Nonostante la recente pandemia abbia scoraggiato la prossimità tra gli individui – elemento alla base del “riparo” tipico dell’alta montagna, dove gli ambienti sono ristretti e condivisi per ottimizzare spazio, calore e materiali – la montagna conserverà i connotati di spazio aperto per eccellenza: un luogo dove il distanziamento fisico e l’isolamento sono facilmente perseguibili, e dove allo stesso tempo resterà possibile trovare un contatto ravvicinato con un ambiente naturale preponderante.
Immersi in tale contesto, i bivacchi incarnano la quintessenza della sfida all’abitare minimo in condizioni estreme ed è proprio nell’essenzialità dei requisiti funzionali e di performance che risiede lo straordinario interesse di tali manufatti. Declinati in una moltitudine di forme astratte, questi sono totalmente emancipati da qualsiasi tentativo di mimesi con l’ambiente o di imitazione pittoresca delle costruzioni tradizionali delle quote più basse.
Molte recenti realizzazioni su tutte le Alpi sono caratterizzate da una forte ricerca sperimentale in soluzioni tecnico-costruttive e formali innovative. Nella maggior parte delle strutture attuali va affermandosi però la tendenza a un approccio progettuale più “low tech”, con tecnologie già consolidate e spesso più economiche.
L’alta quota si conferma dunque come “laboratorio” d’avanguardia per architettura e costruzione, in grado di intercettare e interpretare i mutamenti del contesto ambientale e culturale, affrontando numerosi temi dell’attualità come il rapporto con il paesaggio, la ricerca di soluzioni tecniche e materiali, l’approvvigionamento e la gestione dell’energia, la reversibilità, la sostenibilità economica e sociale degli interventi.