Tutto quello che si costruisce per i film è solitamente falso, una facciata o un contenitore vuoto. Per La zona di interesse invece è stata effettivamente ristrutturata una casa, ricostruendo da zero le scale e il porticato. Una casa completamente funzionante, inclusa tutta l’idraulica e la parte elettrica. La ragione viene dall’idea di girare il film all’interno di quegli spazi, vivendoli, senza la troupe, ma attraverso diverse videocamere nascoste, collegate da cavi che attraversavano l’abitazione tramite almeno una trentina di buchi nei muri.
Le immagini filmate venivano guardate e comandate da remoto dal regista Jonathan Glazer. Gli attori erano soli in casa con le scene da recitare, senza nessuno della troupe, senza nessun elemento del 2023, solo con i costumi e l’arredamento di una casa dell’inizio degli anni ‘40. E tutto questo perché quell’abitazione non è come le altre.
Si trattava della fedele riproduzione della casa di Rudolf Höss e della sua famiglia, il principale responsabile del campo di concentramento di Auschwitz, nonché architetto dello sterminio di massa. Per comodità si fece costruire la propria residenza confinante con il campo dove lavorava. Una casa all’interno della “zona di interesse”, cioè il termine burocratico con il quale venivano chiamati i 40 mq di territorio intorno al campo di concentramento. Così vicina al campo da condividere con esso il muro di cinta. Al di là di quel muro l’orrore della morte, al di qua una casetta altoborghese con fiori, bambini che giocano e una vita che scorre tranquilla.
Il dettaglio cruciale che dà un senso a La zona di interesse è tutto qui: in questo affiancamento di architetture. Il film non entra mai nel campo di concentramento, rimane sempre negli ambienti frequentati dalla famiglia e per lo più nella casa, ma quasi sempre vediamo i tetti del campo adiacente, le guglie, il fumo dei treni che arrivano, le torrette, il filo spinato e tutto il campionario di elementi visivi che abbiamo imparato a riconoscere come appartenenti al mondo dell’Olocausto.
Al di là di quel muro l’orrore della morte, al di qua una casetta altoborghese con fiori, bambini che giocano e una vita che scorre tranquilla.
E poi c’è il suono. Mentre osserviamo i piccoli problemi ordinari della famiglia protagonista sentiamo anche il rumore di armi, di fiamme, le grida e gli spari. La tranquillità che si vede e l’orrore che si sente compongono l’idea di contrasto attraverso la quale questo film di Jonathan Glazer premiato a Cannes con il premio della Giuria e in corsa per 5 premi Oscar (Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura, Miglior sonoro e Miglior film internazionale), riesce a trovare un nuovo modo di parlare dell’Olocausto.
Alla base di tutto c’è un gesto architettonico. Höss fu la persona che trasformò un carcere per prigionieri sovietici in Polonia in una struttura che ospitasse e sterminasse ebrei, una trasformazione di spazi, riallocazione di funzioni e flussi di lavoro quotidiano. In quel campo poi Höss fu impiccato alla fine del processo di Norimberga. Da quel gesto architettonico ne deriva un altro, quello della creazione di appartamenti borghesi per famiglie che non nascevano borghesi ma che lo erano diventate scalando i ranghi delle SS, anche in virtù del grande piano per il rastrellamento degli ebrei. Ripreso con una luce quanto più possibile asettica, il benessere borghese che trasudano quei giardini ordinati e quegli interni puliti, a contrasto con ciò che avviene accanto, è la versione architettonica dei 30 denari.
Ad aver lavorato alla scenografia è stato Chris Oddy, che per prima cosa ha potuto visitare la vera residenza Höss, adiacente ad Auschwitz, sei o sette volte per capirne la conformazione, raccogliere elementi e poi replicarla ristrutturando un edificio simile solo pochi chilometri lontano da lì. Era un’abitazione costruita nel 1937 in cui gli Höss entrarono nel 1940, aggiungendo un piano e costruendo un giardino con l’idea di usare il muro di cinta del campo come muro anche del loro giardino.
Oddy racconta che dal piano più alto della casa, quello delle camere da letto, si vedeva dentro il campo di concentramento (ora un museo). È una progettazione sconvolgente: vedere le torrette dalla sala da pranzo, la ciminiera dal salotto, il filo spinato dal giardino.
La costruzione della casa per il film è avvenuta poco lontano (quella vera non poteva essere utilizzata perché patrimonio Unesco), in modo che il paesaggio naturalistico non fosse troppo diverso. Ci sono voluti due anni e mezzo di progettazione e pianificazione in modo da metterci il meno possibile a terminare i lavori, che sono infatti durati solo quattro mesi e mezzo (le dimensioni erano inferiori a quella dell’originale ma le proporzioni rispettate).
Tutti i mobili che si vedono nel film sono repliche di quelli veri, nessuno era originale perché doveva sembrare tutto effettivamente nuovo, appena consegnato o appena acquistato, come quando gli Höss sono andati a vivere lì, come ricompensa per il loro lavoro. Sono stati piantati gli alberi per tempo e tutte le piante del giardino in modo che fosse pronto per le riprese.
Pavimenti a spina di pesce, le scale da rifare completamente, infissi e porticato da rimettere a posto, tutto rifatto anche pensando al fatto che dovevano trovare posto le macchine da presa nascoste che sarebbero servite a un approccio da “Grande Fratello”. Come se il pubblico osservasse la vera vita degli Höss.
La trama del film parla della famiglia, che non si chiama Höss ma Doll, delle infedeltà, dei bambini che di notte escono senza dirlo ai genitori e di un generale senso di ipocrisia che nasconde qualcosa di nero che si fa strada nelle teste delle persone che abitano lì. Non è il solito intreccio da film, più una maniera per tenere gli spettatori attaccati a quelle immagini, che è ciò che fa il film. Soprattutto attaccati al muro di cinta in comune con il campo, il secondo elemento architettonico che viene usato per veicolare il senso di tutta l’impresa. È una singola struttura architettonica che rappresenta la maniera in cui gli esseri umani si estraniano dalle proprie azioni, fingono di non vedere, fingono di non sapere anche quello che gli sta accanto.
Tra quello che fa Rudolph Höss e quello che fa la sua famiglia c’è solo un muro che impedisce di vedere ma non di sentire. È il paradosso più forte, una barriera che non è realmente tale e che tuttavia basta alla famiglia Höss per fingere di non sapere, per non guardare, non vedere e non sentire sensi di colpa (forse).
Con un incredibile monte di ore girate ogni giorno (venti!), alla fine le riprese di La zona di interesse hanno fruttato circa 850 ore totali, da scremare, selezionare e montare. Come fosse un documentario sulla vita di chi abita quegli spazi è stato così composto un film di meno di due ore, in cui la casa è la reale protagonista e gli esseri umani esistono in funzione sua.