3 mostre da vedere a Copenhagen questa estate

Un museo, una galleria e una kunsthalle ospitano le opere diverse eppure affini di tre artisti internazionali: Ragnar Kjartansson, Roman Signer e David Shrigley.

di Matteo Pirola

Questa estate nei dintorni di Copenhagen, in 3 luoghi indipendenti, un museo, una kunsthalle e una galleria, 3 artisti internazionali mostrano le loro opere diverse e “divergenti” che pur convergono in una modalità simile, sottesa all’ironia, al sorriso, al sarcasmo, talvolta al disorientamento, sicuramente alla provocazione e all’intelligenza delle riflessioni dietro le loro opere di arte contemporanea.

Un islandese, uno svizzero e un inglese (e visto il tema potrebbe sembrare l’incipit di una barzelletta) rappresentano un certo linguaggio artistico tra più generazioni: un grande storico maestro come Roman Signer e due più giovani ma già affermatissimi e brillantissimi artisti, Ragnar Kjartansson e David Shrigley, sono stelle molto luminose, esplosive, che guidano l’arte tra i temi dell’assurdo, del paradosso, del non senso come ricerca di nuovo senso.

Con prospettive molto peculiari questi artisti insegnano che si può vedere il mondo anche capovolto, che in fondo non è differente da ciò che fanno i filosofi, che sanno “immaginare” una cosa anche dal controcampo mentre la osservano in primo piano. L’Islanda, la Svizzera e l’Inghilterra sono a loro modo 3 “isole” e questi artisti, tutti figli di un cielo nordico, sanno mescolare un umore grigio e apparentemente spento, (come la cenere che copre la brace) con delle azioni che invece spesso rianimano caratteri molto colorati e carichi di energia.

Visto il luogo dove ci si ritrova – spesso indicato come paradisiaco – giocando un po’ con le parole e con una espressione quasi amletica, potremmo parlare di “Damnark”, per provare a rivalutare anche la “dannazione”, ovvero ribadire il ribaltare dei punti di vista, dove la beatitudine (per non dire una certa idea di bellezza) è solo uno stereotipo per una società contemporanea che comunque continua a vivere e a passare, trapassare, oltrepassare, stati di crisi.


Ragnar Kjartansson, Louisiana Museum

9 giugno – 22 ottobre

In uno dei musei più belli del mondo, a circa 40 minuti a Nord della capitale danese, si trova quella che è stata indicata come la mostra dell’anno. Qui Ragnar Kjartansson fa immergere gradualmente il visitatore in un mondo molto complesso, fatto di critica e nostalgia, amore e malinconia, identità e spaesamento, mascolinità e femminismo, potere e inerzia, esistenzialismo e politica, serietà e sorriso, disperazione e speranza.

Mescolando tanti linguaggi e generi – pittura, scultura, installazione, video, musica, teatro, performance – e usando molti riferimenti e rimandi alla storia e alla cultura contemporanea, l’artista lavora dichiaratamente con i sentimenti (tra questi fan da rompighiaccio l’umore e l’umorismo) mentre le sue opere incorporano – e rendono corporei – le emotività delle persone che si danno il tempo di capire qualcosa di sé o degli altri.

Il tutto sul filo sottile dell’ambiguità, tra tragedia e commedia, vista la sua volontà di fare ridere e piangere per trovare un senso anche nelle tragedie, per “provare ad avvicinarsi al vuoto” e fare arte come terapia, dove la ripetitività è metodo, come un mantra curativo, svolto per ore e offerto al visitatore nella sua integrità, finché si guarisce anche dalla tristezza di non avere idee. L’ingresso, nel piccolo cortile di accesso al museo, ospita una grande scultura, un classico basamento alto 6 metri realizzato come un elemento scenografico teatrale, volutamente imperfetto, che porta l’inscrizione titolo della mostra: “Epic waste of love and undestanding”.

Questa frase è stata raccolta da Kjartasson in una discussione con sua moglie e rappresenta benissimo l’attitudine dell’artista che sa mettere in scena brani di vita privata rendendoli porte di accesso a sentimenti comuni anche in riferimento a grandi conflitti personali o sociali, storici o attuali. Sulla cima di questo monolite, c’è una piccola fiammella, quasi invisibile, e può capitare di vedere aggirarsi intorno una persona che canta una struggente melodia.

