in un unico polo museale chiamato Aalto2.

  • Alvar Aalto
  • Arkkitehtitoimisto A-Konsultit
Bauhaus-Archiv, Berlino, Germania, 1979. Foto Joel Filipe da unsplash

Questo archivio-museo è un centro studi che celebra la storia della Bauhaus, scuola rivoluzionaria che in pochi anni cambiò le sorti della cultura progettuale del XX secolo. Nessuno meglio del suo inventore e direttore, Walter Gropius, poteva progettare questo museo, tornando a fine carriera sulla sua creatura fondamentale e immaginando un luogo, concluso postumo, che custodisse gli innumerevoli documenti e oggetti che ne mantengono viva la memoria.
Inizialmente pensato per la città di Darmstadt (dato che conferma l’importanza della Bauhaus in tutta la Germania e non solo nelle sue tre sedi ufficiali) l’edificio riadattato per Berlino porta con sé il linguaggio di una edilizia industriale, qui dedicata alla produzione di cultura, con il caratteristico profilo della copertura a shed realizzata per beneficiare al meglio della luce naturale a favore delle opere esposte.
Gli spazi per mostre erano limitati rispetto agli spazi di deposito dell’archivio, ma l’interesse del pubblico cresceva, quindi in occasione dei cento anni dalla fondazione della scuola sono banditi concorsi di progettazione per ampliare il sito di Berlino (vincitori Staab Architekten, in corso) e realizzare nuovi musei nelle altre due città fondamentali, Weimar dove tutto è cominciato  (Heike Hanada, 2019), e Dessau dove tutto si è sviluppato (addenda architects, 2019) e dove ancora si trova – museo di sé perfettamente preservato – il capolavoro dell’edificio per la scuola, progettato dallo stesso Gropius nel 1925.

  • Walter Gropius
  • Staab Architekten
Vitra Design Museum, Weil am Rhein, Germania, 1989. Foto Bogdan Lazar da Adobe Stock

L’edificio di Frank Gehry per l’azienda svizzera di arredamento Vitra può essere considerato il primo museo totalmente dedicato a valorizzare il design come produzione industriale, inizialmente attraverso una grande collezione di sedute e lampade che la proprietà dell’azienda ha accumulato nei decenni, e poi attraverso un programma articolato di mostre tematiche. Il museo saputo poi trasformare queste mostre in un “prodotto culturale” su cui investire creandone un mercato, con l’offerta di ripetizioni e adeguamenti da far girare nel mondo per lungo tempo. L’architettura, la prima realizzata da Gehry in Europa assieme ad un capannone industriale in prossimità, è anche tra i primi progetti riconosciuti di linguaggio decostruttivista. Il volume irregolare, fatto di spazi curvilinei che si espandono liberamente in lungo, in largo e in alto cercando di catturare la luce naturale, pone da subito il tema di un contenitore per l’arte, che alcuni critici vorrebbero il più neutro possibile. Oggi il Vitra Design Museum è parte del Vitra Campus, un vero museo di architettura contemporanea a cielo aperto in cui molti dei più importanti protagonisti hanno lasciato un segno, da Tadao Ando a Zaha Hadid, da Alvaro Siza a Sanaa, da Renzo Piano a Herzog & de Meuron. Questi ultimi, oltre all’innovativo showroom Vitra House, nel 2016 hanno realizzato lo Schaudepot, ultimo intervento museale dedicato esclusivamente all’esposizione e valorizzazione di quella collezione permanente da cui tutto era cominciato.

  • Frank Gehry (Edificio principale), Zaha Hadid, Nicholas Grimshaw, Álvaro Siza, Tadao Andō, Renzo Piano, Herzog & de Meuron
Teatro dell’architettura, Mendrisio, Svizzera, 2017. Foto Enrico Cano

Mario Botta ha realizzato numerosi musei nel mondo, tra tutti il più grande e noto è sicuramente il MoMA di San Francisco (1995). Questo progetto recente però testimonia al meglio l’importanza dell’apporto culturale di Botta nell’ambito della formazione architettonica, cominciato con la fondazione dell’Accademia di Architettura di Mendrisio (1996): si chiude così un primo ciclo di venti anni, integrando le funzioni del campus svizzero, sottolineando sfumature più significative e valori che rendono il progetto ancora più importante e collegato alla società. Con il nome di “teatro” viene realizzato uno spazio espositivo museale abbastanza unico nel suo genere, in cui mettere in scena tutte le variabili e le connessioni dell’architettura con le altre scienze e arti, dal design a moda, fotografia, cinema, danza, musica, letteratura. La tipologia riprende quella dei teatri anatomici, dove intorno ad uno spazio centrale si trovano balconate a vari livelli da cui osservare l’esperienza dal vivo. Il risultato vede un volume cilindrico monolitico di tre livelli fuori terra, con all’interno un cubo vuoto a disposizione, circondato dalle generose gallerie, affacciate sullo spazio a tutta altezza, dove estendere le esposizioni, il tutto sovrastato da una volta luminosa a tenda.

  • Mario Botta
Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

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Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Lascaux IV - Centre International de l’Art Pariétal Montignac, Francia, 2016

Foto © Boegly+Grazia

Il sito di Lascaux è il “museo” più antico del mondo, dove circa 20.000 anni fa i nostri antenati si cimentavano con la pittura rupestre per definire un luogo rituale nel ventre gravido della terra. Non si conoscono ancora bene l’origine e la ragione di questi disegni, ma questo luogo magico rappresenta il punto di partenza più lontano mai scoperto della nostra cultura progettuale, artistica e architettonica. Archeologia e architettura hanno la stessa radice e qui si sovrappongono alla perfezione, una con lo sguardo al passato, l’altra con l’attenzione al futuro. Il nuovo museo, ultima di una serie di strutture satellite di ricerca e servizio dedicate al patrimonio protetto delle caverne dipinte, è destinato alla divulgazione più pubblica e didattica. L’architettura ad opera di Snøhetta e Sra è un corpo compatto e serpeggiante che determina una grande faglia nel terreno, con antri artificiali dove si trovano gli spazi espositivi che raccontano la storia antichissima del luogo. L’attrazione più sorprendente, disegnata dallo studio Casson Mann e che potrebbe riaprire il dibattito moderno tra originale e copia, è la ricostruzione scenografica fedelissima e in tre dimensioni di brani delle volte dipinte sotto le quali comprendere questo primo capolavoro artistico dell’umanità.

