Arte, Arte, Arte. Oggi non si fa che parlare di arte. Continuamente, quotidianamente, inevitabilmente quasi. Arte, dunque. Ma che cosa significa? Di “quale” arte parliamo oggi? E soprattutto, per “chi”? Questi i termini del problema, per provare a parlare di arte sfuggendo ad uno stereotipo rischioso, alimentato dal mercato e dai media, per cui la sola arte contemplata appare quella “contemporanea”. Fiere, esposizioni, art dealer, influencer, blogger e chi più ne ha più ne metta. Ma anche qui: chi sono questi signori e signore che ci dicono cosa “è” l’arte? E quanti, e quali, hanno la cultura necessaria, anche se forse sarebbe più giusto dire indispensabile, per accompagnarci in questo mondo?
Arte: Associazione (di) Ricordi Taumaturgici Essenziali
Di cosa parliamo quando parliamo di arte. E soprattutto per “chi”?
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- Valentina Petrucci
- 30 marzo 2020
Iniziamo dalla fine, dal punto di non ritorno rappresentato dal 2010, l’annus horribilis della riforma scolastica di Mariastella Gelmini in Italia. Come se non fosse bastato lo snobismo di alcuni approcci culturali (e politici), che faceva da contraltare alla grettezza di altri, l’insufficienza storica dei manuali proposti nei corsi di studio universitari si scontrò con la riforma Gelmini, che annichiliva la questione riducendo all'osso il monte ore di insegnamento, sia negli istituti tecnici professionali che nei licei. Da lì ai famigerati corsi di laurea in Economia dell’arte o Master universitari e parauniversitari il passo è stato breve e irreversibile. Un passo nel vuoto, o se preferiamo in una confusione culturale e concettuale.
Per provare a capirci qualcosa, occorre quindi tornare indietro. E ricordare che parlare di arte vuol dire almeno avere qualche conoscenza dei maggiori artisti che hanno in un dato secolo dettato lo stile o stravolto il passato più recente: Masaccio, Michelangelo, Caravaggio, solo per citarne alcuni tra i più noti e senza dimenticare Leonardo, Raffaello o tutti quegli artisti/architetti come Bernini e Borromini, che hanno fatto si che il nostro paese potesse aver davanti quel piccolo aggettivo che lo distingue dal resto del mondo: “Bel”.
Tutto questo fino a Duchamp, che affermando di essere fermamente convinto che l’arte non necessitasse di bellezza, aprì la possibilità a noi contemporanei di pensare che forse non necessiti anche di cultura.
Come se, entrata in una sorta di dopo, l’arte si presentasse come la morte del bello, andando di pari passo con una spettacolarizzazione della contemporaneità e della propria decadenza, finendo per travolgere e fruitori e spettatori e formando nuovi “tecnici di settore” a cui non si può richiedere cultura poiché, appunto, non più necessaria.
Del resto, Philip K. Dick diceva sempre che “il guaio di farsi una cultura è che il processo richiede molto tempo, ti brucia la parte migliore della vita, e quando hai finito l'unica cosa che sai è che ti sarebbe convenuto di più fare il banchiere”. Ecco dunque svelato il mistero: perché mai passare del tempo a studiare l’arte di un ipotetico ieri, che ad oggi a nessuno interessa, mentre per lavorare nel fantastico mondo dell’arte bastano poche informazioni, facilmente reperibili negli archivi digitali o degli stessi artisti, ma soprattutto essere à la page, fare pubbliche relazioni e vivere onnipresenti sui social?
E ricordare che parlare di arte vuol dire almeno avere qualche conoscenza dei maggiori artisti che hanno in un dato secolo dettato lo stile o stravolto il passato più recente: Masaccio, Michelangelo, Caravaggio, solo per citarne alcuni tra i più noti. Tutto questo fino a Duchamp.
E qui si arriva al secondo termine del problema. A domandarsi cioè cos’ha contribuito a creare questo disinteresse verso qualsiasi valore culturale dell’arte? Una risposta è il denaro, o meglio la perversione che il denaro ha subito nell’ultimo secolo e soprattutto nella seconda metà del Novecento. La finanziarizzazione della realtà, l’aumento dei ricchi a livello globale che come nel passato, ma senza gli strumenti culturali del passato, cercano nell’arte la rappresentazione del loro ruolo e potere, ha chiuso il cerchio profetizzato da Nietzsche che in una sua conferenza sull’avvenire delle scuole stigmatizzava lo stato di disagio culturale che ben conosciamo. “Chi vi condurrà alla patria della cultura se le vostre guide sono cieche e si spacciano per gente che vede? Chi di voi perverrà al vero sentimento della sacra gravità dell’arte, se venite viziati sistematicamente a balbettare soli laddove vi si dovrebbe guidare, a meditare e a filosofare soli sull’opera d’arte, laddove vi si dovrebbe costringere ad ascoltare grandi pensatori e tutto ciò con il risultato che rimarrete eternamente lontani dall’opera d’arte? Così resterete servitori dell’oggi”. Potremmo dire che la risposta a Nietzsche è arrivata un secolo dopo, con l’affermazione grazie ai social network di nuove figure “d’intellettuali”, spesso improvvisati, ma altrettanto spesso di bell’aspetto, che diversamente dal passato potremmo definire sine nobilitate. Questi nuovi “operatori culturali”, ma soprattutto economici, hanno inventato un nuovo modo di “fare cultura”, a danno di un pubblico che, poco colto ed impreparato, si è trovato così deliziosamente suggestionato dal loro appeal, dal loro seguito virtuale, orchestrando questa strategia in maniera impeccabile, o quasi. Una volta infatti, e nemmeno molto tempo fa, l’arte era appannaggio di veri connaisseurs o materia di riflessione per scrittori come Baudelaire, Wilde, Apollinaire, Sainte-Beuve. Oggi invece le interazioni sociali che ruotano attorno a questo mondo sono le più varie e molteplici, tutte però dettate da interessi economici e sociali piuttosto che culturali tout court. Peccato che l’arte detti emozioni, crei sentimenti relativi ai tempi o alle culture. Qualcosa che il denaro fa fatica a comprare.