Guilt and Fear, 2022 Porcelain salt and pepper shakers Dimensions variable Courtesy of the artist, Luhring Augustine, New York, and i8 Gallery, Reykjavik (c) Ragnar Kjartansson Photo: Louisiana - Poul Buchard / Brøndum & Co.

La seconda opera, la prima all’interno nel lungo corridoio di accesso, è una serie di centinaia piccoli basamenti/obelischi che sono saliere e pepiere accoppiate e distinguibili dalle parole GUILT (sale) e FEAR (pepe), esposte su una lunghissima mensola a mezzaria. Senso di paura e sensi di colpa come ingredienti che spesso caratterizzano il “gusto” di una vita sociale contemporanea.

Senza elencare tutte le opere citiamo le più sorprendenti, partendo dal nuovo allestimento di Me and My Mother, serie di video dove la madre dell’artista sputa letteralmente e ripetutamente in faccia al figlio, e lo rifà ogni cinque anni, da almeno venti, sempre nello stesso soggiorno della casa natale.

Ragnar Kjartansson Videostill from ’Me and my mother’, 2015 Louisiana Museum of Modern Art. Acquired with funding from Museumsfonden af 7. december 1966 © Ragnar Kjartansson

Si continua con una impressionante serie di 144 ritratti esposti come in una quadreria troppo affollata d’altri tempi, e dipinti da Kjartansson durante la sua partecipazione come rappresentante del padiglione Islandese alla Biennale di Venezia nel 2009 (The End – Venezia, 2009). Nel pieno della gravissima crisi economica e sociale dell’Islanda (causata da una società rampante, maschilista e capitalista), ha voluto vivere 6 mesi in un palazzo sul Canal Grande con uno spirito irriducibilmente romantico e anticonformista, passando le giornate a girovagare, bere, fumare, leggere, musicare, pur dipingendo quasi ogni giorno un quadro silente dedicato al medesimo soggetto.

Cuore della mostra sono le sue opere videomusicali, in cui si prende il tempo per coinvolgerci anche con lo spazio delle loro installazioni. Qui la ripetizione, in una sorta di positivista “repetita juvant”, diventa spesso ossessiva, con frasi recitate o cantate che diventano ipnotiche e magnetiche.

Ragnar Kjartansson Still image from ’No Tomorrow’, 2022 Commissioned by Sigurður Gísli Pálmason; based on a commission by the Iceland Dance Company Ballet with 8 guitars created for the Iceland Dance Company in collaboration with Margrét Bjarnadóttir & Bryce Dessner © Ragnar Kjartansson

Troviamo Mercy (2004) in cui per 1 ora lui stesso interpreta un cantante anni ‘60 che ripete la frase “Oh why, do I keep hurting you?”, oppure A Lot of Sorrow (2013) in cui ha chiesto alla band americana The National di ripetere per 6 ore la loro canzone Sorrow, fino al capolavoro assoluto, visto, riconosciuto e premiato The Visitors (2012).

Opere nuove sono No Tomorrow (2022), allestita in una stanza esagonale fatta con 6 grandi schermi in cui si visualizza una scena perimetrica con al centro il visitatore. Qui un gruppo di musiciste danzatrici si muove in una coreografia dal genere musical americano cantando frasi prese dalla letteratura erotica del settecento francese e dell’antica Grecia; mentre What have we done to deserve this (2023) è una performance di 11 ore svolta in uno degli angoli più speciali del museo, una piccola sala belvedere intima come un soggiorno domestico, dove c’è uno schermo che riprende lo stesso luogo e ripropone una scena di vita borghese scandinava usando due tipici luoghi comuni noti e ripetuti da questa società, che “ringrazia ogni giorno come un regalo” ma al tempo stesso si chiede “cosa è stato fatto per meritarsi questo?”.

What Have We Done to Deserve This, 2023 Single-channel video Duration: 11:05 hrs. Commissioned by Louisiana Museum of Modern Art, Humlebæk (C) Ragnar Kjartansson Foto: Louisiana - Poul Buchard / Brøndum & Co.

A metà del percorso in un labirinto ipogeo di spazi video, installato sopra una rampa di scale (che sale) nel passaggio tra le sale, si trova l’inaspettata nuova performance dal vivo, Bangemand (titolo in danese che significa Scared Man – Uomo Impaurito), ovvero un uomo belloccio, elegantissimo in smoking con fiore all’occhiello che scorre precario e spaventato – spalle al muro – su un cornicione sottile senza via d’uscita. Qui c’è un diretto rimando a Hollywood e ai suoi cliché, ma anche la rappresentazione di un uomo modello perfetto seppur inerme e inutile, che forse è anche un po’ un autoritratto davanti al mondo dell’arte.

