Tutto in Megalopolis parla di architettura anche se, in realtà, niente parla di architettura. La storia di un architetto che vuole cambiare la città in cui vive (New York che in questo mondo di fantasia si chiama New Rome) per risollevarla dallo stato di decadenza in cui è stata portata da una classe dirigente corrotta, è in realtà la storia di un artista che vuole creare liberamente e più in generale dell’arte come mezzo per modificare la società.
Che questo sia filtrato attraverso l’architettura è solo un mezzo, Francis Ford Coppola in realtà in questo film parla degli artisti che male si integrano con il sistema economico che regge la loro arte (all’architetto servono i fondi comunali per far partire il suo progetto), e più nello specifico parla di sé, da sempre in rotta con Hollywood e desideroso di unire l’inconciliabile: essere sia totalmente indipendente, sia in grado di fare film che arrivino in tutte le sale come quelli delle major.
Quest’architetto si chiama Catilina e si scontra con un sindaco chiamato Cicerone e il più ricco uomo della città, Crasso. È l’antica Roma trasportata nel presente americano, una lettura allegorica dell’occidente come fosse la Roma decadente. È una delle molte pesanti metafore di un film che ambisce a tantissimo ma conquista poco, pesante e confuso. Un film sull’arte che si fa promotore di una visione molto idealizzata (l’arte può davvero dare forma a una nuova società) e che vorrebbe farlo rompendo tutte le regole della sua di arte, cioè del cinema, senza mai riuscire a confezionare qualcosa di coerente però, nemmeno sull’architettura.
Megalopolis infatti riesce davvero a dire qualcosa sull’architettura solo quando la usa per definire i personaggi. L’audace e rivoluzionario architetto (Adam Driver) che ha inventato un nuovo materiale che non si rovina e non deperisce, con il quale può costruire strutture mai viste prima, ha il suo ufficio in cima al Chrysler Building, in una delle volte art deco, e (giustamente) dentro è tutto arredato in stile art deco. Il sindaco Cicerone invece (Giancarlo Esposito) ha una scrivania e un ufficio più da downtown New York, tutto legno, che invece di spiccare per linee essenziali è pesante. Il primo è l’aspirazione modernista simboleggiata dalla pulizia di linea art deco e dalla sua essenzialità geometrica. Il secondo è l’arretratezza del sistema burocratico che vuole conservare le cose come sono.
Un film sull’arte che si fa promotore di una visione molto idealizzata e che vorrebbe farlo rompendo tutte le regole della sua di arte, cioè del cinema, senza mai riuscire a confezionare qualcosa di coerente però, nemmeno sull’architettura.
Quando Adam Driver esce dalle volte del Chrysler Building e guarda dall’alto tutta la città, quando dalla cima del posto più alto immagina qualcosa di nuovo attraverso la tecnologia (il suo nuovo materiale), sembra davvero la personificazione dell’istinto modernista statunitense per il quale l’istinto artistico è intimamente legato all’avanzamento tecnologico. Inoltre lì per un attimo Megalopolis esprime veramente l’anima più intima dell’architettura, cioè la possibilità di immaginare una diversa organizzazione degli spazi che consenta una diversa organizzazione della vita e dell’ordine sociale. È il resto del film a tradire questa stessa visione. Prima di tutto nella forma. Perché a differenza di altri famosi film sull’architettura come Synecdoche New York o La fonte meravigliosa, il gusto che anima Megalopolis non è a livello di quello che viene detto.
Tutto il design del film, quando non incanala stili e scuole di pensiero note, e invece inventa costumi e trucchi per scimmiottare l’antica Roma, quando prende di petto l’attualità e pettina il suo Crasso (Jon Voight) come Trump, trabocca di cattivo gusto non intenzionale. Le immagini di Megalopolis non sono mai a livello del suo intento e della sua ambizione. E ancora peggio avviene quando, dopo una serie di assurdità di trama, capovolgimenti, persone che a sorpresa rimangono incinte e perdita dei poteri (perché l’architetto può fermare il tempo, non è chiaro come mai) finalmente viene visualizzata la sua idea di città del futuro.
Sostituendo i palazzi di New York con strutture che hanno la stessa forma delle piante (non che riprendono, ma proprio che copiano la flora), senza mai spiegare come questo dia origine a una struttura sociale migliore, immagina l’architettura come magia: qualcosa che dà un risultato senza un processo, ma subitaneamente eseguendo la volontà del suo artefice. Se un film come Furiosa: a Mad Max Saga si spende per mostrare come funzioni il design dei suoi oggetti e come mai nel suo futuro certe cose si costruiscano in una certa maniera, immaginando che questo sia frutto delle esigenze della società che le ha progettate, Megalopolis non spende nemmeno un secondo per spiegare la visione rivoluzionaria del suo architetto. Non c’è nel film nemmeno l’intenzione di mostrare il legame tra spazi (o anche solo, a un livello più basilare, costruzioni) e persone.
Nonostante l’impresa al centro di tutto sia questa di migliorare il mondo, non sappiamo mai perché queste costruzioni e questa visione audace dovrebbero farlo. In uno dei momenti più demenziali, quando questa costruzione è parzialmente realizzata (brillante e luminosa come se fosse fatta di materiale luminoso), una persona ne magnifica la bellezza salendo sopra un fiume di luce che la trasporta come un tapis roulant in mezzo a un parco. È evidente che Coppola immagina qualcosa in linea con quello che già si fa, solo un passo più in là, cioè l’architettura urbanistica che ingloba elementi naturali. È chiaro che vuole parlare di un mondo più sostenibile o in armonia con la natura e immaginare in quel tipo di evoluzione un futuro migliore, ma dal film emerge che l’architettura urbanistica è costruire qualcosa di audace senza che questo sia legato alla vita di chi lo abiterà.
Sarebbe troppo aspettarsi da un cineasta una conoscenza approfondita dell’architettura, non è quello il suo ramo. Quello che però è legittimo chiedere è una rappresentazione fedele del rapporto tra design, spazi e loro fruitori, che è poi è la base di qualsiasi forma d’arte: il rapporto tra l’opera e chi ne fruisce. Coppola nella sua furia creativa e libertaria (Megalopolis l’ha finanziato da sé, senza nessun produttore, vendendo i suoi vigneti e investendo 120 milioni di dollari personalmente) coinvolge anche il suo protagonista architetto e le sue creazioni nella ricerca di creatività libera da tutto, attribuendogli il medesimo istinto avanguardista di un cineasta o un pittore, che in certi casi può anche non pensare a chi sia il suo pubblico. Un architetto però non può dimenticare le dimensioni degli esseri umani, come si muovano, che esigenze abbiano e cosa potranno o non potranno fare negli spazi che progetta e da Megalopolis sembra l’esatto contrario.