Alessandro Michele, al debutto in Gucci durante la Milano Fashion Week nel gennaio 2015, si era rivelato al mondo della moda come un Cristo laico: i capelli lunghi e scuri, così come la barba lunga. Un maglione bianco, a trecce, dal taglio oversized, lo stile con cui avremmo poi imparato a conoscerlo. Le maniche lunghissime tirate sopra il gomito, come le maglie da calcio da adulto indossate dagli enfant prodige. Le mani giunte, un inchino.
Alessandro Michele, il re-designer della moda
In sette anni di Gucci, Alessandro Michele ha ridisegnato il brand, stravolgendo contemporaneamente l’idea stessa che abbiamo di moda: mescolando alto e basso, lusso e controculture, digitale e reale.
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- Lorenzo Ottone
- 30 novembre 2022
Michele un messia lo è stato per la moda dell’ultimo decennio. Non soltanto perché dopo il repentino addio di Frida Giannini, Alessandro, detto da tutti Lallo, portò a compimento il miracolo di disegnare e produrre una collezione matura e autentica nel giro di una manciata di settimane, ma soprattutto perché è stato artefice di uno spartiacque tra un vecchio e un nuovo testamento dell’industria, e non solo per la centenaria maison fiorentina.
Il suo periodo in Gucci è infatti andato oltre il consolidamento finanziario del brand, corrispondendo con l’ascesa di un più ampio fenomeno Gucci, capace di valicare confini e classi sociali. Non è dunque forse una coincidenza che il suo percorso sia culminato con la recente capsule collection in collaborazione con il marchio di culto di streetwear e skateboarding londinese Palace.
Ed è anche grazie a Michele se si è instaurata una nuova prospettiva del rapporto tra fashion e design, con la riscoperta e l’affermazione della fondamentale affinità dell’alta moda con il più ampio e articolato settore della cultura. Ce lo ricordano progetti come il festival Disco Diva, l’album di cover di musiche dai film di Pasolini Canzonette, l’attività dei molteplici Gucci Circolo, ambienti con sale lettura, pop up di libri rari, juke box e sale per ascoltare vinili, nonchè il patrocinio di mostre, come “Fashioning Masculinities” al V&A di Londra.
Ma anche lo slancio verso il futuro della comunicazione, con i filtri Instagram e Gucci Vault, ovvero l’angolo del metaverso brandizzato dalla storica maison fiorentina fortemente voluto da Michele stesso come ponte tra il passato e il futuro della moda. E ancora, il coinvolgimento di uno storico fotografo di The Face come Glen Lutchford o la passione per il cinema culminata nel 2021 con “Overture of something that never happened”, una miniserie in sette episodi co-diretta da Michele con Gus Van Sant.
A Michele dobbiamo anche una volontà di ripensare l’ambiente della sfilata, rendendo il set design un elemento simbiotico alla collezione. Un tema che è poi diventato caro a molte altre maison, specialmente in seguito alla necessità (e libertà) di trovare spazi alternativi per presentare le loro creazioni durante la pandemia Covid-19. Per esempio, la sfilata per la collezione Fall 2018 ha traslato la passione di Michele per il taglia e cuci concettuale in una scenografia asettica e in pvc da sala operatoria, con i modelli che reggevano copie iperrealistiche delle loro teste o riproduzioni di rettili e altri animali fantastici.
Con Michele abbiamo celebrato la nostra entusiasta prigionia nel post-moderno, come ironizzava il direttore creativo stesso con il maglione “Copie Delle Copie Delle Idee” per la collezione Pre-Fall 2018, o con la linea improntata sul claim “FAKE” stampato sulla storica banda rosso-verde della casa di moda. L’aver reso Dapper Dan, lo stilista newyorkese che nell’epoca d’oro dell’Hip Hop si era fatto un nome per il suo plagio di brand pregiati come Louis Vuitton, rientra nella volontà dell’oramai ex direttore artistico di Gucci di sovvertire la semantica del nostro heritage pop, pur riconoscendone con intelligenza l’inevitabile stratificazione e ciclicità, anzi traducendola in icone capaci di trascendere la sola moda.
