La guida di Domus al cinema di Dario Argento

Abbiamo scelto sette film (più uno non suo) dal 1970 a oggi, per ripercorrere la connotazione orrorifica di spazi domestici e ambienti urbani nel cinema del maestro dell’incubo. 

Il momento in cui bisognava andare a dormire era il mio incubo. Non avevo paura del buio, come tutti i bambini, no: avevo paura del corridoio di casa. […] La mia camera da letto era l’ultima giù in fondo, quindi non avevo scampo: dovevo attraversarlo interamente. […] quel corridoio era pieno di tende e finestre, illuminato da luci basse, e mi terrorizzava. […] Era una forma perfetta di terrore: puro, senza condizionamenti.

Dario Argento, Paura, Einaudi, 2014

Romano, classe 1940, figlio di un produttore cinematografico e di una fotografa, Dario Argento si nutre di immagini fin dall’infanzia. Dagli anni Settanta a oggi ha realizzato una ventina film, sceneggiandone il doppio, ha compiuto incursioni televisive, si è anche offerto più volte alla macchina da presa, con camei e vere e proprie interpretazioni attoriali, ha saputo modellare il cinema di genere italiano portandolo sotto i riflettori internazionali, diventando un regista di culto.

 L’hanno infatti definito l’”Hitchcock italiano”, e certamente dal “Maestro della suspense” Argento ha imparato e attinto, omaggiandolo in più di una pellicola. Il regista britannico è, d'altronde, un punto di riferimento imprescindibile per chi ha voluto e vuole fare cinema, ed è bene ricordare che per una lunga fetta della sua carriera è stato snobbato dalla critica cinematografica (statunitense, almeno), fino a quando un giovane Francois Truffaut non ha dato alle stampe una lunga intervista che cristallizzava la maestria di Hitchcock per i tempi (e i cineasti) a venire: Il cinema secondo Hitchcock, 1967. 

È proprio da questo testo che si può trarre un’utile riflessione su come la suspense e la paura siano la rappresentazione più intensa del materiale narrativo e visuale di un film. Le scene di suspense sono “momenti privilegiati” in cui il pubblico entra, sollecitato, nell’azione e di cui trattiene memoria. Nei film di Hitchcock, così come in quelli di Argento, ogni momento è un “momento privilegiato” capace di far crescere nello spettatore tensione ed emozione. L’italianissimo Argento ha saputo tuttavia assimilare e superare le convenzioni hollywoodiane del cinema thrilling attraverso una ricerca estetica capace di intensificare al massimo il valore emozionale delle scene, tanto da creare uno stile personale e inconfondibile di cui scenografie e ambientazioni urbane sono elementi fondanti. Domus ne ha analizzato l’evoluzione.

Courtesy Filmfestival Linz

Definizione di un canone: L’uccello dalle piume di cristallo (1970)

Argento sceglie Roma per ambientare il suo primo film, punto di partenza ma anche sintesi di tutti gli elementi che caratterizzano il suo cinema: un primo, inquietante delitto; un particolare che il/la protagonista non riesce a focalizzare e che rappresenta la chiave di lettura dei fatti; la predilezione per armi da taglio; la psicopatologia del trauma; l’assassino in guanti neri, cappello e impermeabile scuri; primissimi piani su oggetti e occhi; la soggettiva dell’assassino; il suono assurto a elemento primario del linguaggio cinematografico e della narrazione; l’utilizzo della fotografia per evidenziare in maniera penetrante gli spazi. E poi porte, corridoi, finestre. Elementi del quotidiano che Argento “strangola” reinventandone la forma emotiva. Gli ambienti all’interno dei quali si articola la narrazione sono quelli di una galleria d’arte, dalle pareti e i pavimenti bianchi, l’appartamento quasi cieco – ha solo due piccole finestre – del protagonista, l’alloggio dagli arredi borghesi dei Ranieri, i proprietari della galleria.