  • Snøhetta e Sra Architectes, con Duncan Lewis Scape Architecture
  • Casson Mann
La Congiunta, Giornico, Svizzera, 1992

Foto © Studio Märkli 

La Congiunta, Giornico, Svizzera, 1992

Foto © Studio Märkli 

La Congiunta, Giornico, Svizzera, 1992

Foto © Studio Märkli 

La Congiunta, Giornico, Svizzera, 1992

Foto © Studio Märkli 

La Congiunta, Giornico, Svizzera, 1992

Foto © Studio Märkli 

Questa speciale architettura non è un vero e proprio museo: è però possibile definirla come una “casa per le sculture”, un luogo dove Peter Märkli ha progettato lo spazio per la dimora duratura del lavoro dell’artista e scultore svizzero Hans Josephsohn. L’architetto non ha voluto in origine dichiararsi come autore, volendo sottolineare che a volte, come in questo caso, l’architettura può essere “espressione di un atteggiamento collettivo e non di una attività individuale”. Isolato, in mezzo ai campi alle pendici del Gottardo e un po’ nascosto – a suggerire che l’arte chiede di essere cercata – questo padiglione espositivo è un corpo in linea di cemento armato grezzo, una galleria con tre diverse altezze e una dorsale di lucernari a ponte che catturano la luce e la riversano nei nudi spazi interni. Qui le sculture e i bassorilievi, in un’atmosfera rarefatta e sospesa, trovano collocazioni precise, a parete o a pavimento, in piccoli gruppi o isolate, o in una sequenza di piccole cellette che valorizzano al meglio l’opera e il rapporto singolare con l’osservatore. Solo una piccola porta sul lato corto a nord individua l’ingresso. È quasi sempre chiusa, come inaccessibile, ma basta andare all’unica osteria del paese chiedendo la chiave, e questa verrà regolarmente consegnata al visitatore che liberamente, in solitudine e in responsabilità potrà fare la sua esperienza tra l’arte e l’architettura.

  • Peter Märkli
Teshima Art Museum, Teshima, Giappone, 2010. Foto sima-box da Adobe Stock

La divisione tra contenuto e contenitore, tra opera e museo, a volte si può fare sottilissima. Questa architettura progettata da Ryue Nishizawa (socio di Kazuyo Sejima in Sanaa, che sviluppa anche progetti in autonomia) è stata ideata e pensata con Rei Naito, artista giapponese che lavora con opere ultraminimaliste, tra arte concettuale e arte ambientale. Un’unica sottile membrana di cemento armato genera curvilinei volumi collinari, che emergono tra i campi ondulati e i boschi di un’isola del mare interno di Seto, in Giappone. Sono due bolle, una più piccola destinata ad un caffè e uno shop, mentre l’altra più ampia è destinata all’esperienza estetica messa in scena dall’artista. Uno spazio sensoriale in cui, sotto la volta bucata da due grandi oculi circolari, luce, aria e acqua, sole o pioggia, compongono l’atmosfera ideale per contemplare le opere che rimandano ai fenomeni naturali. Nastri leggeri pendono occasionalmente dal soffitto muovendosi all’aria, mentre gocce d’acqua emergono dal pavimento (la speciale invenzione di un dispositivo a permeabilizzazione capillare unilaterale), e confluiscono scivolando in pozze superficiali che con il clima delle stagioni si allargano o restringono evaporando. Questo museo è parte di un ampio piano di interventi architettonici che la fondazione Naoshima Fukutake Art Museum e la Benesse Corporation hanno portato avanti nelle varie isole del mare interno giapponese, come strategia per contrastare il declino di quest'area geografica puntando sul turismo colto. 

  • Ryue Nishizawa (Sanaa), Rei Naito
Iberê Camargo Foundation, Porto Alegre, Brasile, 2008. Foto Ricardo Rmx da Wikimedia Commons

Questo museo è il primo edificio che il grande maestro dell’architettura portoghese Alvaro Siza, ha realizzato in Brasile, per ospitare tutte le opere e le attività della fondazione dedicata a uno dei più importanti pittori espressionisti del Paese, Iberê Camargo. Oltre a una parte ipogea sviluppata dentro il versante della collina boscosa con auditorium, biblioteca e servizi di accoglienza, l’edificio ha il suo nucleo centrale in un prisma in cemento bianco sfaccettato e torreggiante su quattro livelli, che ospitano le varie gallerie affacciate su un vuoto interno a tutta altezza. Attorno ad esso si sviluppa una teoria di rampe e piani inclinati, una promenade architecturale distribuita sui vari livelli, a volte interna altre esterna al volume. Le rampe aeree di circolazione che si distaccano dal corpo museale e rimangono in impressionante sospensione come rami di un albero, offrono ai visitatori che le percorrono viste peculiari del paesaggio naturale circostante, e definiscono una caratteristica e inconsueta facciata di accesso per il museo, facendone un landmark attrattivo affacciato sul grande fiume.

  • Alvaro Siza
Yaoko Kawagoe Museum, Kawagoe, Giappone, 2011. Courtesy Yaoko Kawagoe Museum

Nei sobborghi di una metropoli sconfinata come Tokyo, un piccolo museo sostenuto da una commissione privata e dedicato al pittore giapponese Yuji Misu, determina un punto di attrazione e aggregazione per tutta l’area, in relazione con il pubblico del quartiere. Toyo Ito non rinuncia alla possibilità di sviluppare un’idea tipologica, sperimentale e specifica, attraverso un progetto di cui le dimensioni ridotte non riducono minimamente l’interesse. L’edificio ha un unico piano a pianta quadrata, con una divisione interna cruciforme e curvilinea che definisce quattro ambienti: due dedicati ad accoglienza e spazio di comunità per il vicinato, e due per l’esposizione delle opere pittoriche. Un grande cono paraboloide si estroflette dal basso per condurre la luce artificiale dentro la prima di queste sale, mentre un altro si introflette dall’alto per condurre la luce naturale nella seconda, caratterizzando l’esposizione  dei quadri alle pareti, divisi secondo i due diversi periodi nel linguaggio dell’artista. In un percorso circolare di ingresso, visione, sosta e riflessione, isolandosi dal contesto esterno ma sviluppando una griglia planimetrica emergente da riferimenti urbanistici, Ito riesce in modo quasi impercettibile ma sensibile a caratterizzare questa piccola occasione museale con l’esperienza degli spazi interni.

  • Toyo Ito
Fondation Cartier pour l’art contemporaine, Parigi, Francia, 1994. © Luc Boegly

Ci sono architetti che hanno guardato all’utopia di un’architettura smaterializzata, e tra questi potrebbe figurare Jean Nouvel, che con questo edificio realizza un “fantasma nel parco”. Dietro un recinto di alte facciate di vetro come grandi quinte scenografiche urbane, appaiono, traspaiono e si riflettono gli alberi e una flora rigogliosa, che cinge, protegge e integra un corpo edilizio compatto fatto invece di pura tecnologia. La struttura regolare e sottile di acciaio e le campiture totali in vetro, donano leggerezza alla massa e rendono i confini tangibili dell’involucro sfumati ed evanescenti. La sala espositiva a doppia altezza del piano terra è trasparente, apribile, inondata di luce, e la vegetazione esterna del giardino fa da sfondo naturale ad ogni opera che viene accolta e messa in scena.
Nei piani superiori si sviluppano e distribuiscono gli uffici dedicati alla grande attività di ricerca e promozione per il mondo dell’arte contemporanea di questa fondazione, e anche qui Nouvel ha voluto creare degli ambienti dove il rapporto interno-esterno si fa immediato.

