Il monito “Tutto è architettura” risuona come un mantra tra le sale del Centre Pompidou di Parigi, dove è stata recentemente inaugurata l’imponente retrospettiva “Hans Hollein transFORMS” dedicata al grande maestro austriaco. Premio Pritzker nel 1985, personalità eclettica sospesa tra l’architettura radicale e l’arte concettuale, Hollein fu senza soluzione di continuità architetto, artista, teorico, designer, urbanista e editore.
La mostra, a cura di Frédéric Migayrou, ricostruisce questa complessità dispiegando un percorso cronologico che include e mette sullo stesso piano opere celebri accanto ad altre meno note ma altrettanto emblematiche. Allestita principalmente con i fondi del museo parigino, tra cui figurano anche le opere acquisite dopo la morte dell’artista nel 2014, la mostra è stata realizzata sotto la supervisione del figlio Max Hollein, attuale direttore del Met di New York.

Nato nel 1934 a Vienna, una città a cui rimarrà sempre profondamente legato, Hans Hollein fece studi d’arte all’Accademia di Belle Arti per poi volare negli Stati Uniti, dove si laureò in architettura a Berkeley con una tesi dal titolo “Space in Space in Space”. Durante i suoi anni americani avrà l’opportunità di conoscere personalmente grandi maestri come Frank Lloyd Wright e Mies Van der Rohe, un’esperienza che sarà senza dubbio fondatrice, ma che non lo allineerà tra gli epigoni del movimento moderno. Piuttosto, aperture culturali più variegate, tra le quali anche la lettura di Marshall McLuhan, acuiranno la sua sensibilità rispetto all’evoluzione dei sistemi dell’informazione e alle dinamiche della rappresentazione nella società dei consumi.

Ma è tornando nella sua Vienna natale che l’originalità del suo pensiero inizierà a prendere – letteralmente – una propria forma. Tra i suoi primi lavori dei tardi anni ‘50, su piccola scala e non orientati alla composizione architettonica propriamente detta, “transFORMS” offre la possibilità di osservare i primi dipinti su carta di giornale realizzati ad inchiostro ed acquarello, oltre ai suoi celeberrimi collage, rappresentazione speculativa di un’architettura che, trasfigurando una realtà urbana data, si vuole fondatrice ed assoluta.
Proprio ai collage si dovrà il riconoscimento precoce dell’originalità del suo pensiero. Sarà infatti Arthur Drexler, a capo del Dipartimento di Architettura e Design del Museum of Modern Art di New York, a farne l’acquisizione dopo averli esposti nella mostra “Architectural Fantasies” del 1967, dove comparivano anche gli architetti austriaci Walter Pichler e Reimund Abraham.

A partire dal 1965, Hollein inizierà ad alimentare il dibattito sull’architettura dalle pagine della rivista Bau, dove militerà per la rivalutazione delle opere di Josef Hoffmann e Adolf Loos e inizierà a fare affiorare le sue prese di posizione per un’architettura in grado di assimilare consapevolezza psicofisica e cognitiva. È proprio dalle pagine di Bau, come documenta la mostra, che nel 1968 il suo grido “Tutto è architettura” viene lanciato.
Farà seguito, ci racconta la mostra, la realizzazione di progetti effimeri che “invitano a smettere di pensare unicamente in termini di edificio”, tra cui rientra il suo ufficio gonfiabile in pvc trasparente, incredibilmente attuale in anni pandemici e di telelavoro. Allo stesso tempo, Hollein sperimenterà forme inconsuete e decorative – come per la facciata in alluminio spazzolato del negozio viennese di candele Retti – esposta da “transFORMS ” attraverso una prodigiosa sequenza di maquette di vetrine che includono anche una tabaccheria e la gioielleria Schullin a Vienna.
Un’etichetta, quella del postmoderno, alla quale “transFORMS” non può sottrarre il proprio angolo di lettura su Hollein, pur avanzando una visione della sua opera che appare restituita da un prisma ben più sfaccettato.

Dopo il focus sugli esordi, il Pompidou non manca di orientare lo sguardo su alcune tra le opere più note, tra cui spicca la riproposizione di alcune grandi installazioni. Non è però il caso della Strada Novissima, forse la sua installazione più celebre, realizzata per la prima Biennale di Architettura del 1980 a cura di Paolo Portoghesi, dove Hollein reinterpretò il tema de “La forma del passato” con un passaggio storicizzante sulla figura della colonna: “transFORMS” la racconta solo attraverso foto e schizzi preparatori. Piuttosto, la mostra ci regala l’opportunità di rivivere Die Turnstunde, la lezione di ginnastica, installazione realizzata nel 1984 presso il museo di Mönchengladbach – anch’esso un progetto di Hollein – nella quale i manichini-atleti rivestiti in finitura dorata sono stesso tempo l’eco dell’uomo vitruviano e l’esaltazione di una fisicità gloriosa e sensuale.

Non mancano, naturalmente, i suoi contributi più propriamente architettonici, ricostruiti attraverso maquette, piante e fotografie, tra cui il museo Mönchengladbach appena citato, costruito nel 1982, il primo ad essere rivestito di lamiera ma anche e soprattutto incarnazione di un paradigma di rottura che supera il principio del “white cube”, del museo contenitore. E non manca naturalmente la celebre Haas Haus, forse la sua opera più nota e controversa, costruita di fronte allo Stephansdom, la storica cattedrale gotica di Vienna in piazza Santo Stefano, e considerata la sua opera più emblematicamente postmodernista.
Una galassia e un’etichetta, quella del postmoderno, alla quale “transFORMS” non può sottrarre il proprio angolo di lettura su Hollein, pur avanzando una visione della sua opera che appare restituita da un prisma ben più ampio e sfaccettato, pieno di affinità con l’arte, di continue mediazioni tra il funzionale e il simbolico, e a favore di un linguaggio spaziale che gioca con la forma senza timori, ma anche senza stilemi definitivi.

Immagine di apertura: Strutture urbane sopra Vienna, 1960. Foto © Centre Pompidou, MNAM-CCI/Georges Meguerditchian/Dist. GrandPalaisRmn