Riguardo a Tracey Emin, negli ultimi trent’anni, si è detto di tutto. Che la sua arte è catartica, confessionale, espiatoria, autobiografica. Che i suoi dipinti sono intimi, crudi, introspettivi, controversi. In più occasioni si è gridato allo scandalo, all’inopportuno, al sessualmente esplicito o inadeguato, a partire dal quel My Bed – la riproduzione della sua camera da letto dopo quello che oggi chiamiamo "bed rotting" – che nel 1999 le valse la nomination al Turner Prize, e che la consacrò ufficialmente al mondo dell’arte. Si è parlato spesso anche di fragilità, vulnerabilità, dolcezza.
In trent’anni sono state usate sempre le stesse parole, che ancora oggi continuano a passare di bocca in bocca. E – in un modo quasi ossessivo, che rasenta la pornografia del dolore – ogni volta che si è parlato di Emin, non si è taciuto sullo stupro subito a tredici anni, su i due aborti che negli anni Novanta l’hanno segnata tanto da portarla a distruggere tutta l’arte prodotta fino a quel momento, e sul cancro che quattro anni fa l’ha quasi uccisa.
Spesso mi chiedono cosa ne penso del femminismo. E io rispondo sempre che io non penso al femminismo. Io sono una femminista.

Certo, sembra quasi impossibile parlare di Emin senza passare per tutto questo, o ignorando un dato biografico così preponderante. Ma la realtà è che la maggior parte di ciò che si è detto finora scalfisce solo impercettibilmente la superficie di quello che l’artista "fa" con la sua arte, con le sue emozioni, con l’esperienza stessa dell’esistenza e del dolore che le è intrinseco – perché inscindibile dall’atto di amare, che è un "dolore costante".

L’unico modo per capire qualcosa di Emin è osservare le sue immagini (“non sono immagini, sono sentimenti”, ha spesso sottolineato l’artista) e leggere le sue parole, lasciandole risuonare in qualcosa dentro di noi che esiste da prima di noi. E per farlo, la mostra “Tracey Emin. Sex and Solitude” – allestita a Palazzo Strozzi a Firenze dal 16 marzo al 20 luglio – è un’occasione imperdibile. Di seguito, un piccolo manuale per visitarla al meglio, attraverso cinque delle opere più rappresentative.
Ma prima, una precisazione sul titolo, ispirato all’installazione site-specific – una scritta in neon che reca le stesse parole – che accoglie il pubblico all’ingresso del Palazzo. Presentando la mostra, Emin spiega che “molte persone in questa stanza, e molte persone in generale, hanno avuto esperienza di cosa sia il sesso e cosa sia la solitudine: per me sono intriseche. Da giovane il sesso mi dava una spinta, mi faceva pensare, mi faceva agire, mentre ora che sono più grande, è la solitudine ad essere fondamentale per la mia arte”.

Immagine di apertura: Tracey Emin, “Sex and Solitude”, Palazzo Strozzi, Firenze, 2025. Foto Ela Bialkowska, OKNO Studio © Tracey Emin. Tutti i diritti riservati, DACS 2025.