  • Jean Nouvel
Beyeler Foundation, Riehen, 1997

Foto Mark Niedermann

Beyeler Foundation, Riehen, 1997

Foto Mark Niedermann

Beyeler Foundation, Riehen, 1997

Foto Mark Niedermann

Beyeler Foundation, Riehen, 1997

Foto Mark Niedermann

Beyeler Foundation, Riehen, 1997

Foto Mark Niedermann

Beyeler Foundation, Riehen, 1997

Foto Mark Niedermann

Chiamato da Ernst Beyeler per un’architettura che custodisse e rendesse pubblica una delle più importanti collezioni private di arte moderna, Renzo Piano intraprende un sofisticatissimo lavoro di determinazione delle qualità primarie spaziali legate alla visione delle opere, con la luce più naturale possibile. Progetta una “scatola chiusa” con un coperchio di vetro, in cui si crea il più armonioso rapporto di natura, spazio, luce e arte. Su un lotto stretto e lungo, ai margini di un parco recintato, l’architetto lavora tipologicamente sul muro che lo cinge, dividendolo e moltiplicandolo per articolare gli spazi: il tipico “meccanismo per la produzione di differenza” diventa invece il luogo della uguaglianza, della comunità, per un’esperienza collettiva dell’arte. Lunghi muri di pietra rossa tipica del territorio determinano quindi tre navate parallele ma intervallate, un percorso libero e protetto, episodicamente aperto al paesaggio, come nel giardino d’inverno a ovest, affacciato sui campi e creato come momento di distensione per chi visita. Tra il trafficato bordo stradale da un lato e il quieto giardino dall’altro, il museo ha alle sue teste due specchi d’acqua, che restituiscono la luce calda e diretta del sud e quella fredda e indiretta del nord. Il lavoro sulla luce resta determinante poi all’interno, dove Piano lavora a una vera e propria canopy che – come le chiome degli alberi in natura – attraverso una tecnologia che mitiga adattivamente l’insolazione filtrandola, garantisce costantemente la massima qualità dell’esperienza visiva delle opere.

  • Renzo Piano (Rpbw Architects)
Palais de Tokyo, Parigi, Francia, 2002. Courtesy Florent Michel / 11h45

Manifesto di un atteggiamento innovativo e oggi attualissimo che per primi Lacaton & Vassal hanno introdotto a inizio ‘90, ovvero quello del recupero e della valorizzazione “economica e sociale” dell’architettura costruita e rinnovata, il progetto si sviluppa dentro una reliquia dell'Esposizione Universale del 1937, dal linguaggio monumentale tardo Déco, e più volte riutilizzato e abbandonato, sempre con finalità artistiche. Restava un contenitore architettonico integro ai margini ma dagli interni frastagliati, stratificati e ricchi di superfetazioni: con un’idea nuova di “postproduzione leggera” che valorizza l’esistente con tutti i suoi apparenti difetti, e usando programmaticamente il linguaggio del non finito – complice un budget ridottissimo – Lacaton & Vassal realizzano uno spazio che si rinnova continuamente e si trasforma progressivamente, dall’inaugurazione nel 2002 all’effettivo completamento nel 2012. Un intervento minimo per restituire urgentemente alla città un contenitore informale, flessibile, un vero centro di creazione per l’arte contemporanea in cui esporre, quasi in diretta, il processo artistico più che il prodotto, e l’indagine sull’arte del contemporaneo in relazione con le altre discipline. Presieduto dall’inizio dal critico Pierre Restany – di casa a Domus – questo nuovo museo si volle da subito collocare distante dai tradizionali circoli elitari, come spazio per “dare risposta alla fame di scambi e di incontri” delle nuove generazioni.

  • Lacaton & Vassal
  • Lina Ghotmeh
Pool architekten, Stapferhaus, Lenzburg, 2017-2018 Foto Ralph Feiner

Pool architekten, Stapferhaus, Lenzburg, 2017-2018 Courtesy Pool Architekten

Pool architekten, Stapferhaus, Lenzburg, 2017-2018 Foto Ralph Feiner

Pool architekten, Stapferhaus, Lenzburg, 2017-2018 Courtesy Pool Architekten

Pool architekten, Stapferhaus, Lenzburg, 2017-2018 Foto Ralph Feiner

Pool architekten, Stapferhaus, Lenzburg, 2017-2018 Courtesy Pool Architekten

Pool architekten, Stapferhaus, Lenzburg, 2017-2018 Foto Ralph Feiner

Pool architekten, Stapferhaus, Lenzburg, 2017-2018 Foto Ralph Feiner

Pool architekten, Stapferhaus, Lenzburg, 2017-2018 Foto Ralph Feiner

Uno dei musei più interessanti della contemporaneità per via del suo programma culturale ed espositivo mirato all’indagine dei temi più attuali e al massimo coinvolgimento di un pubblico generalista. La Stapferhaus nasce negli anni ‘60 come centro culturale, e solo nel 2019 trova finalmente “casa” in un edificio progettato ad hoc dallo studio pool architekten di Zurigo, vincitore di un concorso internazionale. La struttura programmatica dell’architettura è perfettamente aderente alle variabili della ricerca condotta dal team direttivo, e il risultato è un insieme di tre volumi regolari differenti per dimensione e funzione ma accomunati dalla struttura e dal rivestimento in legno di colore nero. Una caratteristica grande pergola di ingresso a cielo aperto determina una piazza di accoglienza, una torretta di accesso ospita biglietteria, caffetteria, bookshop e uffici, mentre sul retro il volume maggiore è quello espositivo, distribuito su due piani ma con la possibilità di riconfigurare scale, divisioni, finestre e passaggi secondo l’esigenza della mostra messa in scena.
In questo nuovo museo non si lavora solo con la tradizionale triade di curatela, ordinamento e allestimento, ma anche la drammaturgia è una disciplina invitata a stimolare la maggior partecipazione del pubblico spettatore.

