Ossessione verticale

Dalla vertigine di Babele alla sfida del World Trade Center, un viaggio nell’idea architettonica che ha plasmato miti, arte e il nostro inconscio collettivo.

Nel calendario della città che non dorme mai, il 4 aprile del 1973 è una data fondamentale, un’incisione, un segno indelebile nell’architettura dell’anima newyorkese. Quel giorno il World Trade Center apriva i suoi battenti, rivelando al mondo la vertigine delle sue Torri Gemelle. Minoru Yamasaki, l’architetto che plasmò il sogno in acciaio e vetro, aveva concepito non semplici grattacieli, ma cattedrali del commercio, pinnacoli di una modernità che si credeva invincibile.

Le torri si innalzavano, sfidando la gravità e le convenzioni, divenendo subito simboli di una città che, nel suo eterno moto, pareva poter dominare il mondo. L’11 settembre 2001 mutò la narrazione. Le torri, un tempo icone di potenza, si trasformarono in tragedia. Dall’onnipotenza all’assenza: Ground Zero, il luogo del silenzio, del ricordo, della tragedia.

Il World Trade Center di New York, dalle pagine di Domus 524, luglio 1973

Ma perché la torre? Quale il suo significato antropologico e artistico? L’elevazione della torre, architettura che perfora la volta celeste, si configura come un’ossessione verticale che ha accompagnato l’umanità attraverso i secoli. Sin dagli albori della civiltà, la torre ha assunto il ruolo di sentinella del potere, baluardo inespugnabile che dominava i paesaggi, fortezza avversa all’ignoto e al nemico.

I castelli medievali, con la loro imponenza lapidea manifestavano orgoglio e difesa. La torre di Babele invece racconta il vano tentativo di ascendere al divino. Il campanile, che rimane pur sempre una torre, diviene invece l’eco di preghiere, un ponte immateriale tra la sfera terrena e quella spirituale.

Il World Trade Center di New York, dalle pagine di Domus 524, luglio 1973

Con il Rinascimento, l’uomo volge il proprio sguardo al firmamento con la curiosità dello scienziato, e le torri si trasformano in osservatori, strumenti di conoscenza, come quella di Galileo. Nell’età moderna, il cemento e l’acciaio plasmano i grattacieli che artigliano le nuvole, simboli di potere economico e vertigine urbana.

La torre nei tarocchi Rider-Waite, 1909. Di Pamela Colman Smith. Courtesy Wikimedia Commons

Nel folklore e nella letteratura, la torre si configura come prigione, luogo di isolamento, dove la principessa attende il suo destino, o dove l’alchimista ricerca l’elisir dell’immortalità. Nei tarocchi, rappresenta la distruzione improvvisa, la catarsi necessaria, il fulmine che squarcia il velo dell’illusione. 

La torre dunque è un enigma, verticale, un’eco di ambizioni, timori, speranze. Un monumento all’umanità, alla sua perpetua ricerca di un’elevazione, un’ossessione che continua a innalzarsi, pietra dopo pietra, nel nostro immaginario collettivo. Anche per questo alcune letture, simboliche e psicoanalitiche, hanno parlato di torri come simboli fallici, totem e tabù di una sessualità collettiva, tanto profonda quanto inconsapevole.

Le torri si innalzavano, sfidando la gravità e le convenzioni, divenendo subito simboli di una città che, nel suo eterno moto, pareva poter dominare il mondo.

La grande torre, opera datata 1913, si rivela come un enigma visivo, un monumento alla sospensione del senso e del tempo. In questo lavoro Giorgio de Chirico articola la sua pittura metafisica in un linguaggio che trascende la rappresentazione oggettiva, esplorando le profondità dell’inconscio. La torre, elemento dominante della composizione, non è semplice architettura, ma un simbolo intriso di ambiguità, una cesura nella percezione ordinaria.

Giorgio de Chirico, La Grande Tour (La Grande Torre), 1913, Parigi, Francia. Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf, Germania. Courtesy WikiArt

Ai piedi di questa struttura imponente, due sagome umane si stagliano, presenze silenziose che accentuano il senso di isolamento e immobilità. Esse non sono figure vitali, ma ombre, eco di un’umanità ridotta a pura forma, a sola presenza in un contesto che le trascende.

De Chirico crea uno spazio che sfida le leggi della fisica e le regole prospettiche, un palcoscenico per apparizioni spettrali dove l’umanità viene alienata nel contesto urbano. Cromie piatte e contorni definiti accentuano il senso di artificio, di costruzione mentale. La luce, tagliente e obliqua, non illumina, ma rivela l’inquietudine latente in ogni elemento dell’opera. La grande torre è un’indagine sulle profondità dell’io, un’esplorazione della solitudine esistenziale.

La Tour Eiffel di Georges Seurat trasforma l’idea della torre in un semplice elemento estetico, disarticolando la realtà in una miriade di punti di colore, un pulviscolo cromatico che si ricomponeva in una visione nuova, vibrante, quasi al di là della materia stessa.

La torre qui è simbolo di un’epoca, di una Parigi che si proiettava nel futuro con audacia e innovazione. Seurat la dipinge come un’architettura che si staglia contro il cielo con la stessa immateriale presenza di un sogno. Non è la torre che vediamo, ma l’idea della torre, il suo scheletro essenziale, ridotto a una sequenza di punti che ne definiscono i contorni con una precisione quasi maniacale.

Georges Seurat, La tour Eiffel (La torre Eiffel), c.1889. Fine Arts Museums of San Francisco, San Francisco, Stati Uniti. Courtesy WikiArt

La luce, elemento centrale nella ricerca di Seurat, vibra sulla superficie della torre, smaterializzandola, rendendola quasi eterea. Non c’è solidità, non c’è peso, solo una rete di piccolissimi puntino materici che catturano la luce e la rifrangono in una sinfonia di colori. In questo modo il maestro francese non dipinge la Torre Eiffel, ma la sua essenza, la sua anima, catturando la novità che essa rappresentava. U’opera che diviene analisi, dissezionando la realtà per poi ricomporla in una forma nuova, più vera del vero.

Paul Thek, Untitled (cityscape with twin towers), 1972. Courtesy l'artista e WikiArt

Nell’opera di Paul Thek, Untitled (cityscape with twin towers), si dispiega un paesaggio urbano che trascende la rappresentazione topografica per farsi allegoria di una condizione esistenziale. Le torri gemelle, simboli di una potenza architettonica e finanziaria, emergono da una nebulosa di materiali di scarto, frammenti di un’umanità decontestualizzata e dispersa.

L’artista newyorkese, con la sua inconfondibile poetica del frammento, compone un’immagine che è al contempo rovina e visione. La città si fa palcoscenico di un teatro dell’assurdo, dove tutto appare sbiadito, in bilico tra grandezza e decadenza. Qui la città non è un luogo di armonia e progresso, ma uno spazio di conflitto e smarrimento, dove l’individuo si trova a confrontarsi con la propria fragilità e solitudine.

Immagine di apertura: Pieter Bruegel il Vecchio, De "Weinig" Toren van Babel (La "Piccola" Torre di Babele), 1563. Museum Boijmans van Beuningen, Rotterdam, Paesi Bassi. Courtesy WikiArt

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