Focus Finiture


Design e tendenze per i rivestimenti contemporanei


L’evoluzione dei mattoni di vetro, dai sogni utopici di Scheerbart alla Maison Hermés di Renzo Piano

I mattoni di vetro hanno trasformato la storia dell’architettura, introducendo un tipo di trasparenza che va oltre l'impiego classico del vetro.

“Noi viviamo perlopiù in spazi chiusi. Essi costituiscono l'ambiente da cui si sviluppa la nostra civiltà. La nostra civiltà è in certa misura un prodotto della nostra architettura. Se vogliamo elevare il livello della nostra civiltà saremo quindi costretti, volenti o nolenti, a sovvertire la nostra architettura. E questo ci riuscirà soltanto eliminando la chiusura degli spazi in cui viviamo. Ma ciò sarà possibile soltanto con l'introduzione dell'architettura di vetro, che permette alla luce del sole, al chiarore della luna e delle stelle di penetrare nelle stanze non solo da un paio di finestre, ma direttamente dalle pareti, possibilmente numerose, completamente di vetro, anzi di vetro colorato. Il nuovo ambiente che in tal modo ci creeremo dovrà portarci una nuova civiltà”.

Esordiva così Paul Scheerbart nel suo Glasarchitektur (Architettura di vetro), il saggio pubblicato nel 1914 con cui lo scrittore tedesco inneggiava al fiorire di una nascente civiltà pronta a sorgere sulle solide fondamenta di una nuova architettura di vetro.
Si può dire che Novecento, il secolo del ferro e del vetro per antonomasia, non deluse le aspettative di Scheerbart, piuttosto verificò molti dei punti sollevati nel suo singolare testo dove “stanze di cristallo”, “colonne e torri di luce” e “mosaici di vetro e cemento armato” si preparavano ad accogliere “le notti di luce”, il giorno in cui l’architettura di vetro avrebbe finalmente preso il sopravvento.

Joseph Paxton, Crystal Palace, Hyde Park, Londra, 1851

Già nel 1851 l’umanità aveva assistito a una colossale esibizione della trasparenza con il Crystal Palace, l’edificio nato per ospitare la prima Esposizione universale dei prodotti dell'industria costruito da Joseph Paxton a Hyde Park a Londra: oltre 90mila metri e circa 293.000 pannelli di vetro, tenuti insieme da una avveniristica struttura in acciaio, modulare e prefabbricata, dove per la prima volta andava in scena lo spettacolo della merce e della sua mera contemplazione.

Il vetro è il mezzo più miracoloso per ripristinare la legge del sole.

Le Corbusier

L’architetto Bruno Taut (a cui peraltro il Glasarchitektur è dedicato) traduce le immagini di Scheerbart nel Padiglione di Vetro realizzato in occasione dell’Esposizione del Werkbund di Colonia del 1914, uno scrigno dominato da una cupola interamente costruita con piccoli prismi in vetro saldati insieme da un fine reticolo in rame e organizzati in una più ampia composizione di losanghe riunite da nervature a raggiera in cemento.

Bruno Taut, Padiglione di Vetro, Esposizione del Werkbund, Colonia, 1914

All’interno del padiglione le due scale a spirale che conducono al livello superiore sono incastonate fra pareti in vetrocemento, una delle prime espressioni artistiche di un materiale che secondo Scheerbart “potrebbe diventare una specialità interessante dell’architettura di vetro”, se concepito come vera e propria “pittura murale” realizzabile in tutti i colori e in tutte le forme.

Di certo il lirismo tautiano e la concretizzazione dell’utopia trasparente di Scheerbart non trovarono piena applicazione in quel secolo breve e velocissimo che fu il Novecento, e che rispetto all’idea di un’allegoria di purezza collettiva dove il vetro fonde uomo, natura e tecnica, decise di dare ben più credito proprio alla tecnica, e con essa alle facilità della prefabbricazione, della riproduzione e della serializzazione dei materiali.
Nonostante ciò, è sulle stesse premesse di armonia universale che avevano animato l’espressionismo dell’architettura di Taut che, nei primi decenni del secolo, Le Corbusier avvia la sua campagna per uno spirito nuovo dell’architettura, e proprio il vetro sarà fra gli elementi essenziali dell’opera del maestro svizzero.