Dario Argento, L’uccello dalle piume di cristallo, 1970

Per le location esterne Argento si è servito dell’Eur, dell’allora zoo di Roma, di vie dell’Aventino che il regista ammanta di nebbia, di marciapiedi di Trastevere e Testaccio che delinea claustrofobicamente in “corridoi” da percorrere in fuga. Secondo alcune teorie sostenute dai feticisti delle ricostruzioni, l’ippodromo dove l’assassino individua una delle vittime non è Capannelle bensì quello di Agnano, a Napoli, a dimostrazione che la capacità di Argento di frammentare gli spazi urbani favorendo l’indeterminatezza geografica dell’azione è presente già nel suo film d’esordio. Emblematico è poi l’uso che fa dell’elemento “porta”, il cui orrore persuasivo viene amplificato dalla fotografia: Argento sceglie la soggettiva di una delle vittime seguendo dapprima il suo sguardo sulla porta attraversata dalla luce, poi sullo spegnimento della sigaretta nel posacenere, per tornare immediatamente sulla porta che incornicia la sagoma dell’assassino. Dopo questo film – e forse ancora di più dopo Suspiria – non sarà più possibile guardare una semplice porta con gli stessi occhi.

Titolo:
L’uccello dalle piume di cristallo
Diretto da:
Dario Argento
Prodotto da:
Seda Spettacoli e Central Cinema Company Film
Distribuito da:
Titanus
Anno:
1970

Torino + Roma = Profondo rosso (1975)

Con le due pellicole che insieme a L’uccello dalle piume di cristallo formano la cosiddetta “Trilogia degli animali”, ovvero Il gatto a nove code (1971) e Quattro mosche di velluto grigio (1971), Argento esplora quelli che sono i luoghi d’elezione per le riprese dei suoi thriller e inizia a sperimentare la composizione della città ideale, unendo, in un collage spaesante, Roma con l’adorata Torino. Ma è in Profondo rosso, del 1975, che questa commistione assurge a dimensioni iconiche. 

Dario Argento, Profondo Rosso, 1975

«I pensieri di morte si attaccano agli ambienti come solide ragnatele», si dice nel film, e Argento cattura noi spettatori in questa “tela” urbana, dichiaratamente romana ma evidentemente torinese: una Torino metafisica, soprattutto nella desolazione estatica di Piazza Cln – nella quale il regista colloca un bar fittizio che omaggia I nottambuli (1942) di Hopper – , dove il protagonista assiste all’omicidio della medium, aggredita nel suo appartamento ma uccisa tramite il vetro rotto di una finestra che le trafigge la gola.

 Con Argento gli elementi dell’abitare diventano non solo veicoli del terrore, ma vere e proprie armi: finestre sì, ma anche gli angoli del caminetto del soggiorno di Giordani (Glauco Mauri), la vasca da bagno piena di acqua bollente in cui viene affogata la Righetti (Giuliana Calandra), l’ascensore che chiude il sipario sui delitti di una folle Clara Calamai. E sempre un elemento d’arredo costituisce la chiave di volta dell’enigma, mettendo l’assassino sotto gli occhi del protagonista – e dello spettatore – fin dall’inizio del film: nell’inquietante corridoio popolato da quadri di ispirazione esoterica uno specchio riflette il volto della madre di Carlo, ma sia noi che David Hemmings crediamo si tratti di una tela dipinta.

Dario Argento, Profondo Rosso, 1975

Negli ambienti domestici iniziano ad intravedersi quegli elementi déco che diverranno preponderanti man mano che il paranormale prenderà piede nella visione del regista: qui li troviamo sia nell’appartamento della medium che in quello di Giordani, mentre l’alloggio della Calamai, più barocco e decadente, è costellato dai ritratti dell’attrice stessa, che, come specchi, moltiplicano la sua immagine quasi a suggerirci di focalizzare la nostra attenzione sul personaggio. E poi c’è lei, la “villa del bambino urlante”, Villa Scott – opera di Pietro Fenoglio, mirabile esempio del liberty torinese – con la sua finestra murata che cela il segreto domestico del trauma scatenante l’intera vicenda. 

