La fantascienza è sempre una questione di design. Immaginare un mondo futuro che sia credibile vuol dire sempre inventare una cosa che non c’è, inventare un modo di vestirsi, truccarsi, pettinarsi, in certi casi parlare e poi inventare tutto il complesso di palazzi, architetture e design d’interno ma anche design industriale degli oggetti di uso comune intorno ai personaggi.
I più grandi film di fantascienza hanno sempre fatto questo meglio degli altri, hanno saputo inventare un design che rendesse il futuro credibile. Dune, nella versione di Denis Villeneuve, va oltre e più che inventare un design imposta tutto un film intorno all’idea che i colori, le forme e le architetture possano contribuire al senso della storia.
Dune sarebbe un unico film di circa cinque ore ma è stato diviso in due parti, non ci sono quindi differenze stilistiche tra quella che è arrivata al cinema nel 2021 e quella che ci arriva adesso. Entrambe sono ambientate quasi esclusivamente sul pianeta desertico di Arrakis e raccontano il primo libro del ciclo di Dune di Frank Herbert, in cui due casati nobili si scontrano per il potere sulla spezia, risorsa il cui controllo conferisce potere politico e commerciale.
Dune sarebbe un unico film di circa cinque ore ma è stato diviso in due parti, non ci sono quindi differenze stilistiche tra quella che è arrivata al cinema nel 2021 e quella che ci arriva adesso.
Dune è la storia dell’emergere di un condottiero che tutti considerano un profeta, un essere superiore in un mondo in cui magia, religione e percezioni extrasensoriali sono mescolate. L’obiettivo di Dune è di raccontare cosa accade quando politica e religione si incontrano, le tentazioni del fondamentalismo e su quali dinamiche umane si basi.
Il futuro di Dune va al di là dell’anno 10.000, è un futuro così remoto da essere completamente staccato dal nostro presente. David Lynch nella sua versione del 1984 lo aveva immaginato con divise militari simili a quelle che conosciamo, con molto acciaio, tubature, vapore e ingranaggi. Era quasi art-deco. Era un futuro pesante, in ghisa, ottone e muratura, il cui design tondeggiante non è troppo lontano da quello alieno del film di Flash Gordon di quattro anni precedente (non è un caso se il produttore era lo stesso: Dino De Laurentiis).
Villeneuve invece assegna a ogni casato o ogni popolazione il proprio design, ma tutto è ispirato a superfici lisce e morbide, economia di movimento e di carburante, velivoli modellati sugli insetti e mezzi pesanti modellati sugli animali. Soprattutto la vera discriminante è tra quei popoli che hanno costruito palazzi e velivoli in armonia con la natura e quelli che invece hanno imposto la loro presenza.
Ogni popolo i propri colori
Le popolazioni indigene di Arrakis, i Fremen, già nel racconto sono apertamente ispirate agli arabi detentori dei territori in cui, nel nostro di mondo, è presente il petrolio che poi viene predato dalle nazioni più ricche. Nel racconto il pianeta dei Fremen è ricco di Spezia, una risorsa che consente il viaggio delle astronavi.
Il progettista e scenografo Patrice Vermette (già al lavoro con Villeneuve nei suoi film precedenti) per tutto quello che è stato costruito su Arrakis, sia dai Fremen che dai popoli che lo hanno colonizzato, si è ispirato all’architettura araba moderna (principalmente Ammar Khammash e Sahel Alhiyari) e alla maniera in cui le costruzioni cercano di ridurre il loro impatto.
Il progettista e scenografo Patrice Vermette si è ispirato all’architettura araba moderna e alla maniera in cui le costruzioni cercano di ridurre il loro impatto.
Ad esempio su Arrakis i venti si dice che raggiungano i 750 Km/h, allora i palazzi hanno superfici lisce e oblique e sono bucati, così da opporre la minor resistenza possibile. I Fremen, cioè gli indigeni, li vediamo vivere in costruzioni interrate o scavate nelle montagne che ricordano la Alhambra per come la luce viene gestita direttamente dalle forme delle volte, dai riflessi e dall’ampiezza degli ambienti. Sono popolazioni estremamente religiose, quelle che attendono il messia e che pensano che Paul Atreides, il protagonista del film interpretato da Timothée Chalamet, rampollo del casato che dovrebbe comandare su Arrakis ma che è stato spodestato, sia proprio quel messia che li aiuterà a prendere il potere del proprio pianeta. Tutto per i Fremen è naturale, e tutto è al tempo stesso immenso perché ogni ambiente ha una funzione spirituale.
Quella grande costruzione, in cui si svolge una gran parte del primo film, è stata davvero realizzata, un immenso set costruito in polistirolo ad altissima densità e ispirato al brutalismo. È un’architettura imponente e fascista, di chi deve incutere timore ai locali, che vive in armonia con il pianeta per non soccombere, ma è sufficientemente arrogante da essere (come viene detto nel film) “la costruzione più grande mai tentata dall’uomo”, un palazzo-città che si sviluppa a piani. Un po’ Ziggurat della Mesopotamia da fuori, un po’ bunker antiatomico dentro. Tutte queste costruzioni, a prescindere dal popolo che le ha concepite, hanno la luce che entra in modi indiretti, illuminando senza scaldare, e creando grandi ombre, indispensabile in un pianeta caldissimo.