Le Corbusier, Maison Clarté, Ginevra, 1930-32. Foto Diego Terna da Flickr

“Il vetro è il mezzo più miracoloso per ripristinare la legge del sole” scriverà nel 1935 in un saggio dall’altrettanto emblematico titolo Il vetro, il materiale fondamentale dell’architettura moderna, e nello specifico Le Corbusier preconizzerà come “un giorno il muro di vetro diventerà ovvio e non dovremo più discuterne ulteriormente” ma semplicemente accettarlo come la vera conquista dell’Età Moderna.

All’epoca la traslucida mattonella Nevada prodotta dalla storica ditta St. Gobain era già stata declinata come glass wall in molti edifici d’abitazione progettati da Le Corbusier a Parigi, come nella Maisons Loucheur (1928-29), nel Padiglione Svizzero alla Cité internationale universitaire de Paris (1929-31), nell’Immeuble Molitor (1930– 33) – dove all’ultimo piano si trovava tra l’altro la sua stessa casa atelier –  nella Cité de Refuge (1929–33), oltre che nella Maison Clarté a Ginevra (1930–32). Le Corbusier decretava così risolto quel desiderio contraddittorio dell’abitante della casa di volere insieme il piacere di osservare “il gioco del cielo, degli alberi o il panorama intero e, in secondo luogo, di isolarsi dall'esterno e soprattutto di avere un po’ di privacy”.

Pierre Chareau, Bernard Bijvoet, Maison de verre, Parigi, Francia 1931. Foto BM. da Flickr

In quegli stessi anni, sempre a Parigi, e precisamente fra il 1928 e il ’31, nasce dalla collaborazione fra il designer Pierre Chareau, l’artigiano Louis Dalbet, specializzato nella lavorazione dei metalli, e l’architetto olandese Bernard Bijvoet, la celebre Maison de verre, un appartamento nascosto all’interno della cortina parigina il cui trattamento delle facciate dà il nome al progetto.

Costruite interamente con pannelli traslucidi e organizzate in moduli da 6x4 mattonelle di vetro, che regolano inoltre le misure dell’intero progetto, le facciate dimostrano un utilizzo estremamente sofisticato del materiale, che si rivela infine quasi nelle sembianze di un velo delicato sospeso nello spazio, facilmente associabile alle schermature di carta delle tradizionali case giapponesi, il tutto ben saldato con la struttura in acciaio che marca piuttosto l’estetica industriale dell’appartamento.

Anche internamente infatti tornano le pareti opache, insieme a imponenti pilastri in acciaio lasciati grezzi e a vista, e il caratteristico pavimento gommato, decontestualizzato, e presentato in uno dei suoi primi utilizzi domestici.

Renzo Piano Building Workshop, Maison Hermès, Tokyo, 1998-2006. Domus 841, ottobre 2001

Con l’esaurimento della febbre modernista, e con essa la fine dell’esaltazione delle tecniche e della valorizzazione dei materiali industriali in favore di una progressiva riconquista della dimensione più umana dell’architettura, è in tempi più recenti che l’utilizzo del vetro in veste muraria torna con decisione a connotare l’architettura pubblica e privata.
Un articolo del The New York Times del 1977 annuncia senza preamboli che Glamorous Glass Bricks Are Booming (Il grande glamour boom del vetrocemento), e segnala un lungo elenco di edifici residenziali newyorchesi dove la parete realizzata con mattonelle in vetro è protagonista, ma soprattutto “affascinante e misteriosa, luminosa e scintillante, formale, ma anche molto intima”.

Renzo Piano Building Workshop, Maison Hermès, Tokyo, 1998-2006. Domus 841, ottobre 2001

Così è su questa stessa onda che anche il Duemila sembra investito dal costante ritorno nell’architettura del vetrocemento, a volte considerato come una vera e propria tendenza di ritorno dal secolo appena passato, altre inserito in un discorso più articolato e destinato ad approfondire le tecniche più innovative, ad esempio a proposito della stampa e della cementazione dei mattoni senza l’uso della malta tradizionale.

Fra le ”architetture di vetro” più celebri del ventunesimo secolo non si può non menzionare la sede giapponese di Maison Hermès  (1998 – 2001), progettata a Tokyo da Renzo Piano.


