Ray Eames diceva che le cose che funzionano sono meglio di quelle belle perché le cose che funzionano rimangono.
E sembra che, seppure in un diverso contesto culturale, sia in questa convinzione che abbia trovato radici il Brutalismo, corrente architettonica diffusasi in Europa e poi in tutto il mondo a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, in un’epoca di disorientamento e transizione in cui l’umanità ferita dalla guerra si rialzava per rifondare la cultura del costruire: non più le linee pure del Movimento Moderno ma un approccio che privilegia l’etica all’estetica, che abbraccia la spontaneità e la rudezza intenzionale come manifesto di un funzionalismo schietto e antiretorico.
Un’architettura estranea ad ogni intellettualismo, che parla alle masse dei cui bisogni si fa interprete, soprattutto nella concezione di architetture civiche e per la comunità. Comune denominatore compositivo è il beton brut: il cemento armato a vista che a partire della prima Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsiglia si pone come cifra espressiva del movimento, ad ogni latitudine.
Nonostante i presupposti, dopo le glorie iniziali il brutalismo è stato tacciato ad emblema delle disfunzioni della città moderna anche per via del degrado materiale che ne ha spesso impedito la durevolezza, con buona pace di Eames. Tuttavia il bisogno di un’architettura pregna di responsabilità sociale, concreta, estranea ai riflettori delle mode e laconicamente autentica è un lascito dell’”architettura grigia” - se non a livello formale sicuramente concettuale - con cui confrontarsi, soprattutto oggi. Il brutalismo è morto, viva il brutalismo.