  • Pool Architekten
Neue Staatsgalerie, Stoccarda, Germania, 1984

Courtesy Neue Staatsgalerie

Neue Staatsgalerie, Stoccarda, Germania, 1984

Courtesy Neue Staatsgalerie

Neue Staatsgalerie, Stoccarda, Germania, 1984

Courtesy Neue Staatsgalerie

Neue Staatsgalerie, Stoccarda, Germania, 1984

Courtesy Neue Staatsgalerie

Neue Staatsgalerie, Stoccarda, Germania, 1984

Courtesy Neue Staatsgalerie

La Nuova Galleria Nazionale d’Arte progettata da James Stirling è uno dei migliori esempi di quel periodo in cui i musei cominciavano a diventare dei complessi centri urbani attrattivi, che rivitalizzano un’area della città come luoghi di cultura e aggregazione. Il linguaggio utilizzato è stato definito postmoderno, frutto di lettura  della complessità che la società stava assorbendo e del contesto storico edilizio con cui si relaziona, in una città, tra l’altro, fortemente segnata dalle distruzioni della seconda guerra mondiale. Realizzato a fianco del vecchio museo neoclassico costruito nel 1837, il nuovo museo ne riprende l'impostazione tipologica e planimetrica a U, aggiungendo una interessante nuova configurazione di facciata, mediata da una serie di percorsi pedonali a più livelli che creano una nuova relazione con la città. L'alternanza di grandi e lunghi fronti murari in conci di pietra con strutture metalliche colorate che individuano i passaggi e gli accessi, rendono il perimetro esterno meno monumentale e più dinamico. Stirling stesso con questo museo ha voluto dichiarare la sua presenza attiva in un periodo nuovo nell’architettura (la fine di un secolo iniziato con il Movimento Moderno) che non separasse più i linguaggi ma anzi provasse a tenerli insieme: “Figurativo e Astratto, Monumentale e Informale, Tradizionale e High Tech... spero che siano leggibili tutti insieme in questo nuovo complesso di Stoccarda”.

  • James Stirling
Le Carré d’Art, Nîmes, Francia, 1992. Foto Rory Hide da Flickr

La sfida vinta da Norman Foster con il progetto di questa architettura era quella di mettere in relazione il nuovo con l’antico e contemporaneamente creare un’architettura che rappresentasse integralmente il proprio tempo. La tipologia eminentemente anni ‘80 della mediateca – che contiene solitamente libri, riviste, documenti audio e video – viene volutamente integrata con le arti visive, pittoriche e scultoree contemporanee. In luogo di un vecchio teatro neoclassico demolito, nel centro della città e proprio di fronte a un tempio romano perfettamente conservato, la Maison Carrée, Foster ha voluto realizzare un contenitore polifunzionale per offrire alle masse turistiche in arrivo un luogo di cultura e un punto privilegiato di osservazione, e quindi di consapevolezza artistica dei passaggi tra le epoche. L'edificio, che mantiene l'altezza dell'intorno urbano e ha una facciata con esili colonne che sostengono una copertura a sbalzo, si sviluppa in profondità nei sotterranei che vengono serviti e introdotti da una grande scala centrale “a cascata” in un ampio atrio coperto da un tetto vetrato che consente alla luce di permeare i vari piani sotto il livello stradale. Biblioteca, archivio e un cinema si collocano nei piani inferiori, al piano terreno si installano gli spazi di accoglienza, mentre fuori terra si trovano i livelli delle gallerie d'arte e infine un ristoro con terrazza coperta panoramica affacciata sulla piazza pedonale pubblica, e sul Tempio che ne è il cuore.

  • Norman Foster (Foster + Partners)
Kunsthal Rotterdam, Olanda, 1992. Courtesy Oma. Foto Ossip van Duivenbode

Questo museo dà forma all’approccio di Rem Koolhaas – una colta innovazione dell'architettura contemporanea attraverso la provocazione, in questo caso la messa in discussione della tipologia museale tradizionale – proponendo un organismo variegato i cui obiettivi travalicano il contenitore stesso, orientandosi verso una visione urbanistica di più ampio orizzonte, di relazione tra parti di città. L’architettura, che media tra dislivelli e salti di quota unendo un'arteria stradale molto trafficata con il parco dei musei di Rotterdam, si concretizza intorno al collegamento urbano attraverso piani inclinati e rampe che attraversano l'edificio come una dichiarata promenade architecturale.
Il complesso intreccio di piani e spazi, fatto con “strutture poeticamente ispirate dal programma”, ospita un auditorium, un ristorante e più di tremila metri quadri di superficie espositiva divisa tra ampie sale e intime gallerie. Kenneth Frampton che presenta l’opera sulle pagine di Domus, nota due ulteriori caratteristiche significative: una sorta di “ambiguità tettonica” – provocata dall'uso di materiali da rivestimento eterogenei, tra naturali e artificiali, che si integrano con strutture non ortogonali – e lo sviluppo di “un’idea grafica trattata come forma tridimensionale”. L’edificio, nato con lo scopo di diventare un condensatore sociale, ha un carattere teatrale, fatto di quinte fisse e mobili, di sorprese lungo i percorsi e soste che fanno dialogare interni ed esterni.

  • Rem Koolhaas, Fuminori Hoshino (Oma)
Groninger Museum, Groninga, Olanda, 1994. Courtesy Groninger Museum

Alessandro Mendini, insieme al fratello Francesco e ad Alchimia, torna al progetto di architettura pubblica dopo anni di assenza, con un intervento di rara complessità linguistica, spaziale e culturale. Posto su un canale come una nuova isola artificiale con due ponti pedonali che collegano centro città e stazione, inteso da Mendini come “una piccola acropoli gentile o un'arca di Noè per l'arte”, questo museo coinvolge da subito altri autori, ad ognuno dei quali è destinato un padiglione indipendentemente. Michele De Lucchi, Philippe Starck e Coop Himmelb(l)au vengono invitati a partecipare e a progettare ognuno un frammento del museo, che è diviso in diverse sezioni: archeologia e storia, arte applicata e decorativa, arte moderna e contemporanea. Mendini sovrintende i lavori come un regista, definisce gli spazi comuni e progetta direttamente la torre dorata di ingresso che è anche un archivio e deposito di opere. Basato sui concetti postmoderni di complessità e patchwork cari a Mendini, questo museo fu concepito come una “interferenza fra cattedrale, palcoscenico e casa”. All'interno gli ambienti sono molto variegati in modo da mostrare le opere in spazi attivi e non neutri, capaci di generare curiosità e attenzione, mentre esternamente ogni padiglione ha una propria identità visiva corrispondente alle varie sezioni culturali. Per il rinnovamento del 2010, Mendini venne richiamato a coordinare e invitò 3 altri designer contemporanei (Maarten Baas, Studio Job e Jaime Hayon) per lo sviluppo di ristorante, area lounge e info center.

