Questo articolo è apparso originariamente su Domus 1062, novembre 2021.
A casa di Luigi Serafini, un mondo fantastico
Nei pressi del Pantheon, la casa-studio dell’autore del celebre Codex Seraphinianus è un’esplosione di colori. Il rosso e il bianco la fanno da padroni nelle stanze dell’architetto, designer, scenografo e pittore che da sempre sfugge a ogni etichetta.
Foto Simon d’Exéa
Foto Simon d’Exéa
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Foto Simon d’Exéa
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- Carlos D'Ercole
- 08 novembre 2021
- Roma
"Sono sotto assedio. I Cavalieri di Malta mi vogliono cacciare”. Luigi Serafini, scherzoso, mi accoglie all’entrata del palazzo nei pressi del Pantheon in cui vive dal 1987. C’è un cantiere che rende difficile l’accesso allo scalone quattrocentesco. “I lavori non sono mai veramente iniziati. È solo un modo di persuadere noi inquilini che è tempo di sloggiare, ma mi batterò con i Beni Culturali per far apporre alla mia casa-studio il vincolo d’artista”. Varco la soglia ed è un’esplosione di colori. Il rosso e il bianco la fanno da padroni. “Sono i colori della segnaletica stradale, li associo alla mia infanzia, anni di viaggi in autostrada con i miei genitori”. Prima di entrare in cucina noto un quadro di Andrea Mantegna. “È una riproduzione che feci a 16 anni. Quel quadretto con fiori e piante lo feci invece a Pedaso a 11 anni. È tutto merito di mia nonna che, clandestinamente, mi regalava i colori. Mio padre ingegnere era terrorizzato dalla possibilità di una mia deriva artistica”. Mi indica un polittico di Serafino dei Serafini. “Sono sempre in contatto con il passato, con i nostri avi. Mi piacciono le tracce della nostra storia”
Mostruosa ed enciclopedica è la conoscenza che ha della storia Luigi Serafini, in grado di spaziare da Traiano e Diocleziano a Sisto V, dalla Milano della dominazione spagnola alle influenze slave nella cultura adriatica. Lo accompagna un bagaglio di vita vissuta come pochi. Cresciuto a Roma, ma globetrotter. “Nel 1971, ancora laureando in architettura, viaggiai senza un dollaro negli Stati Uniti per quattro mesi. Due giorni in un posto, poi un altro. Erano anni in cui aleggiava uno spirito di ricerca, di condivisione, che ha poi dato origine al mio Codex. Calcola che ero totalmente a digiuno di Ginsberg e Kerouac. Ci si spostava continuamente, pur di comunicare. Era l’alba di Internet, Arpanet. Più bit che beat ”.
Tra i tanti personaggi incontrati emerge la figura di Paolo Soleri. “Era rugoso, come una tartaruga. Si sedeva al centro della tavola come un guru in mezzo ai suoi adepti. Mi colpirono i suoi continui riferimenti a un gesuita, Teilhard de Chardin”. Ci sediamo in cucina su sedie che suscitano istintiva curiosità. “Sono prototipi della Suspiral che disegnai nel 1982, nella mia fase post-Memphis I. Piacevano moltissimo a Philippe Starck”. Sfogliando la nuova edizione del Codex in uscita a ottobre, Serafini si intrattiene sui tanti aficionado e amici che quel libro gli ha portato in dote: Italo Calvino (‘taciturno’), Federico Fellini (“un incantatore”), Giorgio Manganelli (“ah, quel suo borbottio metafisico”), Fabrizio Clerici (“vagava nel regno delle ombre, né vivo né morto”), Leonardo Sciascia (“un entomologo, con quei suoi occhi da indagatore”). L’entomologia è un’evidente passione di Serafini che dissemina sulle porte di casa disegni di enormi coleotteri.
“Attenzione a non confonderli con i bacarozzi che ci sono a Roma, ma che hanno avuto nel Dopoguerra un ruolo fondamentale: hanno, ahimè, liberato il centro storico, favorendo migrazioni della popolazione verso altri quartieri. I turisti hanno poi rovesciato questo ordine dcose, ma la pandemia ha spazzato via pure loro. Finalmente posso godermi lo spettacolo delle fontane del Bernini a Piazza Navona nel più totale silenzio”. Serafini s’infervora sul tema. “Come era bella quella Roma alla John Ruskin, che ebbi il privilegio di conoscere, con le rovine lasciate rovine, con il loro fascino, le loro ragioni, i loro gatti. Senza gli interventi, gli accanimenti degli archeologi che definisco anatomo- patologi sadici, senza una guida poetica che li guidi. Guarda il Foro Romano: sembra un perenne cantiere in costruzione, con i turisti che ci vagano, come muratori senza capimastri”.
Non c’è mai animosità, vis polemica, nelle riflessioni di Serafini, che ha il dono della battuta e della leggerezza. “Questo è il Codex nella versione deluxe cinese. È il falso in circolazione che lo stesso editore mi ha regalato. Quando fu presentato a Pechino, ringraziai i presenti dicendo che ero onorato della falsificazione. Vidi due funzionari del Partito, evidentemente infiltrati, impallidire”.
Uscendo dalla cucina, m’imbatto in un quadretto di Serafini che raffigura un simil-detective con occhiali scuri e un cane lupo che esce dal suo impermeabile. “Un mio omaggio a Roland Topor che, con Arrabal e Jodorowski, costituiva un terzetto ineguagliabile, il collettivo Panique. Confesso anche di essermi nutrito a pan y Luis Buñuel, di cui avrò visto centinaia di volte La via lattea. E che si definiva ateo por gracia de Dios ”. Tornando verso l’ingresso, mi colpisce un uomo- gomitolo senza testa e le Nike ai piedi.
“Si chiama Sul filo di lana, una mia opera del 2003 in occasione di una mostra organizzata da Philippe Daverio a Biella”. Accanto, un enorme cerchio che ruota azionato da un comando. “È l’Ora Oceanica , un riferimento ad Alphaville di Godard. Altro film cult , con strepitose citazioni di Borges e Pascal”. Attraverso la biblioteca, sfoglio un Codice di Hammurabi in cuneiforme con versione in latino degli anni Cinquanta curata dal Pontificio Istituto Biblico, riconoscendo l’ossessione di Serafini per gli alfabeti, i segni, i numeri.
Prima di approdare nello studio, in alto osservo uno scheletro evocativo di Gino De Dominicis. “Gino è stato un artista vero. Non ci sono ombre. Un puro folle. Nato da uovo cosmico”. A lui è dedicato un quadro di Serafini, ¡Que Viva Gino!, con De Dominicis che riposa sul letto di morte, vestito di bianco, sormontato da un fallo rosso, in compagnia della mozzarella in carrozza, delle scatolette Simmenthal, di una corona d’artista. Serafini è architetto, designer, scenografo, pittore, ma da sempre sfugge a ogni etichetta. Rétif a la capture, dicono quelli di Les Inrockuptibles. “No, semplicemente artiste confidentiel”, aggiunge sorridendo.
- Luigi Serafini nella sua casa-studio di Roma. Foto Simon d’Exéa