Pietro Fenoglio, Villa Scott, Torino, 1902. Foto Phil Beard da Flickr
Titolo:
Profondo rosso
Diretto da:
Dario Argento
Prodotto da:
Rizzoli Film e Seda Spettacoli
Distribuito da:
Cineriz
Anno:
1975

Una fiaba oscura nella Foresta Nera: Suspiria (1977)

Forse il suo capolavoro, sicuramente l’apice della sua evoluzione stilistica, Suspiria, ispirato a Thomas de Quincey e alle storie che la nonna di Daria Nicolodi raccontava alla nipote, si configura come un’evoluzione orrorifica delle atmosfere disneyane mescolate all’espressionismo tedesco, potenziate al massimo dall’uso del Technicolor e dalla fotografia di Luciano Tovoli. L’incipit è quello di una fiaba che racconta della ballerina Susy Benner (Jessica Harper) giunta a Friburgo per unirsi a una prestigiosa scuola di danza. Anche qui è la luce a dare forma agli ambienti, sia esterni che interni. A introdurre l’orrore, tramite il suono, la porta d’uscita dell’aeroporto. Poi una corsa in taxi nella pioggia, attraverso una foresta quasi stilizzata di cui si intravedono solo i fusti degli alberi.

Dario Argento, Suspiria, 1977

 L’arrivo alla scuola, modellata su ispirazione della tardogotica Haus zum Walfisch, la Casa della balena – dove visse anche Erasmo da Rotterdam – è segnato dal momento fatidico in cui la protagonista percepisce un messaggio che focalizzerà solo in seguito (in questo caso le indicazioni di una allieva per scoprire dove si riuniscono le streghe). Prima di farci entrare nelle morbide e inquietanti architetture della scuola, Argento segue la prima vittima di un male che, a differenza delle pellicole precedenti, non scaturisce da un trauma, ma è il Male puro: Pat (Eva Axén), compresa la natura demoniaca delle insegnanti dell’accademia, fugge da un’amica rifugiandosi in un palazzo che è il tripudio di uno stile déco onirico intriso di forme geometriche riempite a tinte pastello. Se il riferimento non fosse chiaro, Giuseppe Bassan, lo scenografo, inserisce la sagoma dell’Empire State Building nelle finestre del bagno, finestre che ancora una volta diventano armi nelle mani della Morte.

Dario Argento, Suspiria, 1977

Ritroviamo poi la dimensione metafisica delle piazze nella cupa Königsplatz di Monaco (che fu sede dei comizi di Hitler), teatro dell’aggressione al personaggio di Flavio Bucci, che l’attraversa dopo aver bevuto nella birreria dove il Führer organizzò il fallito colpo di Stato del 1923: un percorso da brividi per suggerire subliminalmente l’incubo a venire. Sono invece i colori primari – blu, rosso, verde, oro – a tingere gli interni organici dell’accademia di danza, le cui porte dai motivi liberty si trasformano in soglie del terrore che il regista realizza appositamente fuori misura per farle risultare ancora più incombenti sulle allieve. La carta da parati della camera di Susy è declinazione stilizzata di un motivo a squame di evocazione demoniaca, mentre lo studio di Madame Blanche si articola in un giardino circolare decorato con forme ispirate a Escher. E ancora una volta un elemento di arredo costituisce la chiave di comprensione di un segreto: è infatti il tappeto del suddetto studio ad attutire quei passi, che, se seguiti attraverso i funesti corridoi vermigli, portano al covo. Mentre la decorazione delle scale richiama la natura della congrega: un serpente che muore se la sua testa viene mozzata e crolla.

Dario Argento, Suspiria, 1977
Titolo:
Suspiria
Diretto da:
Dario Argento
Prodotto da:
Seda Spettacoli
Distribuito da:
P.A.C.
Anno:
1977

Le dimore demoniache dell’architetto Varelli: Inferno (1980)

Se l’accademia di danza di Friburgo ospitava le seguaci del Male, nel secondo capitolo della “Trilogia delle Madri” sono gli edifici ad assurgere a ruolo di veri e propri personaggi. Case pestilenziali, che male odorano e impestano i quartieri in cui sono state edificate, progettate dall’architetto e alchimista Emilio Varelli per volere di Mater Suspiriorum, Mater Lacrimarum e Mater Tenebrarum, case che “sono occhi con le quali esse vedono”. Tre sorelle, tre dimore, tre città: Friburgo, Roma e New York. Inferno attraversa l’originalità architettonica del quartiere Coppedè a Roma – dove risiede Mater Lacrimarum – per poi soffermarsi sul palazzo neogotico newyorkese dedicato alla più giovane e crudele Mater Tenebrarum. Un neogotico spigoloso, essenziale, che abbandona la morbidità viscerale degli ambienti di Suspiria. Qui non è infatti l’edificio a modellarsi attorno ai suoi residenti, bensì a vivere e agire autonomamente.