Esteticamente il vetro è congeniale alla forte caratterizzazione dell’edificio nel contesto visivamente eterogeneo della metropoli. I 15 piani della Maison svettano all’interno di un lotto stretto e lungo (45x11 m), e sono interamente rivestiti da un unico elemento, un modulo di vetro quadrato da 45 cm, ripetuto per 13mila volte, che di notte è retroilluminato dall’iconico colore arancione del brand.

La sfida tecnica in questo caso è strettamente legata al luogo, e alla perfetta rispondenza alla questione sismica del territorio, per cui ogni piastrella è montata su una cornice con una capacità di movimento di 4 mm rispetto alle piastrelle adiacenti, in modo che ognuno dei 13mila blocchi di vetro della facciata possa assorbire la propria quota di movimento sismico spostandosi da ciascun lato.

Hiroshi Nakamura & NAP, Optical glass house, Hiroshima, Giappone 2012. Foto 準建築人手札網站 Forgemind ArchiMedia da Flickr

Ancora in Giappone, a Hiroshima, Hiroshi Nakamura & NAP realizza un’abitazione situata in una arteria particolarmente trafficata della downtown.
Anche in questo caso, nella Optical Glass House (2012),  il vetro assolve al compito di caratterizzazione dell’edificio all’interno di un contesto di grattacieli e edifici per uffici, oltre che di protezione dal caos metropolitano.
Il prospetto su strada è costituito da circa 6mila mattoni di vetro, che per via del loro spessore consistente riescono a garantire un ottimo isolamento acustico; inoltre, ciascuno di essi presenta dei fori utili a fissare i blocchi a 75 bulloni in acciaio inossidabile sospesi a una grande trave sopra la facciata, così da rendere staticamente stabile quello che di fatti si presenta alla città come un vero e proprio schermo semitrasparente ampio 8,6 x 8,6 m.
Alle spalle della facciata gli architetti posizionano un ampio giardino d’inverno come ulteriore filtro fra la vita domestica e la città, suggerendo ai passanti la vista di un vero e proprio luogo segreto e svelando le ombre di grandi alberi e piante.

Hiroshi Nakamura & NAP, Optical glass house, Hiroshima, Giappone 2012. Foto 準建築人手札網站 Forgemind ArchiMedia da Flickr

Tra le grandi firme non può mancare il progetto delle Crystal Houses di Mvrdv a Amsterdam(2016), dove i mattoni di vetro sono applicati senza soluzione di continuità alle facciate tradizionali in mattoni rossi, con un risultato che in questo caso privilegia la ricerca di un’immagine glamour, alla ragione tecnico-scientifica della scelta del materiale.
In questo caso, l’uso nell’interior design della mattonella in vetro sviluppata come muro, parete, schermo divisorio, che sembra in realtà strizzare l’occhio a un’estetica anni ‘80, piuttosto che esplorarne il potenziale materico ancora inespresso.

Ad ogni modo è indubbio come il vetrocemento sia stato uno dei materiali prediletti dagli architetti del razionalismo maturo, spesso impiegato con audacia, soprattutto grazie alla sua plasmabilità e riproducibilità, e al contempo per la sua evidente capacità di favorire, attraverso la trasparenza, uno dei principali elementi ricercati dall’architettura moderna, la luce.

È ugualmente indubbio come il debito contratto con gli antichi maestri da alcuni fra i principali esponenti dell’architettura contemporanea, finisca per restituire un sincero omaggio alla loro opera sperimentale, com’è il caso della Maison Hermès di Piano, riuscendo, a volte, a trovare lo spazio per nuove formule inventive e per l’esplorazione di nuove tecniche di utilizzo di quello che, a ragion veduta, può essere dichiarato il primo fra i materiali moderni dell’architettura, e che, per citare un’ultima volta Paul Scheerbart, nelle sue declinazioni più nobili, ha fatto si che “la terra si ricoprisse di gioie preziose in smalto e brillanti, in uno spettacolo magnifico e addirittura inimmaginabile”.

Immagine di apertura: Renzo Piano Building Workshop, Maison Hermès, Tokyo, 1998-2006. Domus 841, ottobre 2001

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