Usciti nel meraviglioso giardino del Louisiana, tra padiglioni affacciati sul mare del Nord, sul tetto del ristorante panoramico, si trova installata una grande scritta rossa e luminosa “Scandinavian Pain”, che ancora una volta trova un bel contrasto creativo, per esempio con il famoso termine Hygge, ovvero un sentimento scandinavo di irreprensibile serenità.


Roman Signer, Malmö Konsthall

3 giugno – 10 settembre

Seppur in Svezia ma a soli 40 minuti da Copenhagen, nella Galleria d’Arte di Malmo, si celebra uno dei maggiori rappresentarti dell’arte concettuale e dell’arte processuale. Roman Signer è stato un pioniere nella definizione di un nuovo linguaggio che vede l’opera in movimento, oltre l’arte cinetica, quale artificio dove il tempo è legato allo spazio, agli oggetti in esso contenuti e ai corpi umani che si relazionano con essi, e non solo all’opera artefatta. Opere in cui qualcosa si muove e dove forse accade il niente, oppure avviene il tutto. 

I suoi lavori sono definiti sculture “temporali” (altro che temporanee) dove il processo scultoreo è reso performativo e installativo, con opere che durano pochi secondi o qualche minuto e che quasi sempre vengono documentate con foto e video che mantengono attiva la memoria.

Per cogliere quel momento in cui qualcosa esplode o fiorisce, e muta di stato, la distruzione – e non solo la costruzione – è vista come atto creativo e progettuale che indaga la fisica e la materia, la gravità, la forma e la funzione che possono essere riconsiderati e reinterpretati ogni volta, in un continuo e ininterrotto processo tra esplorazione, sperimentazione, azione, curiosità, ingenuità, gioco, divertimento.

Oggetti di tutti i giorni (spesso gli stessi oggetti feticcio) come secchi, bidoni, ombrelli, kayak, biciclette, ventilatori, stivali, guanti, scale, tavoli, sedie, casette, etc… insieme a fuoco, aria, acqua, terra, sono gli elementi primari che producono sempre una nuova energia e quindi significato, sempre in bilico tra ordine e disordine, quiete e moto, kaos e kosmos. 
 


In mostra 20 grandi opere installate al meglio nelle sale della Kunsthalle e una sala video con la rara collezione di più di 70 film che documentano i suoi processi sculturali degli ultimi 50 anni. All’esterno, 4 opere installate nel laghetto di un parco cittadino, legate alle condizioni metereologiche e le proprietà fisiche dell’acqua.

Il manifesto della mostra è uno dei capolavori di Signer, Punkt (2006) dove in un minuto si capisce tutto: arte, video, performance, attesa, azione, spavento, incredulità, pittura e sorpresa.


David Shrigley, Shrig Shop

Permanente

Un po’ galleria e un po’ pop shop, quale sperimentale postazione fissa nel mondo temporaneo dell’arte contemporanea, ispirato all’operazione inaugurata da Keith Haring nella metà degli anni ‘80 in cui aprire nuove porte a un nuovo pubblico, è stato aperto nel 2021 nel centro della città l’unico Shrig Shop, fondato da David Shrigley e dal suo gallerista Nicolai Wallner.

David Shrigley è un’artista che usa l’illustrazione e l’immaginazione sempre insieme, giocando con l’umorismo tagliente e l’onestà dissacrante, lavorando principalmente con il disegno e la pittura, ma anche con l’animazione, la stampa, la scultura e l’installazione, e cercando costantemente di ampliare il suo pubblico operando al di fuori della sfera tradizionale delle gallerie d’arte. In questo luogo speciale si trovano edizioni limitate, stampe, oggetti d’arte, abiti e accessori, complementi d’arredo e altre grandi e piccole “cose”, che servono come estensione della sua pratica artistica.

Attraverso il suo stile quasi elementare ma iconico e la sua pratica rigorosa e metodica, Shrigley esplora tutte le banalità possibili della vita quotidiana, osservando le paure e le speranze, le insicurezze e le assurdità, per trovare sempre un messaggio che rappresenta sinteticamente l’unità del tutto universale e naturale e di tutti nella particolare condizione umana.

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