“Vivere in una casa di vetro è una virtù rivoluzionaria per eccellenza. È anche un’ebbrezza, un esibizionismo morale di cui abbiamo un estremo bisogno”: così Walter Benjamin, nel saggio Il surrealismo. L’ultima istantanea sugli intellettuali europei del 1929 descriveva il sogno dell’abitare un edificio interamente vetrato in cui la trasparenza e la sincerità (non solo costruttiva) sono un valore etico prima ancora che compositivo.
Un’affermazione che affonda le radici nello Zeitgest Moderno, quando il vetro si innalza da materiale da costruzione a paradigma di rifondazione di una società democratica, equa e libera, in contrapposizione alle “barriere” visive (e culturali) dell’intérieur borghese: dalle “cattedrali laiche“ in ferro e vetro, manifesto delle tecnologie emergenti nella prima età industriale (Joseph Paxton, Crystal Palace, Londra 1851); alle architetture di inizio ‘900 (Bruno Taut, Glaspavilion, Colonia 1914), concretizzazione delle divagazioni fantastiche su una nuova “civiltà del vetro” di Paul Scheerbart (“Glasarchitektur”,1914). La nostra selezione muove da qui, per esplorare decenni di architetture a varia traslucidità.
Nel dopoguerra, questo impegno morale è raccolto dal Moderno che propone un’architettura leggera e trasparente come risposta qualitativa ed economicamente sostenibile al fabbisogno abitativo post-bellico, caratterizzata da volumi essenziali, strutture puntiformi, materiali industriali, ampie vetrate che introiettano il paesaggio e celebrano entusiasticamente la luce come elemento di progettazione (Pierre Chareau, Philip Johnson, Ludwig Mies Van der Rohe, Lina Bo Bardi, Pierre Koenig, Albert Frey).
Se nel corso degli anni l’afflato ideologico si è progressivamente indebolito, sopravvive ancora oggi la ricerca di una “poetica dell’evanescenza” resa possibile da tecnologie sempre più sofisticate che esaltano il carattere di “super-materiale” del vetro (come lo definiva Frank Lloyd Wright) e ne spingono all’estremo le potenzialità tecniche ed espressive. Limitandoci all’ambito residenziale, ne sono un esempio molte case in cui il vetro si presta a soluzioni variegate: dagli schermi per arginare l’introspezione visiva e controllare il flusso luminoso (Hiroshi Nakamura & NAP, Studio Odile Decq); agli involucri riflettenti o trasparenti che smaterializzano le forme (Tomas Osinski) e dissolvono i confini tra esterno e interno, trasformando lo spazio domestico in luogo epifanico di incontro tra architettura e natura (Max Núñez); alla “teca” che sigilla un’intera abitazione come reperto museale (Sarmiento house).
Indipendentemente dalla privacy e dalle problematiche che costruzioni interamente o prevalentemente vetrate comportano in termini di consumi energetici e benessere micro-climatico, resta indiscutibile la magia di questo materiale che più di ogni altro, come è stato osservato (Guy Norderson in Michael Bell e Jeannie Kim, “Engineered Transparency: the Technical, Visual, and Spatial Effects of Glass”, Princeton Architectural Press, New York 2009), evoca l’ossimoro di una presenza nell’assenza e la suggestione dell’”infra-mince” di cui parlava Marcel Duchamp: quella percezione a volte illuminante di un fenomeno “infrasottile”, inaspettato e razionalmente inattingibile (come le dissolvenze materiche, le fantasmagorie ottiche e i riflessi generati dalla luce su una superficie vetrata) che conduce a una nuova conoscenza. O più semplicemente, a una lettura dello spazio costruito come organismo intrinsecamente mutevole come la luce che lo attraversa, e libero da schemi concettuali codificati.