Dario Argento, Inferno, 1980

 Gli onirici interni si concentrano su porte nere e pareti vermiglie, appartamenti barocchi, molteplici scale, finti pavimenti e sotterranei allagati, mentre la fotografia di Romano Albani mescola i blu e i rossi in rosa e viola sinestetici, dolciastri, che ci restituiscono tutte le connotazioni olfattive delle case demoniache. Scopriremo che Varelli è organicamente connesso con quanto ha progettato rivelando la vera natura dell’edificio: il palazzo è il corpo, i mattoni le cellule, le vene i corridoi e i passaggi. Ingiustificatamente ignorato o incompreso, Inferno rappresenta invece il tentativo, compiuto, di Argento di articolare e rappresentare l’indecifrabilità del male.

Dario Argento, Inferno, 1980
Titolo:
Inferno
Diretto da:
Dario Argento
Prodotto da:
Produzioni Intersound
Distribuito da:
20th Century Fox Italia
Anno:
1980

La Minneapolis rarefatta di Trauma (1993)

Argento surfa sugli anni ’80 ritornando al thriller di ambientazione romana (Tenebre, 1982), passando per i prati e le montagne della Svizzera (Phenomena, 1985) e approdando agli spazi operistici verdiani (Opera, 1987). Sceglie invece Minneapolis per l’ambientazione del film che segna la sua prima collaborazione con la figlia Asia, affiancata da una sempre inquietante Piper Laurie (Carrie – Lo sguardo di Satana, Twin Peaks). Le citazioni di Hitchcock si sprecano in questo thriller in cui il paranormale si rivela mero pretesto nelle mani dell’assassino per compiere una vendetta. Il dramma dell’anoressia viene ritratto alla luce del sole, intercalandolo alla ricerca della verità da parte di una ragazza che vede (o crede di vedere – torna l’inganno della visione) decapitare i genitori. 

Dario Argento, Trauma, 1993

Agli spazi domestici della villa ottocentesca dei Petrescu si contrappongono ambientazioni tipicamente americane come lunghi ponti, grandi motel e popolate tavole calde. Sia per gli esterni che per le riprese in interno Argento si avvale dell’uso di un particolare fumo con lo scopo di restituire un’immagine via via più rarefatta di volti e ambienti. La casa in legno sul lago dove abita il personaggio di Christopher Rydell richiama alla memoria il Crystal Lake Camping del celebre slasher Venerdì 13 (1980), che a sua volta omaggia il mitologico Reazione a catena (1971) di quel Mario Bava a cui lo stesso Argento è pluridebitore: a liberare i protagonisti dall’incubo è la mano innocente (?) di un bambino che impugna un’oggetto di morte, come i piccoli “risolutori” del film di Bava (tra questi, Nicoletta Elmi, che lavorò con Argento in Profondo rosso), mentre con la decapitazione di Brad Dourif per mezzo di un ascensore il regista torna vorticosamente a citare se stesso. 

Dario Argento, Trauma, 1993
Titolo:
Trauma
Diretto da:
Dario Argento
Prodotto da:
Adc, Overseas Filmgroup
Distribuito da:
Cecchi Gori Group, Silvio Berlusconi Communications
Anno:
1993

Assassinio reale in ambiente virtuale: Il cartaio (2004)

Opera appartenente alla stagione meno fortunata della sua filmografia, con Il cartaio Argento esplora lo spazio virtuale della Rete, dove si gioca una vera e propria partita con la morte: non gli scacchi di bergmaniana memoria, ma un meno filosofico videopoker le cui regole sono dettate da un assassino motivato esclusivamente da un sentimento di rifiuto. Lo schermo del computer diviene luogo impalpabile di omicidi concreti, ripresi in tempo reale con la webcam durante i match con la polizia. Argento è di nuovo a Roma, in particolare nel suburbio Gianicolense: il Complesso del Buon Pastore di Brasini ospita il commissariato, mentre nell’Orto Botanico sito nel parco di Villa Corsini, con i suoi nicchioni e le scalinate seicentesche, si cela il nascondiglio del Cartaio.

