Immagini e parole si inseguono e si legano mentre Dorothea Lange descrive le sue fotografie ai visitatori che attraversano le sale di Palazzo della Penna, nel centro storico di Perugia. Le didascalie degli oltre 130 scatti riportano infatti fedelmente alcuni passaggi dei taccuini della reporter, scomparsa nell’ottobre del 1965, andando spesso ben oltre la mera descrizione della scena:
La giovane madre, venticinque anni, dice: 'L’anno prossimo avremo la nostra foto di famiglia, un prato e dei fiori'. Villaggio rurale di baracche, vicino a Klamath Falls. Oregon, 1939.
Sono episodi di vita veri e brutali che si tolgono il velo del mistero per raccontare l’ordinaria tragedia abbattutasi sugli Stati Uniti a seguito del crollo della Borsa di Wall Street, in una mostra curata da Monica Poggi e Walter Guadagnini e prodotta da Cemera – Centro per la Fotografia di Torino.
All'inizio degli anni Trenta, la storia, l'attualità e la politica spingono Lange ad abbandonare l’attività di ritrattista e mettersi in viaggio verso la comprensione autentica di ciò che muoveva le persone in quegli anni sciagurati, attraverso un occhio obiettivo ma mai impersonale.
Unica donna insieme a Marion Post Wolcott, viene chiamata dalla Farm Security Administration, programma governativo nato con l’obiettivo di promuovere le politiche del New Deal a sostegno del Paese. È così inviata a documentare le disastrose condizioni di vita dei contadini costretti a migrare a causa della feroce siccità che colpì le zone dell’America centrale tra il 1931 e il 1939.
Le Dust Bowl, le violente piogge di sabbia che distrussero i raccolti, fanno da sfondo alle vite spezzate di uomini, donne e bambini, “in fuga dalla povertà diretti verso un’altra povertà” (W. Guadagnini).
Nonni e nipoti affacciati alle piccole finestre di instabili baracche, giovanissime madri con neonati al petto, bambini dallo sguardo duro, ammalati e senza forze.
Delle donne, i soggetti più frequenti all’interno di questo primo ciclo, Lange annota spesso l'età, a testimonianza di una maternità talvolta acerba, aggressiva, innaturale.
Florence Owens Thompson, il volto del suo scatto più celebre, The Migrant Mother, ha trentadue anni e sette figli: “Se ne stava seduta in quella tenda a casetta, con i suoi figli accalcati intorno a lei, e sembrava sapere che le mie foto avrebbero potuto aiutarla, e così lei ha aiutato me” (Dorothea Lange, Popular Photography febbraio 1960). Ne realizza una serie di cinque scatti, un dialogo muto e quasi sacro con una moderna Madonna con Bambino e con un volto che trasuda disperazione.
Nel 1942, Lange viene nuovamente chiamata dal governo con un nuovo incarico: documentare la deportazione dei cittadini americani di origine giapponese, tutti considerati potenziali spie a seguito del bombardamento di Pearl Harbor. Migliaia di persone si vedono costrette ad abbandonare case e attività per raggiungere campi di detenzione allestiti in zone semidesertiche. Lange esprime pubblicamente il proprio dissenso nei confronti dell’operazione, vedendosi così negata la possibilità di conservare i negativi delle sue immagini. Accetta l’incarico perché convinta che il suo lavoro potrà un giorno far conoscere le brutalità e le violenze perpetrate dal governo americano. Questo avverrà, con grande ritardo, solo nel 2006 con la pubblicazione del libro Impounded: Dorothea Lange and the Censored Images of Japanese American Internment di Linda Gordon e Gary Y. Okihiro.
Dalla chiusura forzata delle attività commerciali alle lunghe file in attesa di registrazione, dagli imbarchi su bus e treni alla vita nei campi. Lange segue l’esodo di circa 110mila persone attestandone la dignità, la serenità di essere dalla parte giusta della storia.
Il suo inestimabile lavoro viene celebrato nel 1966 con una mostra al MoMA, prima retrospettiva che il museo dedica a una fotografa donna. Dorothea Lange muore pochi mesi prima a causa di un tumore all’esofago, dedicandosi fino alla fine alla scelta delle immagini da esporre. Ultima prova della sua totale e testarda dedizione.