Cos’è accaduto? Quali cambiamenti culturali ed economici hanno fatto si che si arrivasse a una esposizione della funzione creativa e della fruizione come una continua operazione di declino estetico?
L’altra grande domanda sull’arte contemporanea è quella del bello. C’è ancora un tempo del bello? La risposta sembra essere negativa. Come può una tela di Fontana suscitare sentimenti? Dovremo al contrario prepararci ad una concezione del bello senza forma? Sembrerebbe proprio così. Nelle sue molteplici declinazioni, nella diversità di forme e sfumature, l’arte contemporanea, anche se non tutta, concettualizza il bello, non su criteri estetici ma sociali, dove il denaro va a supplire il concetto di bellezza, di arte e di cultura. L’arte, oggi, vive in una strana dimensione etica o se vogliamo definirla diversamente, enigmatica e ha urgenza di bellezza, soprattutto su uno sfondo politico e culturale che sta modificando i suoi confini e le sue identità. Ci troviamo così su un terreno dove l’ambiguità regna sovrana, dove gli stili e le tecniche si fanno infinite, dove la materia sta dentro a una cornice fatta di enigmi e metonimie, dove gli artisti interrogano il fruitore senza pensieri concreti, dove le risposte sono infinite, continue e varie, dove la forma e la materia scompaiono quasi del tutto. Tra ready made e assemblage, l’idea che si potesse fare arte senza un diretto impegno manuale, rinunciando ad evocare la realtà, la forma, il segno, sembra non interessare affatto la cultura estetica di questo secolo, portando gli esperti di settore a una rinuncia quasi completa della conoscenza della storia dell’arte. In buona sostanza: non è necessaria. Ma è l’arte che, irrompendo nella seconda metà dello scorso secolo con temi ambigui e di sconcerto lascia i critici, gli storici, gli appassionati ed i collezionisti interdetti. La “colpa” di tutta questa mancanza è da attribuire agli artisti che son rimasti senza parole o ad un pubblico che voleva volontariamente rimanerne senza? È la sfinge che interroga Edipo o Edipo che interroga la sfinge? In maniera lungimirante, Marx scriveva: “Le opere d’arte, che rappresentano il più alto livello di produzione spirituale, incontreranno il favore della borghesia, solo se verranno presentate come qualcosa in grado di generare direttamente ricchezza materiale”. A incrociarsi in maniera temporale, Friedrich Hölderlin, argomentava la stessa tematica offrendone una differente interpretazione: “La prima figlia della bellezza umana, della bellezza divina è l’Arte. In essa l’uomo divino ringiovanisce e si rinnova. Egli vuole sentire sé stesso e perciò pone di fronte a sé la bellezza. Così l’uomo si diede i suoi dei, ché nel principio l’uomo e i suoi dei erano una sola cosa, poiché, ignota a sé stessa, esisteva la bellezza eterna”.
Cos’è accaduto? Quali cambiamenti culturali ed economici hanno fatto si che si arrivasse a una esposizione della funzione creativa e della fruizione come una continua operazione di declino estetico? Con la coscienza e la consapevolezza che l’oggetto creato non potrà mai essere un reale sostituto di quello passato e perduto, non avendo la percezione di un limite ma solo di libertà sia creativa che culturale. La risposta è complessa e va oltre questa occasione. Una cosa però appare certa: “Se la Biblioteca di Alessandria era l'emblema della nostra ambizione di onniscienza, il Web è l'emblema della nostra ambizione di onnipresenza il colpevole di questi mutamenti è il consumo: una crescita indefinita di oggetti, beni, prodotti, apparenze sociali che hanno trasformato tutto in un dovere obbligato, in un’aspettativa forzata e dovuta, dove la bellezza, in un senso molto ampio, diventa sempre meno un dono e sempre più un prodotto, sempre meno una spinta emozionale e colta e sempre più un progetto da costruire e poi diffondere in una società dei servizi dove s’impone un’intensa personalizzazione dell’apparire, più rapida, veloce, facile in un era in cui si controlla l’apparenza come una prova di bellezza.
Immagine di apertura: Gypsotheca e Museo Antonio Canova, Via Canova, Possagno, Italia. Foto Matteo Maretto su Unsplash.