  • Alessandro e Francesco Mendini, Alchimia con Philipe Starck, Michele de Lucchi, Coop Himmelb(l)au
  • Maarten Baas, Studio Job, Jaime Hayon
Getty Center, Los Angeles, USA, 1997

Photo Cassia Davis © 2022 J. Paul Getty Trust

Getty Center, Los Angeles, USA, 1997

Photo Cassia Davis © 2022 J. Paul Getty Trust

Getty Center, Los Angeles, USA, 1997

Photo Cassia Davis © 2022 J. Paul Getty Trust

Getty Center, Los Angeles, USA, 1997

Photo Cassia Davis © 2022 J. Paul Getty Trust

Getty Center, Los Angeles, USA, 1997

Photo Cassia Davis © 2022 J. Paul Getty Trust

Getty Center, Los Angeles, USA, 1997

Photo Cassia Davis © 2022 J. Paul Getty Trust

Getty Center, Los Angeles, USA, 1997

Photo Cassia Davis © 2022 J. Paul Getty Trust

Getty Center, Los Angeles, USA, 1997

Photo Cassia Davis © 2022 J. Paul Getty Trust

Getty Center, Los Angeles, USA, 1997

Photo Cassia Davis © 2022 J. Paul Getty Trust

Richard Meier si era più volte dedicato in tutto il mondo alla progettazione di musei innovativi per la loro epoca, da Atlanta, a Francoforte a Barcellona, ma questo può essere considerato il suo capolavoro, sia per estensione che per attrattività. Una vera e propria cittadella dell'arte, una acropoli contemporanea sulla cima di una collina a sud di Los Angeles, dalla quale si domina il paesaggio con la downtown all’orizzonte e l'oceano sterminato a fianco, e alla quale si ascende con una navetta su rotaia dedicata, che dal fondo valle si inerpica silenziosa fino alla soglia del piano di ingresso. Meier è stato incaricato di progettare un luogo che desse sede al programma privato e filantropico del J. Paul Getty Trust, tra i più grandiosi mai organizzati nella storia, dedicato all’acquisizione, conservazione e promozione delle culture delle arti. In questa collocazione isolata e monumentale, una serie di riferimenti morfologici si è trasformata in griglie sulle quali sono stati disposti edifici a padiglione di altezze omogenee, al fine di formare una vera e propria piccola aggregazione urbana, con le sue piazze, i sistemi di collegamento e un percorso continuo tra esterni ed interni, tra giardini e scalinate, corti ombreggiate e corpi in pieno sole. Il bianco domina, come linguaggio cromatico tipico dell'architetto, e i volumi cubici e cilindrici si alternano a basamenti e reticoli per offrire al visitatore un’esperienza totale.

  • Richard Meier
Guggenheim Museum, Bilbao, Spagna, 1997. Courtesy Guggenheim Bilbao

Il Guggenheim Museum di Bilbao di Frank Gehry è stato un punto di svolta nell'architettura contemporanea per il suo ruolo d'avanguardia nella riqualificazione di una parte ex industriale di città e per l’immagine pubblica attrattiva di un edificio monumento, una scultura architettonica da abitare, modellata con l’uso di nuove tecnologie informatiche. Anni dopo il suo primo intervento museale per il Vitra Design Museum, Gehry trova una maturità compositiva, strutturale e materica, che da qui prenderà il volo per innumerevoli altri progetti emblematici. È anche il caso di sottolineare che la fondazione che commissiona questo progetto è la stessa del museo di New York, che inizia così un piano di interventi nel mondo dove portare il proprio nome e la connessa cultura dell’arte. Posto sulle rive del fiume cittadino, nelle vicinanze di un ponte che collega il centro città, questo edificio si conforma e deforma tra una cultura architettonica postmodernista ormai passata e la leggerezza della fantasia morfologica futura, di ispirazione decostruttivista, ormai raggiungibile con le nuove tecniche e tecnologie costruttive. Il successo di questo museo che ha attirato milioni di turisti (e anche posizioni critiche sul servizio che l’architettura dovrebbe rendere all’arte da esporre) ha creato un concetto detto “Bilbao effect”, usato spesso nel discorso urbanistico per definire l’attrattività di un progetto di architettura rispetto a un territorio urbano da riqualificare.

  • Frank Gehry
Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Markus Tretter © Kunsthaus Bregenz

Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Markus Tretter © Kunsthaus Bregenz

Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Markus Tretter © Kunsthaus Bregenz

Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Markus Tretter © Kunsthaus Bregenz

Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Matthias Weissengruber © Kunsthaus Bregenz

Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Matthias Weissengruber © Kunsthaus Bregenz

Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Matthias Weissengruber © Kunsthaus Bregenz

Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Hélène Binet © Kunsthaus Bregenz

Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Hélène Binet © Kunsthaus Bregenz

Kunsthaus, Bregenz, 1997

Foto Hélène Binet © Kunsthaus Bregenz

Peter Zumthor ha abituato il suo pubblico ad aspettarsi opere architettoniche rigorose e meravigliose, fatte apparentemente col minimo degli elementi ma pronte a dare il massimo della loro espressività. La Kunsthaus di Bregenz è un'architettura fatta per la luce e con la luce, vera chiave progettuale per un museo d'arte visiva. Attraverso un ingegnoso sistema di intercapedini la luce proviene da ogni lato e penetra solo orizzontalmente illuminando tutti i soffitti delle varie sale uniambientali, prive di aperture e sovrapposte a comporre una torre di vetro. Il nucleo dell'edificio è di cemento armato e tre setti portanti ortogonali, distaccati dai perimetri, nascondono gli impianti di risalita liberando uno spazio quadrangolare costante ad ogni piano. L’involucro esterno è in lastre di vetro, senza cornici, ancorate con morsetti a vista e sovrapposte come scandole. Il risultato è un parallelepipedo luminoso, tanto discretamente attraente all’esterno (specie di notte quando è luminescente), quanto neutro e astratto all’interno per non interferire con visione e lettura delle opere. Il corpo cubico di vetro traslucido a pochi passi dalla riva del lago è isolato come gli altri edifici storici della costa cittadina e fa il paio con un altro piccolo edificio complementare, che contiene bookshop e caffetteria al piano terreno e gli uffici amministrativi nei due piani superiori. Questa sistemazione e integrazione traccia una nuova piazza, di pertinenza al nuovo museo e di mediazione tra lungolago e centro storico.

