Da giugno 2022 il vento persistente dell’Egeo fa girare a vuoto un immenso sole dorato dall’aspetto ieratico e al contempo giocoso. È la scultura Apollo Wind Spinner (2020-2022) di Jeff Koons che il mecenate e creatore della Deste Foundation Dakis Joannou ha deciso di donare all’isola greca di Hydra al limite del Golfo Saronico, a una trentina di miglia dal Pireo. Nel giro di un anno, l’Apollo di Koons è già diventato un landmark irrinunciabile per viaggiatori e abitanti dell’isola, una presenza incongruente, a tratti accecante, eppure così piacevole alla vista. Si staglia sopra uno dei tetti della Slaughterhouse, un insieme di piccoli edifici che dal 2009 ospita i progetti temporanei della Deste Foundation. Dell’ex macello è rimasto l’aspetto grezzo e dimesso degli ambienti in pietra e cemento che fino al 30 ottobre accolgono la mostra “Dream Machines” curata da Daniel Birnbaum e Massimiliano Gioni.
Questa esposizione a quattro mani che vuole indagare l’impatto della tecnologia sull’immaginazione umana nasce proprio dal monumento rotante di Koons e dall’accostamento con il dipinto di Marcel Duchamp Coffee Mill che Birnbaum cita nel suo saggio per il libro Apollo, edito dalla Deste Foundation.
Il macinino di caffè ritratto da Duchamp nel 1911 anticipa infatti l’irruzione dissacrante nell’arte dei ready made e delle macchine celibi, due parole chiave che i curatori usano per descrivere l’intero meccanismo che governa “questa piccola mostra concepita come una sorta di scultura da viaggio”. Se il ready made suggerisce l’idea della riproduzione e dell’attribuzione di valore estetico trasportando un oggetto comune in un altro contesto, la nozione di macchina celibe rimanda a un’azione ripetitiva e priva di finalità innescata da un congegno inutile. Nonostante questa improduttività ogni macchina celibe è un dispositivo desiderante e immaginativo, una potente metafora erotica e sensuale. Come spiegano i due curatori, “la mostra è un dispositivo impazzito, che gira a vuoto, mettendo in scena un balletto meccanico, reso ancora più assurdo dal fatto di essere presentato in questa isola del Mediterraneo dove non circolano auto, né motorini, ma solo asini”.
La prima opera che il visitatore incontra, Dynamo Secession (1997-2023) di Maurizio Cattelan, è solo apparentemente una macchina inutile. In realtà pedalando su questa bicicletta immobile, ma in grado di generare elettricità, si produce l’energia necessaria per illuminare gli angusti ambienti che contengono più di trenta lavori, tra opere della collezione di Dakis Joannou e nuove commissioni, di artisti come Thomas Bayrle, Lee Bul, Nathalie Djurberg & Hans Berg, Cao Fei, Urs Fischer, Fischli & Weiss, Camille Henrot, Judith Hopf, Henrik Olesen, Philippe Parreno, Seth Price, Pipilotti Rist, Pamela Rosenkranz, Sturtevant, Takis, Andro Wekua e Anicka Yi.
L’ambigua e tortuosa relazione che l’uomo moderno intrattiene con le scoperte tecnologiche, tra diffidenza, terrore, attrazione e immedesimazione, è una delle tematiche che “Dream Machines” tenta di esplorare attraverso presenze disturbanti e riflessioni sul bisogno di conoscenza ed emancipazione. Il quasi impercettibile movimento della mano del silenzioso umanoide di Andro Wekua, Untitled (2014), allestito al centro del principale spazio espositivo, è in netto contrasto con la minacciosa forza sinuosa di un serpente robotico ricoperto da una membrana di luci LED, Healer (Waters) (2019) dell’artista multimediale Pamela Rosenkranz. Su una delle pareti della stanza sono allestiti i venti collage che compongono l’opera A.T. (2012) di Henrik Olesen dedicata al genio della matematica Alan Turing. L’artista danese lo descrive nella sua dimensione leggendaria e drammatica di precursore della teoria della computazione e dell’intelligenza artificiale e di omosessuale condannato per “indecenza grave e perversione sessuale” nella Gran Bretagna degli anni Cinquanta.
La mostra è un dispositivo impazzito, che gira a vuoto, mettendo in scena un balletto meccanico, reso ancora più assurdo dal fatto di essere presentato in questa isola del Mediterraneo dove non circolano auto, né motorini, ma solo asini.
L’artista svizzera Pipilotti Rist crede fermamente che le persone siano sempre più separate da un vetro, lo schermo dei nostri computer, televisioni e smartphone, e che questa nostra condizione “behind the glass” sia superabile solo grazie all’arte che ci spinge fuori dalla nostra solitudine. Il suo video riprodotto su un cellulare posato a terra, Selbstlos im Lavabad (Selfless in the Bath of Lava) (Bastard Version) (1994), è la rappresentazione plastica di questa paradossale situazione. Allo stesso tempo questa scena infernale ci spaventa, aprendo un piccolo varco nella nostra assuefatta e stanca percezione.
Affermare come lo smartphone sia diventato una sorta di appendice del nostro corpo o addirittura una protesi bionica del braccio è una nota fin troppo scontata. Eppure, l’artista tedesca Judith Hopf riesce a creare una visione poetica partendo proprio da questa osservazione. La sua scultura in cemento Phone User 5 (2021–2022), allestita sulla copertura di uno dei cubicoli della Slaughterhouse a picco sul mare, ritrae una solitaria e anonima figura umana che stringe tra le mani un cellulare nell’atto di fotografare l’orizzonte. Un gesto quotidiano e banale diventa improvvisamente straniante per lo spettatore che lo ripete, estraendo il proprio smartphone, in un riflesso quasi automatico.
L’artista coreano Lee Bull ha creato, in collaborazione con Acute Art, il lavoro in augmented reality e NFT Willing To Be Vulnerable – Metalized Balloon Ver. AR22 (2022). Grazie a un dispositivo elettronico si materializza nel cielo di Hydra un aerostato scintillante ispirato al famoso dirigibile Hindenburg che nella Germania degli anni Trenta diventò il simbolo del progresso, fino a quando non fu distrutto in un disastroso incidente. È curioso come il tema del fallimento dell’utopismo modernista sia esplorato da Lee Bull ricorrendo proprio a due tecnologie attuali in rapida espansione. Realtà aumentata e NFT stanno infatti cambiando rapidamente il panorama dell’arte contemporanea da quando il mercato e gli artisti ripongono molte speranze sulle loro potenziali evoluzioni future.
In “Dream Machines” sono molte le zone di confine in cui si confondono concezioni utopiche e idee paranoiche, celebrazioni entusiaste e atteggiamenti critici verso la tecnologia. Agli estremi di questo ampio spettro di posizioni si trovano, da una parte, la riproduzione della mitica Dreamachine (1961) del pittore e scrittore Brion Gysin che considerava la sua invenzione come “il primo oggetto d’arte da vedere a occhi chiusi”, dall’altra, un’illustrazione del 1810 che rappresenta le turbe psichiche dell’inglese James Tilly Matthews, convinto che una banda di criminali lo spiasse con le radiazioni emesse da un enorme telaio ad aria. Improvvisi slanci in avanti e timori quasi primordiali, derisione e denuncia di uno stato di sorveglianza si alternano in mostra in un gioco di rimandi tra passato, presente e futuro. La macchina celibe “Dream Machines” funziona proprio grazie a questa concentrazione di stimoli diversi e spesso contradditori espressi dalle molte opere presentate in pochi metri quadrati in una condizione di forzata e felice convivenza.