Se per i Fremen domina il color giallo sabbia, per i cattivi Harkonnen il nero è il colore più importante. Sul loro pianeta il sole stesso è nero, la loro pelle è bianchissima e i loro abiti sono neri anch’essi. Sono monocromatici e in una sequenza ambientata proprio sul loro pianeta ci viene mostrato anche come lì non esistano i colori. Questa popolazione che rappresenta il male si organizza in maniera simile agli antichi romani, con giochi mortali in uno stadio di design moderno, adunate di massa di fronte al proprio leader, morte ovunque e una luce senza sfumature, che satura tutto. La bellezza di quel design in bianco e nero è indimenticabile.
Ogni tecnologia la sua funzione
Ancora più impressionante però è l’attenzione maniacale che Dune mostra di avere per le meccaniche del funzionamento di tutto ciò che vediamo nel film. I film non possono perdere tempo a raccontare i meccanismi di ogni singola tecnologia o di ogni tecnica che viene impiegata e così, mentre la storia avanza, sono le immagini a spiegare visivamente la funzionalità del design.
A partire dalla prima scena in cui un topo-canguro, un animale tipico di Arrakis, è mostrato bere il proprio sudore, in seguito potremo facilmente capire che il funzionamento delle tute che consentono agli indigeni Fremen di vivere nel deserto imitano la strategia di sopravvivenza di quell’animale. Ancora quel pianeta è così ostile che l’unica maniera di poterlo abitare è di non imporre se stessi ma cercare di imitare gli animali.
È solo la prima di tante maniere diverse in cui il film spiega senza parlare, attraverso il design. Ci sono scudi colorati per distinguere le persone nei conflitti, armi il cui funzionamento è intuitivo, design di tecnologie di proiezione ma anche dardi per avvelenamenti e il meccanismo per il richiamo dei grandi vermi del deserto: tutto avviene tramite oggetti dal design preciso che non ha solo il compito classico del design di fantascienza, cioé creare un ambiente plausibilmente futuristico, ma quello di spiegare cosa stia accadendo e dare grande profondità al mondo.
Dune è un universo narrativo, non è solo un film ma la creazione di un ambiente in cui poter ambientare altre storie (non finiscono qui i libri da adattare) e per essere sufficientemente suggestivo deve sembrare completo, inventato fino al minimo dettaglio. Un design coerente e chiaro di ogni oggetto è indispensabile tanto quando la creazione di lingue specifiche che suonino originali e anch’esse coerenti.
Dune è un universo narrativo, non è solo un film ma la creazione di un ambiente in cui poter ambientare altre storie.
Un buon esempio sono le macchine volanti a forma di insetto inventate dallo scenografo Vermette. Ci sono sia i grossi scarafaggi, le navi madre ovoidali che sembrano zeppelin degli anni ‘20, sia poi i mezzi individuali, disegnati come libellule (realizzati dal designer George Hull) che volano proprio sbattendo ali metalliche (costruite veramente e funzionanti anche se ovviamente non realmente volanti). Immaginare i mezzi del deserto che hanno la forma di animali risponde sempre all’idea di imitare gli animali e la loro maniera di sopravvivere su Arrakis.
Il futuro secondo Villeneuve
Già con Arrival e Blade Runner 2049, Denis Villeneuve aveva provato a immaginare squarci di futuro. Nel primo film, ambientato nel nostro presente, immaginava un’astronave aliena, funzionamenti tecnologici sconosciuti e più avanzati dei nostri, una lingua totalmente aliena e un sistema di comunicazione diverso. Nel secondo costruiva sul design del film di Ridley Scott qualcosa di nuovo e unico, aggiungendo mondi desertici (la cui resa fotografica somiglia a quella dei deserti di Dune perché c’è il medesimo direttore della fotografia a curare luci e colori). E proprio in Blade Runner 2049, il tema della tecnologia che crea padroni e dei, portava a immaginare ambienti scarni, uffici brutalisti simili all’edilizia al di là della Cortina di ferro, in cui è la maniera in cui la luce entra e tocca le superfici a creare una personalità.
Ora in Dune le costruzioni nascoste dei Fremen hanno tagli di luce che entrano quasi clandestini, quelle imperiali di chi domina Arrakis sono grandi e piramidali e quelle degli Harkonnen sono senza finestre, immerse nel nero di chi non vuole essere visto. Per questo quando poi in un pugno di scene vediamo tutto un altro scenario, cioè la residenza dell’imperatore dell’universo, in un altro pianeta, ci stupisce la scelta che è stata fatta per descriverlo. Perché ancora una volta è il design (a noi familiare) che senza bisogno che nessuno lo dica, in un attimo parla del medioevo, del passato della civiltà e di quel tipo di architetture dentro le quali vive chi si estranea dal resto della popolazione per rinchiudersi in una bolla di benessere.
Immagine di apertura: Courtesy Warner Bros