È questo il blockbuster moderno. O almeno anche questo. Negli anni in cui la Marvel gira film tutti di scrittura e visivamente deboli, in cui Fast & Furious vuole imporsi come re del box office e anche i film di 007 rinunciano alla sofisticazione c’è un altro mondo che avanza, è quello dei filmoni giganteschi, mainstream ma con un gusto d’autore, la fusione più clamorosa tra macchina industriale e pensiero artistico. Denis Villeneuve è tra quelli che avevano annunciato quest’era con Arrival (anch’esso presentato alla Mostra del cinema di Venezia che questo tipo di cinema lo tiene a battesimo volentieri) l’aveva reiterato con l’impossibile sequel di Blade Runner, e adesso con Dune alza la posta ancora di più.
Raramente negli ultimi decenni abbiamo visto la grandissima macchina hollywoodiana spingersi così in là sul lato della ricerca visiva. Dune è un film gigante, ed è solo la prima parte della storia (un altro, che la chiuderà, deve ancora iniziare le riprese), non vuole essere come gli altri, è la storia di un rampollo eccezionale in un futuro remoto (l’anno 10191), e utilizza il design, l’architettura, la musica e le installazioni per farsi capire dal pubblico. Parla la lingua di diverse forme d’arte. Le parole, che pure ci sono e in abbondanza, sono utili a elencare dati, a dispiegare la storia di come il casato nobile degli Atreides sia stato incaricato dall’imperatore di sostituire quello degli Harkonnen alla guida del pianeta più importante di tutti, quello in cui si estrae la spezia, polvere indispensabile per la navigazione interstellare. Il petrolio del futuro.
Dune è cinema muscolare di impressionante potenza. Non vuole avvicinare il pubblico con le storielle d’amore o i piccoli tormenti di figure in fondo ordinarie come noi, vuole abbagliare con vicende di individui eccezionali, fuori da ogni regola. Questo film dalle proporzioni giganti, che racconta epici scontri e forse l’arrivo dell’Eletto, non ha niente a che fare con quello massacrato da tagli e imposizioni di David Lynch del 1984 (ma ha cuore a sufficienza da rubargli una soluzione, l’effetto un po’ vintage e il punto di blu degli occhi dei personaggi che vivono a contatto con la spezia), è un cinema più vicino a quello di Nolan, di incredibile ambizione ed eccezionale serietà, solo più ambizioso dal punto della ricerca visiva.
A parte i dati e le parti in causa (c’è anche una popolazione di nativi che le sabbie le padroneggiano) da subito il pubblico deve capire molte cose, come funziona questo futuro, chi è il protagonista e che problemi ha. Tutto un universo va spiegato e va spiegato in modi chiari, perché fino all’ultimo spettatore lo capisca con facilità. Villeneuve ha imparato dalla storia della fantascienza che più universali delle parole sono le immagini, e così le fa lavorare a braccetto. I dialoghi ci spiegano gli intrighi politici e come questo cambio sia una mossa dell’imperatore per mettere in guerra Harkonnen e Atreides, mentre le vedute della colonia in cui arriva il casato Atreides (che ricordano le forme inventate da Syd Mead per Blade Runner, come piramidi maya) gridano la grandezza del regime, parlano di sopruso solo con le loro forme arroganti. Gli interni ampi e spaziosi, i soffitti altissimi parlano di una visione della nobiltà simile a quella dell’antico Egitto, le pareti istoriate con giganteschi vermi ci introducono le creature che strisciano nelle dune ma è l’interior design, minimalista in stileorientale, a dirci che in questo mondo c’è una grande spiritualità. Invece che dirlo il film ci aiuta a capirlo da soli.
Ancora, per sopravvivere nel deserto c’è bisogno di una tuta inventata dalla popolazione indigena che trasforma il liquido perso in acqua potabile e tiene così idratato chi la indossa e un’inquadratura sola di un topo ci fa capire che questo sistema è stato rubato alla maniera in cui sopravvivono le forme di vita locali. Oppure nel palazzo personaggi di ordini diversi (alcuni aderenti ad una sorellanza con poteri psichici) vanno distinti e in entrambi i casi la sartoria fa miracoli per richiamare e spiegare, anche i combattimenti hanno dinamiche uniche frutto delle tecnologie impiegate che distinguono colpi parati (blu) in colpi a segno (rossi), creando cromatismi che spiegano ma affascinano anche. Ci sarà una scena di attentato al protagonista (un ottimo Timothée Chalamet, sempre di più il volto e il corpo del “giovane dotato, sofisticato e potente” del cinema contemporaneo) che lui riuscirà ad evitare confondendosi dentro ad un video proiettato, una specie di installazione artistica attraversabile come un ologramma che usa per informarsi. Nessuno lo spiega, lo capiamo da noi. E infine c’è la musica, di Hans Zimmer, fatta di rumori assordanti come spesso gli capita ultimamente, ispirata alle avanguardie che funziona bene in armonia con le voci roboanti dei pensieri che i personaggi sentono nelle loro teste.
Perché il giovane Paul Atreides, il rampollo della famiglia, è stato cresciuto da una madre mistica, è capace di parlare con la mente, è un’antenna che riceve messaggi e fa sogni premonitori. È la parte di mistero del film che tiene avvinti e spinge ad attendere il secondo. L’intrigo politico è affiancato dalla scoperta di Paul Atreides (tramite i sogni) che qualcosa di grosso sta per accadere, qualcosa che cambierà tutto. Quel senso di minaccia che incombe è tutto lasciato alla colonna sonora per l’appunto mentre il fascino per questo nuovo pianeta alla cura visiva di Villeneuve che con le dune crea delle trame, come se il tessuto naturale fosse stato intagliato.
Non c’è un fotogramma di Dune che manchi di design. Design dei tessuti o di interni, design industriale dei mezzi (pensati per avere forma di animali come quelli di Guerre stellari che proprio dai romanzi di Dune ha rubato tantissimo) e design da visual artist.
In un’industria del cinema che trabocca di contenuti, molti di più di quelli che possono essere visti, anche la Warner Bros sa che il futuro è la capacità di distinguersi dalla massa, di essere riconoscibili ed elevarsi sopra il resto della concorrenza e del convenzionale. Lo si può fare con una proprietà intellettuale nota e amata (cioè con Batman o con i Lego), lo si può fare con un attore incredibilmente popolare preso come protagonista ma lo si può fare e molto con l’audacia di una visione unica come per Dune, che prende tutto quello che conosciamo del cinema (e dell’arte) per rimescolarlo di nuovo in dosi che non avevamo mai visto e consegnare un prodotto come Dune. Familiare agli amanti del genere e spettacolare a livello hollywoodiano, capace di parlare la lingua mainstream del cinema ma con la precisione e il coraggio di andare un po’ più avanti del cinema d’autore.
Tutte le immagini: stillframe dal film Dune.