L’inseguimento notturno si svolge in pieno centro storico, ma la vivida suspense delle fughe in angusti “corridoi” all’aperto è solo un lontano ricordo. Le ambientazioni si prestano alla fotografia di Benoît Debie, sodale di Gaspar Noé, con il quale ha lavorato per Irréversible (2002) – e successivamente per Enter the Void (2009) e Climax (2018) – ma l’assenza di una narrazione efficace e dell’ormai perduta capacità di costruire quei personalissimi “momenti privilegiati” della suspense che l’hanno consacrato quale maestro della settima arte, non permettono neppure alla più virtuosa collaborazione di restituire forza alla visione.

Dario Argento, Il Cartaio, 2004
Titolo:
Il cartaio
Diretto da:
Dario Argento
Prodotto da:
Medusa Film, Opera Film
Distribuito da:
Medusa Distribuzione
Anno:
2004

Tra la città e il bosco: Occhiali neri (2022)

Neanche in Occhiali neri, l’ultima fatica di Dario Argento, ci sono forti motivazioni o traumi scatenanti alla base dell’agire dell’assassino, quasi a trascinare lo spettatore in una sorta di concretezza e banalità dell’orrore. Torniamo nuovamente in una Roma assolata, dove le strutture di palazzoni moderni si mescolano a quelle di hotel di lusso, in una continuità che unisce centro e periferia. Il film non brilla tanto per la caratterizzazione degli ambienti, piuttosto anonimi e privi di uno stile riconoscibile (le vertigini architettoniche e di design delle pellicole degli anni ‘70 appartengono irrimediabilmente al passato) quanto per le dicotomie su cui si muove: città e bosco, luce e buio, visione e cecità. 

Dario Argento, Occhiali neri, 2022

Attorno a questi poli Argento articola l’agire dei personaggi, in particolare di Diana (Ilenia Pastorelli), escort che nelle sceneggiature storiche sarebbe apparsa come mera comprimaria sacrificabile e che qui, invece, conquista il ruolo di protagonista, ma anche dell’assassino, la cui identità viene rivelata già a metà film, sovvertendo quei canoni che il regista stesso aveva inventato.
 


 D'altronde gli inganni della visione che hanno caratterizzato opere come L’uccello dalle piume di cristalloProfondo rosso o il più recente Trauma, non sono attuabili in condizione di cecità: resta solo la fuga, in corridoi stretti o in boschi bui. Se l’aeroporto in Suspiria si configurava come anticamera dell’incubo, in Occhiali neri rappresenta l’approdo salvifico dopo l’orrore, ma anche, sembra dirci Argento, un ampio spazio impersonale e caotico in cui il senso di solitudine – e chi non ha paura della solitudine? – della protagonista si amplifica.

Titolo:
Occhiali neri
Diretto da:
Dario Argento
Prodotto da:
Urania Pictures, Getaway Films, Rai Cinema
Distribuito da:
Vision Distribution
Anno:
2022

L’aldilà

Dario Argento è innegabilmente un regista di culto che ha saputo contribuire in maniera significativa alla storia del cinema. Ma è ancora in grado di offrire qualcosa di eccezionale al suo pubblico? Parrebbe di sì. Ci stupisce nuovamente in tempi recentissimi, infatti, sottraendosi al suo stesso ruolo per varcare una soglia, ovvero passare davanti alla macchina da presa ed essere accompagnato verso la morte dal regista argentino Gaspar Noé con il suo Vortex (2021). 

Gaspar Noé, Vortex, 2021

Il claustrofobico ambiente domestico di un appartamento parigino stracolmo di testimonianze di una vita ormai vissuta, si trasforma in un vero e proprio preambolo alla dipartita dal mondo: lo split screen isola i due protagonisti ed evolve in un loculo cimiteriale a cui tanto un’icona del cinema francese come Françoise Lebrun quanto il nostro Argento, che in cinquant’anni di carriera ha condannato a morte centinaia di personaggi, non possono sottrarsi. Non ci sono assassini ma il vortice inarrestabile della senilità, della malattia, del disgregarsi inevitabile di mente e corpo. L’orrore più grande, a cui il nostro maestro del brivido si consegna consacrando il percorso di una vita dedicata ad esorcizzarlo.
 

Titolo:
Vortex
Diretto da:
Gaspar Noé
Prodotto da:
Wild Bunch, Canal+
Distribuito da:
Mubi, Prime Video
Anno:
2021

Immagine di apertura: Dario Argento, Suspiria, 1977

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