I suoi riferimenti, che hanno pescato a piene mani dall’esoterismo, dal cinema alto (Kubrick, Dario Argento, Gus Van Sant) e dalle sottoculture (il northern soul, l’Italo Disco e il glam rock su tutte) hanno fatto gioire tutti quegli adepti della cultura alternativa, che finalmente si sono sentiti rappresentanti laddove era tutto un indecifrabile sistema di lusso e codici. D’altronde il Gucci di Michele ci ha entusiasmati così tanto perché ci ha fatto capire che i sogni adolescenziali, fatti di poeti maledetti, rockstar sdentate e edonistici balli sudati, possono sfondare la diga del mainstream partendo dal basso, anzi plasmandolo e finalmente rimpossessandosi della coolness e dell’attualità di cui erano state a lungo private.
Di fianco a un susseguirsi di talent vergini alla moda e dai lineamenti non convenzionali, Gucci ha fatto coincidere con l’haute couture personaggi che mai erano appartenuti ad essa, dall’ex One Direction Harry Styles ai Maneskin, passando per membri di realtà autoctone come il romano Betani Mapunzo o lo staff del ristorante cinese capitolino Hang Zhou Da Sonia. Così facendo Michele si è fatto messia e demiurgo di una vera e propria scena di adepti e di uno stile di vita definito nell’estetica, nelle icone, nel sound, nella filmografia e nelle letture tanto da tratteggiare una nuova post-sottocultura. Un modus operandi che oggi viene studiato nei corsi di moda e che è diventato uno standard riconosciuto per l’intera industria.
Chi avrebbe mai potuto immaginare Francesco Bianconi dei Baustelle sfilare come un dandy decadente e allampanato per Gucci? O il coinvolgimento, anche grazie al lavoro di Michela Tafuri, di gruppi di completi outcast come gli statunitensi Surfbort, Curtis Harding e Black Lips nelle campagne del brand? D’altronde lo suggeriva proprio l’uso, nella sua sfilata di debutto, delle musiche dei Blonde Redhead, una band noise di culto a cavallo tra anni Novanta e 2000.
Alessandro Michele stesso, assieme al CEO Marco Bizzarri, non aveva mai fatto mistero di voler aprire Gucci ad un ambizioso dualismo. Da un lato le tute, le sneaker e gli accessori, oltre alle semplici t-shirt con impresso un gigantesco logo del brand, che hanno contribuito alla crescita esponenziale della desiderabilità del marchio a livello popolare; e dall’altra raffinati abiti dai tagli ’70, endorser pescati dalla nicchia punk di Los Angeles ed elaborati substrati semantici nei comunicati stampa per aprire all’alta moda una nicchia altrettanto lontana da essa.
A tutto ciò si aggiunga poi la smania del mercato di oggi per il metaverso, i Tik Tok, o il patrocinio di eventi culturali. E con esso il difficile equilibrio tra la volontà di celebrare un heritage e di rispondere alla fame bulimica di una clientela internazionale per cui quel “Gyuccheee”, tra il trascinato e lo sboccato, rappresenta oggi un’agognata reverenza e desiderio di Made in Italy, di lusso e immaginari stratificati.
Le dimissioni suggeriscono la fine di un ciclo, che sarà molto più chiaro da comprendere a posteriori. La visione di Lallo in Gucci sembrava essere arrivata a fine corsa, terminata in un inevitabile cul-de-sac semantico, quasi parodico dello stesso nella sua vocazione per la reiterazione di un immaginario androgino e efebico a cavallo tra ’70 e ’80. Gucci Garden, il museo fiorentino dedicato al suo lavoro nel brand con l’attiguo Gucci Osteria da Massimo Bottura ne rimane a testimonianza, allo stesso tempo climax e culmine della celebrazione di una visione e di una estetica totalizzante.
Mentre si attende il prossimo passo di Michele, si solleva un altro quesito. Quanto può ancora durare per i grandi brand di moda l’idea di un direttore creativo, unico condottiero al comando, unica visione in un mercato troppo complesso, diversificato e articolato.
Immagine in apertura: Gucci Exquisite, Space Odissey, 2001, Photographers & Directors: Mert & Marcus. Courtesy Gucci