Irachena di nascita e londinese di adozione, Zaha Hadid (1950-2016) è stata una delle figure più significative dell’architettura contemporanea. Donna, in un universo professionale ancora prevalentemente maschile, Pritzker Prize nel 2004, in lei convergono allo stesso tempo la capacità visionaria del genio e le competenze di solido fondamento tecnico-scientifico, la ricerca dell’astrazione (frutto della sua originaria affezione per le avanguardie artistiche), come tramite per spingere la creatività oltre limiti impensabili, e l’attenzione alle interazioni funzionali tra spazio e utente come obiettivo prioritario del suo percorso compositivo.

Nella sua opera, forse più che in altri autori, trova concreta rappresentazione l’alchimia perfetta tra arte, architettura, design e ingegneria, tradotta negli anni in alcuni temi ricorrenti. Uno è la celebrazione del movimento come cifra costitutiva della realtà, attraverso geometrie fluide ed audaci che determinano (e scaturiscono da) i flussi di transito (le persone, la luce,…) e che la progettista plasma attraverso gli strumenti della modellazione parametrica; un altro è invece la sperimentazione materica e tecnologica, che spinge Hadid a esplorare e codificare materiali innovativi, adattandoli ai diversi contesti attraverso soluzioni tecniche di elevata ma lucida complessità.
Dalla prematura scomparsa, lo studio Zaha Hadid Architects ha raccolto l’eredità materiale e spirituale dalla fondatrice portando avanti un lavoro che, seppure nel solco lessicale da lei tracciato, fa di ricerca, sperimentazione a qualsiasi scala, programma funzionale e contesto geografico-culturale il suo leitmotif.
A quasi nove anni dalla sua scomparsa, raccontiamo il lavoro di Hadid attraverso 8 opere selezionate, che lei aveva direttamente progettato e supervisionato e che, dai musei alle infrastrutture, agli alberghi, abbracciando tutto il mondo da Roma a Pechino passando per Dubai, danno un quadro della sua statura intellettuale.

Un bagno di luce
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