Chiamami col tuo nome, ultima opera di Luca Guadagnino, è uno dei film dell’anno. Osannato alla première mondiale al Sundance Film Festival e dalla critica unanime, per qualche tempo è stato indicato come frontrunner per i prossimi premi Oscar. Ora l’inerzia dell’award season sembra spingere altre pellicole, che in più hanno solo maggiore aderenza ai temi caldi del momento, nel dibattito culturale ed è verosimile che – se Oscar sarà – si tratterà di qualche statuetta secondaria. Spero però di sbagliarmi perché Chiamami col tuo nome è un vero miracolo, un film che parla di uno stato di grazia girato in stato di grazia, un’opera senza tempo che resterà classica quando il tempismo di altre pellicole smetterà di essere virtù
Se possiamo individuare con precisione le location nella campagna fuori Crema dove vive il regista, è significativo che il film si apra con la didascalia generica “somewhere in Northern Italy” e che il luogo non sia mai identificato se non per esclusione e prossimità (sono citati centri vicini, come Crema appunto, e la loro distanza). L’assolata e sonnolenta cittadina padana è piuttosto un archetipo, un Eden, il paese di un’Italia dolcissima e ideale fatta di bar tabacchi, piazze, monumenti ai caduti, balere, ville e castelli medievali. Ugualmente il tempo, l’estate 1983 ricostruita con cura filologica certosina attraverso zainetti, T-shirt, walkman Sony e frammenti radio e TV, sfuma in un’estate della vita, in cui i personaggi guardano continuamente l’orologio e chiedono che giorno sia perché le coordinate cartesiane hanno perso consistenza e senso.
I protagonisti sono Oliver (Armie Hammer), laureando americano invitato per una vacanza-studio (più vacanza che studio) nella villa italiana del suo professore di archeologia, Elio (Timothée Chalamet), figlio diciassettenne del professore, e la passione erotica e amorosa che fiorisce tra i due. Chiamami col tuo nome è un film sul desiderio e il suo miracolo risiede nel modo in cui riesce a declinare la fluidità, qualità principe del desiderio, in ogni ambito. Elio legge un frammento di Eraclito sul fluire del fiume come simbolo di ciò che continuamente cambia per restare se stesso e, in modo meno aulico, anche lo sketch d’epoca con Beppe Grillo suggerisce la stessa considerazione. Durante l’estate, Elio e Oliver alternano amorazzi eterosessuali al grande amore omosessuale, ma a fluidificarsi non è solo l’orientamento sessuale se, nel dialogo che dà il titolo al romanzo, i due decidono di scambiarsi il nome fondendo o confondendo addirittura le identità singolari.
Il microcosmo aproblematico, formato dalla ricca famiglia liberal cosmopolita, dai suoi ospiti e dai contadini ancora intatti dalla neoproletarizzazione, è una babele di classi sociali e lingue: si alternano, senza soluzione di continuità, inglese, francese, italiano, tedesco e dialetto. Lo spazio non sembra mai un problema: i personaggi agiscono mossi da impulsi momentanei, inforcano una bici o un’auto e l’impressione è che arrivino in un istante da A a B, come magicamente trasportati tra le inesauribili possibilità di cui è fatta l’adolescenza.
Il punto di partenza è casa Perlman, la Villa Albergoni della quale si è tanto scritto. Il regista la conosceva molto bene: pensò di acquistarla, poi preferì girarci un film. Con la designer Violante Visconti di Modrone si occupò di arredare le stanze rimaste semivuote con dipinti, carte geografiche, mappamondi e libri antichi per farne un luogo “non di ricchezza economica bensì storica” che fosse “vivo, amato”, dall’aspetto gravido di sapere ed eclettismo che evoca il Rinascimento. Benché si tratti di una residenza di campagna padronale del XVII secolo la disposizione degli spazi, quasi un open space ante litteram, fornisce un perfetto correlativo oggettivo alla fluidità, la permeabilità, la libertà che si respirano nel film. Non ci sono porte o, se ci sono, sono praticamente sempre aperte così come le finestre spalancate per rinfrescare dalla calura estiva creano un continuum con il parco uscito dalle serie fotografiche di Luigi Ghirri. Si mangia in giardino sotto gli alberi da frutta, si entra e si esce indifferentemente dalla cucina o dall’ingresso principale. La gerarchia, la separazione, la soglia sono abolite. Come lo spazio esterno dell’Oltrepò con le sue pozze, le sue cascine e le piste tra campi, così gli interni sono psicogeografici. La camera da letto di Elio comunica attraverso il bagno con quella di Oliver e affaccia su un enorme albero secolare: l’impulso naturale, l’erotismo carnale, la comunione e la separazione hanno il loro spazio.
Chiamami col tuo nome racconta l’estate dei 17 anni, quella in cui – come insegna Rimbaud – non si può essere seri, ma si può vivere con più intensità di quanto un’intera esistenza a volte conceda, come dice il padre (Michael Stuhlbarg) nel giustamente celebratissimo monologo finale. A Luca Guadagnino riesce il miracolo di trasformare lo specifico dell’estate 1983 di un piccolo borgo italiano in un’immagine universale di come (e dove) dovrebbe essere la vita, nella sua versione utopica.
- Titolo film:
- Chiamami col tuo nome
- Regia:
- Luca Guadagnino
- Paese di produzione:
- Italia, Francia, Brasile, USA
- Anno:
- 2017
- Casa di produzione:
- Frenesy Film, La Cinéfacture, RT Features, Water's End Productions
- Fotografia:
- Sayombhu Mukdeeprom
- Scenografia:
- Samuel Deshors
- Costumi:
- Giulia Piersanti
- Soggetto:
- André Aciman
- Sceneggiatura:
- James Ivory
- Musiche:
- Sufjan Stevens