  • Peter Zumthor
Moderna Museet, Stoccolma, Svezia, 1998. Foto Holger Ellgaard da Wikicommons

Contro la spettacolarizzazione dell’architettura museale, Rafael Moneo propone per questo complesso un linguaggio discreto e pratico, ma non privo di poetica. Il corpo principale è quello del museo d’arte, il Moderna Museet, per il quale Moneo ha attentamente considerato la diversità di impatto visivo tra arrivo da terra – lungo il ponte che porta all'isola dove il complesso si colloca, e dal quale il museo ben integrato nella natura e nel contesto edilizio, quasi non si mostra – e arrivo da mare, dove il fronte continuo con la caratteristica copertura si rende evidente e immediato. Il volume dell’organismo architettonico si rende riconoscibile per il colore rosso ed i caratteristici padiglioni raggruppati a blocchi, chiusi all’esterno tranne che in eccezionali aperture sporgenti e quadrate, che orientano nel percorso dando momenti di sosta con scorci di paesaggio. Alla sommità delle coperture troncopiramidali, una moltiplicazione di lanterne cubiche versa luce naturale nelle sale, il cui disegno geometrico rigoroso non risulta costrittivo, ma offre libera organizzazione di spazi fruibili e flessibili. Il museo di architettura, oggi ArkDes, è stato realizzato successivamente come un corpo indipendente e diversificato, integrato in alcune preesistenze e con alcune funzioni in comune con il museo d’arte.

  • Rafael Moneo
Kiasma Museum, Helsinki, Finlandia, 1998. Courtesy Finnish National Gallery / Pirje Mykkänen

È il primo museo realizzato da Steven Holl, che fino ad allora aveva realizzato poche opere conducendo un piccolo studio come un atelier di progetti concettuali per nuove idee di architettura. Il progetto vince il concorso perché si dimostra il migliore nel complesso compito di risolvere contemporaneamente due scale di problemi, quella urbanistica e quella museografica. L’edificio doveva porsi come catalizzatore per una nuova sistemazione urbana, con il conseguente aumento di traffico di passaggio, e al tempo stesso doveva garantire i migliori ambienti, silenziosi e illuminati, dove fare esperienza diretta dell’arte. La luce per questa architettura ha una importanza fondamentale, soprattutto per le condizioni speciali che caratterizzano la luce di Helsinki, mai costante a causa dei continui cambiamenti meteorologici, e molto orizzontale per l’alta latitudine: il gioco di riflessi è quindi spesso considerato come strumento per condurre la luce naturale anche indirettamente. Il nome Chiasma ha una etimologia che rimanda all’intreccio, e che spesso si evidenzia nel museo: nella forma esterna risultato di un sofisticato ragionamento su direttrici che uniscono rapporti armonici e tracciati generatori alla scala urbana e umana trovando proporzione tra spazio, opera e osservatore; e negli spazi interni da cui ciò deriva, articolati tra muri ortogonali e curvilinei, rampe e scale, masse solide e atmosfere immateriali.

  • Steven Holl (Steven Holl Architects)
Tate Modern, Londra, Inghilterra, 2000. Courtesy Tate Photography

Una pietra miliare della museografia contemporanea, per la sua entità fisica imponente, per l’idea innovativa a inizio millennio di trasformare un luogo industriale abbandonato in luogo di cultura, per quella di rigenerazione urbana e di aggregazione sociale, e infine per essere il museo di arte moderna e contemporanea più visitato al mondo. Questo progetto per la riqualificazione della Bankside Power Station consacra Herzog & de Meuron tra i più importanti architetti della nostra epoca. L'architettura è stata intesa come “psicogramma di ciò che è la gente, di quello che sono le città e le culture”, quindi si concentra su un approccio non troppo invasivo per lo sviluppo di un luogo accogliente. Oltre alla costruzione di nuovi piani per le gallerie nella navata nord, volumi in vetro bianco individuano le nuove parti dell'edificio che si contrappongono alle enormi masse murarie in mattoni rossi: all’esterno, il grande parallelepipedo in copertura; all’interno, piccole scatole luminose distribuite ai piani. Queste sono dei bow-window, spazi architettonici autonomi dalle proporzioni più intime, che forniscono momenti di riposo e contemplazione offrendo viste privilegiate sulle opere nella sala delle turbine. Visti dalla sala, sembrano corpi di luce fluttuanti contenenti corpi in sospensione.
L’ampliamento verso sud del 2016, sempre di H&dM, raddoppia gli spazi della galleria e ne dedica altri a riflessione sull’arte, laboratori pubblici e didattica. Questo nuovo edificio nato sopra le cisterne dell’olio esistenti ha uno sviluppo centrato sui collegamenti verticali: i percorsi e le linee di connessione con l'edificio preesistente acquisiscono gradualmente forma, condensandosi in un volume piramidale conosciuto come Switch House. 

  • Herzog & de Meuron
  • Herzog & de Meuron
La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

La Ciutat, Museu de les Ciències, Valencia, 2000

Courtesy Ciutat de les Arts i les Ciències

Nella poetica di Santiago Calatrava, la presenza di forme zoomorfe e organiche ha sempre rappresentato una precisa ricerca estetica, applicata all’idea di struttura architettonica. Alberi di cemento, forcelle, gusci, vertebre, articolazioni, creste, occhi, pupille e palpebre, sono solo alcuni dei riferimenti che si possono riconoscere nel lavoro plastico dell’architetto. Per Valencia, di cui è originario, il progettista realizza un quartiere monumentale della cultura e della scienza, disponendo una serie di padiglioni e strutture presso il letto del fiume cittadino, trasformato in un lungo parco lineare urbano. Su una grande spianata definita da vasche d’acqua che attorniano tutti gli edifici disposti lungo un asse, il Museo della Scienza è l’attore principale e forse il più spettacolare per complessità e dimensione, ed è accompagnato da un Planetario (Hemisfèric) e da un Teatro (Les Arts), oltre a una struttura di servizio parallela (Umbracle) che contiene parcheggi sotterranei e da una lineare passeggiata in quota, ombreggiata dalla vegetazione, che offre una vista panoramica sull’intero complesso.

  • Santiago Calatrava
Jewish Museum Berlin, Berlino, Germania, 2001. Foto Relocating Happiness da Adobe Stock

Daniel Libeskind vince il concorso per la nuova sezione ebraica del Museo della Città di Berlino nel 1989, e l’inaugurazione ufficiale avviene nel 2001: dopo che il crollo del Muro, ha ridefinito le priorità della città. Per Libeskind, architetto di religione ebraica, questa architettura è un manifesto che segnala l’importanza per Berlino del contributo di tutti i cittadini ebrei, e il significato dell'Olocausto da integrare nella memoria della città. Il risultato è un volume drammatico, astratto, spezzato, carico di simbolismo, inaccessibile dall’esterno, rivestito da lamiere zincate a tutta altezza e con tagli irregolari e obliqui sulle facciate, come strappi e ferite sulla pelle del corpo architettonico. L’ingresso avviene dall’edificio barocco del continguo museo esistente. Tre percorsi partono dai sotterranei: il primo conduce alla “Torre dell’Olocausto”, vuota ed evocativa; il secondo all’esterno, in un giardino con sculture e installazioni dedicate all’emigrazione ebraica; il terzo infine risale una scala verso spazi dedicati alla documentazione di un intero processo storico. Si espone la storia sociale, politica e culturale degli ebrei in Germania dal medioevo a oggi, presentando e integrando esplicitamente, per la prima volta nella Germania del dopoguerra, le ripercussioni dell’Olocausto. Tra la fine dei lavori nel 1999 e l’inaugurazione del 2001 il museo è rimasto vuoto, ma aperto al pubblico, e una innumerevole massa di visitatori ha attraversato e contemplato gli spazi vuoti facendo un’esperienza forte di “una tragica epifania dell'assenza”.

