L’Italia, la ministra del Turismo e le borse (false).
Notizie dal passato. È il 2013 quando Daniela Santanchè, figura discussa quanto centrale del panorama politico italiano, omaggia l’allora compagna di Silvio Berlusconi, Francesca Pascale, con due borse di un prestigioso marchio francese.
Il gesto, all’apparenza innocente, si rivelerà poi fonte d’imbarazzo, per Pascale, e di polemiche, per Santanché, divenuta nel frattempo ministra. Perché le borse in questione sarebbero risultate contraffatte.
Sopita per anni, la querelle è riemersa con forza negli ultimi giorni, alimentando un acceso dibattito sui media e sui social network, scatenando simpatici meme e antipatici scontri politici. Senza però andare a fondo all’oggetto borsa, che nata come necessità di trasportare oggetti e provviste, ha attraversato secoli di trasformazioni, divenendo simbolo di status, arte e infine icona di stile.

Nate nell’antico Egitto, le borse erano fatte di papiro, materiale duttile e abbondante, plasmato per creare contenitori, questi, lungi dall’essere semplici involucri, erano veri e propri marcatori di ruolo sociale e se ci spostiamo nel tempo, arriviamo al Cinquecento, nel cuore del Granducato di Toscana, qui, abili artigiani iniziano a lavorare pellami pregiati, capra, vitello, camoscio, non semplici sacche, ma vere e proprie opere d’arte, impreziosite da frange, ricami, fiocchi, un’eleganza raffinata, espressione di un’epoca in cui il dettaglio era tutto. Subito dopo, a Venezia, crocevia di mercanti e viaggiatori, conciatori e pellettieri si dedicano alla produzione di borse funzionali, pensate per contenere oggetti da viaggio e merci di piccole dimensioni, compagni fidati di chi solcava le rotte commerciali.
Testimoni di un mondo in continuo movimento, l’Ottocento e il Novecento, secoli di grandi cambiamenti, vedono le donne intraprendere viaggi con frequenza crescente, ecco allora che nascono borse con tasche e scomparti, pensate per agevolare il trasporto di oggetti durante spostamenti di piacere e di lavoro, un simbolo di crescente indipendenza femminile, un accessorio che accompagna le donne in un mondo in continua evoluzione e infine, il Novecento, secolo in cui la borsa diviene icona di stile, simbolo di emancipazione e praticità, "borsetta", termine che affonda le sue radici nel greco “byrsa”(cuoio), entra nel linguaggio comune, e dal secondo dopoguerra in poi, la borsa si evolve, si adatta, diviene espressione dell’identità femminile, un oggetto così comune, così quotidiano, che racchiude in sé secoli di storia, di cambiamenti sociali, di evoluzione culturale.
Nel fitto tessuto dell’iconografia sacra, un’anomalia s’insinua, una dissonanza che scuote l’equilibrio apparente della rappresentazione di un’opera fiamminga: l’Annunciazione di Robert Campin più noto come Maître de Flémalle.
Una borsa, oggetto profano, estraneo alla solennità del tema, fa capolino ai piedi della Vergine. Non un semplice dettaglio, ma una frattura che incrina la superficie liscia della narrazione religiosa, un elemento perturbante che sfida l’interpretazione iconografica.
La “borsa della Vergine”, un’intrusione nel sacro, si staglia in un angolo, relegata ai margini, eppure insistentemente presente. La sua posizione, apparentemente casuale, rivela una trama sottile, una rete di significati nascosti. Una diagonale invisibile la connette allo sguardo dell’arcangelo Gabriele, un filo che unisce il terreno al divino. Due libri sacri, uno sfiorato dal vento, forse lo Spirito Santo, l’altro accolto nel grembo di Maria, completano questo triangolo simbolico, un gioco di rimandi che svela la funzione della borsa: un contenitore, un reliquiario, un custode di parole sacre.
La preziosità dell’oggetto, la sua aura di mistero, stride con la sua collocazione marginale. Un’iper-visibilità che nasce dalla dissonanza, dall’attrito tra sacro e profano. La borsa, come scrigno di un tesoro inestimabile, fa eco ad altri contenitori: il vaso di gigli, simbolo di purezza, il manto di Maria, custode del suo corpo. Un gioco di rimandi che si estende al tessuto stesso della rappresentazione, alla trama dei significati che avvolge la Vergine e contiene il libro sacro.
L’opera è progettata tra toni che spaziano dal bianco angelico al rosso mariano, dal verde della panca al giallo del cuscino, fino al nero profondo della borsa, che ne esalta la materialità e la simbolicità. La borsa qui diventa un enigma che da spazio a diverse interpretazioni.
Nell’Annunciazione di Gérard David, appare ancora una borsa, anche questa emerge quale criptico fulcro di significati riposti, relegata, come l’altra, agli estremi inferiori della tela. La borsa di David riprende le scultoree pieghe delle vesti verginali, una forma che si trasmuta in scultura autonoma. L’umile Maria accoglie il verbo divino, mentre i gigli e la borsa vermiglia le fanno da coro silenzioso, quasi un palcoscenico deserto, dove l’assenza della borsa pulsa nel contrasto dei cordoni ebano e del rosario dorato. Anche qui il sistema iconografico si dipana in una coreografia di elementi: Madonna, scritture sacre, gigli, tessuti e la borsa. Ogni elemento danza tra marginalità e centralità, e il nostro soggetto, allineato a figure sacre, rivela la sua duplice natura di oggetto polisemico, oscillante tra il profano e il divino, tra ombra e narrazione, tra spiritualità e materia.
Dalle sacre rappresentazioni con borse simboliche alle vicende mondane di omaggi dubbi, la borsa si conferma oggetto di narrazione e paradosso. Tra arte e realtà, il confine si assottiglia, lasciando spazio a riflessioni sulla natura stessa degli oggetti e dei gesti.
Immagine di apertura: Robert Campin, L'Annunciazione, Trittico di Mèrode, 1427