  • Daniel Libeskind (Studio Libeskind)
National Museum of Australia, Canberra, Australia, 2001. Courtesy National Museum of Australia

Un museo nazionale, per una nazione/continente enorme, giovanissima e dal passato coloniale, è un luogo molto delicato e fragile da costituire nel rispetto di tutte le storie diverse che può contenere: una complessità di cui un articolo di Charles Jencks analizzava valori e contraddizioni, in un intervento museale dal programma eclettico e dai risultati originali. Lo Studio ARM (Ashton, Raggatt, McDougall) ha dichiaratamente usato alcuni spunti teorici e immagini simboliche come base del progetto: il principale è il riferimento alla storia dell'Australia come unità complessa, fatta di tante storie intrecciate che individuano diverse identità etniche, e che hanno oggi creato un nodo solido che prova a rispettare ogni provenienza e appartenenza. La figura dell’intreccio, dei fili che compongono un nodo, ispira la struttura che mescola un groviglio di riferimenti e continue metafore: assi, linee, nastri, un dichiarato “non stile”, un univoco eclettismo che produce sorpresa, coinvolgimento e anche divertimento. Anche l’architettura di altri autori è stata presa e reinterpretata, tra Utzon, Libeskind e addirittura Le Corbusier (c’è una ricostruzione fedele della Villa Savoye, ma nera!).
Isolato su un lembo di terra al centro di un lago, rivolto verso il parlamento nazionale, il complesso si compone di quattro corpi principali molto diversi tra loro, tenuti insieme da un concatenamento, un gioco di incastri complessi, pop, coloratissimi, carichi di ironia disposto intorno a un “Giardino dei sogni” (di Richard Wheeler e Vladimir Sitta), mappa del continente in cui sono segnati i luoghi significativi della storia d’Australia.

  • Ashton, Raggatt, McDougall (Studio Arm), Robert Peck von Hartel Trethowan
Pinakothek der Moderne, Monaco, Germania, 2002. Foto fottoo da Adobe Stock

Stephan Braunfels è un architetto locale che, partecipando ad un concorso internazionale tra grandi nomi d’eccezione, vince con un progetto funzionale, non ingombrante, che offre una cornice spaziale neutra all'esposizione delle opere. Posto all’angolo del parco dei musei di Monaco di Baviera, questo nuovo edificio fa confluire insieme, custodendole ed esponendole, quattro collezioni differenti e autonome per tipologia: l’arte moderna, le stampe e la grafica, l’architettura e il design. Quest’ultima collezione è considerata una delle più grandi al mondo, nata ufficialmente negli anni ‘20 del Novecento in seguito alle celebri vicende scorse tra Werkbund e Bauhaus. L'architettura del museo è basata su una forma rettangolare che genera un parallelepipedo in cemento a vista e vetro, con logge in facciata filtrate da esili colonne ritmate, tagliato da una diagonale che unisce il quartiere dei musei con il centro città. Al centro, un atrio circolare, illuminato naturalmente da una grande cupola trasparente, accoglie i servizi principali e distribuisce i percorsi attraverso grandi scale a ventaglio verso le gallerie museali dei vari piani ipogei e fuori terra.

  • Stephan Braunfels
Kunsthaus, Graz, Austria, 2003

Foto Zepp-Cam

Kunsthaus, Graz, Austria, 2003

Foto Christian Plach

Kunsthaus, Graz, Austria, 2003

Foto Christian Plach

Kunsthaus, Graz, Austria, 2003

Foto Christian Plach

Kunsthaus, Graz, Austria, 2003

Foto Universalmuseum Joanneum/N. Lackner

Kunsthaus, Graz, Austria, 2003

 Courtesy Kunsthaus Graz

A quasi quarant’anni dall’esperienza visionaria e radicale del gruppo Archigram, che vedeva nella tecnologia uno strumento salvifico e riformatore dell’architettura contemporanea, la Kunsthaus di Graz rappresenta il primo vero progetto di architettura realizzato, che risulta innovativo anche a così grande distanza. Peter Cook e Colin Fournier partecipano al concorso internazionale e vincono l’opportunità di realizzare questo progetto di museo multimediale, pensato come un centro espositivo, d’azione e di mediazione transdisciplinare per l’arte contemporanea in tutte le forme espressive. Mentre l'interno è una black box, ricca di “possibilità nascoste”, l’esterno è una membrana tecnologica e mediatica. Una bolla blu spettacolare, che con i suoi grandi pixel luminosi cambia il suo disegno e anima le relazioni con il contesto. Non esiste più il concetto di facciata e quindi il nuovo volume è un guscio da leggere tridimensionalmente nella sua totalità dinamica e non più secondo le statiche proiezioni ortogonali. Il nuovo museo non è un corpo indipendente ma si integra con una preesistenza storica, già monumento cittadino, a dimostrazione che le innovazioni futuribili possono tranquillamente dialogare con il passato memorabile.

  • Peter Cook, Colin Fournier
  • Josef Benedikt Withalm
21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, Giappone, 2004

Courtesy 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, Giappone, 2004

Courtesy 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, Giappone, 2004

Courtesy 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, Giappone, 2004

Courtesy 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, Giappone, 2004

Courtesy 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

Foto Watanabe Osamu. Courtesy 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, Giappone, 2004

Foto Watanabe Osamu. Courtesy 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, Giappone, 2004

Foto Watanabe Osamu. Courtesy 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa, Giappone, 2004

Foto Watanabe Osamu. Courtesy 21st Century Museum of Contemporary Art, Kanazawa

Un museo di arte contemporanea del 21° secolo, oltre ad occuparsi delle opere più recenti, ha il preciso obiettivo di generare nuova cultura e rigenerare la comunità che lo frequenta, con lo scopo di creare un ponte verso il futuro. Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa (Sanaa), abituati a sviluppare progetti programmatici con diagrammi e schemi per una lettura netta e diretta dello spazio, hanno concepito questo nuovo museo come un recinto permeabile. Totalmente trasparente nei suoi margini esterni per mostrare le sue attività interne, è un luogo costantemente aperto e accogliente. Un museo senza una facciata (scelta anticonvenzionale rispetto alla frequente monumentalità di questa tipologia) che affronta il contesto da ogni lato, perfettamente dimensionato rispetto al giardino in cui è inserito e all'altezza degli edifici prospicienti. La planimetria perfettamente circolare corrisponde ad una copertura altrettanto circolare che sbalza creando un “disco volante” sospeso a pochi metri da terra. Internamente, una serie di stanze a diverse altezze, alcune a cielo aperto, disegna una griglia regolare che trae origine dalla tipica giacitura della città giapponese. Un’alternanza e interazione di pieni e vuoti, di passaggi a circuito che creano una circolazione flessibile e ininterrotta per un complesso frammentato, fatto di cubicoli e cunicoli. Gli spazi espositivi si mescolano con la biblioteca, l'auditorium, i laboratori, gli uffici, mentre porte-pareti trasparenti e scorrevoli episodicamente chiudono o aprono un nuovo percorso.

  • Kazuyo Sejima, Ryue Nishizawa (Sanaa)
Maxxi, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, Italia, 2009

Foto Flavio Ianniello/Musa. Courtesy Fondazione Maxxi

Maxxi, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, Italia, 2009

Foto Francesco Radino. Courtesy Fondazione MAXXI

Maxxi, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, Italia, 2009

Foto Francesco Radino. Courtesy Fondazione MAXXI

Maxxi, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, Italia, 2009

Foto Guido Caltabiano. Courtesy Fondazione Maxxi

Maxxi, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, Italia, 2009

Foto Francesco Radino. Courtesy Fondazione MAXXI

Maxxi, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, Italia, 2009

Foto Francesco Radino. Courtesy Fondazione MAXXI

Maxxi, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, Italia, 2009

Foto Francesco Radino. Courtesy Fondazione MAXXI

Maxxi, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, Italia, 2009

Foto Riccardo Musacchio/MUSA. Courtesy Fondazione Maxxi

Maxxi, Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo, Roma, Italia, 2009

Foto Francesco Radino. Courtesy Fondazione MAXXI

L’idea del nuovo polo museale nella città con la storia più antica del mondo nasce a fine anni ‘90 con l'intento di rigenerare una grande area abbandonata, precedentemente un sito militare, destinandola al primo museo pubblico italiano dedicato alle arti e all’architettura del 21° secolo. Zaha Hadid, insieme al sodale socio Patrik Schumacher, vince il concorso con un progetto audace ma che conoscerà gestazione lunghissima per ragioni di burocrazia. Su un lotto compatto a L, viene concepita una infrastruttura urbana, incastonata come un innesto, pronto però a suggerire uno scarto propulsore di nuovi spazi da coinvolgere. Tracciati urbanistici e griglie generatrici si intersecano proiettati sul terreno per costruire i percorsi interni del museo e quindi i suoi volumi esterni, che ne sono diretta estroflessione, generando una grande complessità geometrica e formale. Il risultato è un metaforico fiume di cemento che procede per flussi maggiori, le gallerie, e si ramifica in flussi minori, le connessioni: una stratificazione di masse, campi di forze, corpi sospesi aggettanti a sbalzo nel vuoto, sostenuti anche, puntualmente, da rari, sottili pilotis metallici di rinforzo che disegnano diaframmi permeabili dotati di una verticalità istantanea.

  • Zaha Hadid (Zaha Hadid Architects)
James-Simon-Galerie, Museumsinsel, Berlino, Germania, 2009 © Staatliche Museen zu Berlin / David von Becker

La storia di questo sito museale è tanto antica quanto ricca di riferimenti significativi, base della fondazione della Germania come paese unitario, che qui dalla metà dell’Ottocento decide di creare un rifugio per le arti e le scienze, un forum culturale che finalmente si apra al pubblico. Sulla piccola isola nel cuore di Berlino, cinque sedi museali di impostazione neoclassica sono dedicate a pittura, scultura, archeologia e arti applicate. Superando le tragiche vicende legate alla seconda guerra mondiale e alla successiva divisione della città, con la caduta del muro nel 1989 si decide di considerare questo luogo come fulcro di una cultura finalmente riunificata e in pace col mondo. Il processo e le procedure dei concorsi si rivelano lunghe e travagliate ma alla fine David Chipperfield viene incaricato di elaborare un masterplan – che assegna anche ad altri autori alcuni degli interventi – e di realizzare alcuni nuovi edifici di servizio alle esposizioni e ai collegamenti museali preesistenti. Immaginando strutture riconoscibili e in compenetrazione, con un lungo e paziente lavoro decennale tra restauro e ristrutturazione, gli interventi si sono caratterizzati per la discrezione e l’attenzione alla continuità formale e geometrica, e alla valorizzazione delle preesistenze messe nuovamente al servizio dell’arte.

  • David Chipperfield
Plateforme 10, Losanna, Svizzera, 2021. Foto Bogdan Lazar da Adobe Stock

Plateforme 10 è l’ultimo grande complesso polimuseale realizzato in Europa, per riqualificare uno scalo ferroviario adiacente alla Stazione Centrale di Losanna: due progetti per tre musei, e un lungo processo di elaborazione per restituire alla città un quartiere aperto ricco di arti e di cultura, con una grande piazza pedonale a disposizione per installazioni e attività. Il primo inaugurato, sul bordo sud del lotto, parallelo ai binari, è il Musée Cantonal des Beaux-Arts, firmato Barozzi Veiga, per le collezioni di arte visiva antica, moderna e contemporanea, della città e di alcune fondazioni che hanno donato il loro patrimonio. L’architettura ricostituisce un grande muro opaco con al centro una porzione recuperata dell’esistente, un timpano centrale della rimessa delle locomotive. Sul lato d’ingresso verso la piazza, la facciata è costituita da numerosi setti paralleli che lasciano spazio ad aperture controllate da cui si diffonde luce naturale proveniente da nord. Completa l’operazione il secondo edificio, progettato da Aires Mateus e recentemente inaugurato, per due musei: il Mudac – Musée Cantonal de Design et d’Arts Appliqués Contemporains – e il Photo Elysée. Un atrio comune al piano terreno e due corpi scale disassati conducono ad una black box sotterranea per le opere fotografiche, e in una white box superiore per le opere di design.
Il volume, netto e compatto all’esterno e cavernoso all’interno, caratterizzato da una spaccatura tettonica che diventa ingresso e fonte luminosa, si colloca in asse con la lunga piazza pedonale a chiusura del quartiere, e a coronamento di questo nuovo progetto culturale urbano.

  • Barozzi Veiga (Mcba), Aires Mateus (Mudac)