Dobbiamo a Nendo, lo studio fondato nel 2002 da Oki Sato, una certa dose fondamentale del paesaggio visuale del design degli ultimi anni. Rappresenta l’espressione ampia del minimalismo giapponese e incarna un’armonia tra estetica e metodologia, progetto e meditazione. Tale è l’armonia tra studio e fondatore, che non è insolito sentire qualcuno salutare Sato con “Hey Nendo!”, che sarebbe poi la parola giapponese per la plastilina.
Nendo alla Milano Design Week 2024. Oki Sato: “Sono design-dipendente”
Abbiamo parlato col fondatore dello studio giapponese Nendo, al suo ventesimo anno da star della Milano Design Week, dell’emergere nel design contemporaneo e del continuare, si spera, a generare oggetti partendo dalle parole.
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- Giovanni Comoglio
- 15 aprile 2024
Non ho un vero e proprio talento; il mio unico talento è che sono design-dipendente. Amo il design. Non si tratta solo di piacere, o di pensare che il design sia cool. Non basta.
Oki Sato
Oltre 20 anni di progetti, e nel 2024 vent’anni netti come nome di riferimento in un’altra grossa liturgia, la Milano Design Week, tra prodotti, allestimenti e installazioni; liturgia che lo celebra con una mostra, nello spazio di Paola Lenti (Via Bovio 28 dove, a parte, è esposta anche la sua collaborazione con l’azienda sugli arredi Hana-arashi), dedicata: ci sono piccoli bacili di metallo nati dall’immagine di una pioggia passeggera, una composizione di mensole che viene invece dal sovrapporsi delle nuvole; anche il progetto scientifico di dove collocare i cristalli di vetro nella graniglia che già Shiro Kuramata aveva usato negli arredi per Memphis, e la tintura a immersione dei filati per creare pattern che sono matrici ricorsive. Vent’anni di progetti nati da narrazioni? Prima la parola, poi l’oggetto? “In parte”, ci ha detto Sato.
“È sempre un fatto di narrazione. Da diversi piccoli schizzi e parole che mi vengono in mente, diventa una specie di trama, e poi cerco di inserire materiali, nuovi metodi, nuovi processi. Alla fine diventa un pezzo”.
Come abbiamo imparato a capire, si tratta principalmente di congelare e cristallizzare momenti – che siano fenomeni naturali o principi razionali – e raccogliere idee dalla vita quotidiana. “Parto da immagini molto piccole, piccole idee, piccoli fatti. È come respirare”. Ma è altrettanto importante partire da dati tangibili, come il materiale che Paola Lenti ha fornito a Sato per la loro ultima collezione, ed elaborare, attraverso una sperimentazione incessante come fa un abile cuoco, ciò che potremmo chiamare “storie materiali”: “La rete proposta era fatta di polipropilene. Era un peccato perdesse la sua texture morbida quando riscaldata; non era più tattile. Così, ho portato alcuni materiali a Tokyo e li ho messi nel microonde, li ho bolliti e termo-stampati. Alla fine, abbiamo notato che stirando, applicando calore e pressione, potevamo creare un materiale semi-tessuto, semi-plastico: una svolta”.
È un approccio lineare, quasi meditativo, spesso considerato nel discorso sul design come un tratto distintivo del minimalismo. Ma quando c’è pratica oltre i cliché, allora entriamo in gioco per sfidare le figure più importanti del design minimalista contemporaneo, interrogandole sulla loro pratica in relazione al contesto contemporaneo in continua evoluzione. Sono passati 5 anni da quando abbiamo incontrato Sato l’ultima volta, durante un altro Fuorisalone: sta ancora percorrendo la stessa strada? In realtà, dice Sato, mentre potrebbe sembrare che persistano modelli abituali, lo stop causato dalla pandemia lo ha spinto, come molti di noi, a mettere in pausa il ritmo incessante di produzione e a concentrarsi sui progetti, concedendosi il tempo per sedersi e riflettere. “Quando mi è venuta l’idea per questa mostra, ad essere sincero, mi sono reso conto che stavo facendo sempre la stessa cosa. Ora inizio a sentire che questo potrebbe essere il momento di cambiare. Abbiamo bisogno di sperimentare. Dobbiamo cambiare il modo di pensare e fare più esperimenti”. Sono in arrivo cambiamenti radicali? “Penso sia una scommessa. Ci vorranno altri quattro o cinque anni, ma la mia prossima idea è un design diverso. Non si tratta di diventare il prossimo Fabio Novembre; non funziona così. A 45 anni, non sono giovane, ma non sono nemmeno troppo vecchio. È un buon momento per esplorare dentro di me, per riflettere su cosa sia il mio design e cosa rappresenti Nendo”.
È sempre un fatto di narrazione. Da diversi piccoli schizzi e parole che mi vengono in mente, diventa una specie di trama, e poi cerco di inserire materiali, nuovi metodi, nuovi processi.
Oki Sato
Nendo sta ancora interrogando la sua essenza? Pare di sì. Eppure, una pratica consolidata che riflette sulla sua evoluzione e immagina un nuovo percorso dovrebbe senza dubbio servire da riferimento per coloro che navigano e cercano di emergere nel mondo del design oggi. Il punto è, dice Sato, “Non ho un vero e proprio talento; il mio unico talento è che sono design-dipendente. Amo il design. Non si tratta solo di piacere, o di pensare che il design sia cool. Non basta. E se i giovani designer la pensano così, beh, credo dovrebbero cambiare mestiere. È quell’energia che ti fa andare avanti. Essere bravi o meno è solo un dettaglio; penso sia più un fatto di passione per il design”. Una dichiarazione audace e sincera in contrasto con i cliché del minimalismo. “Sì, è strano: sono un designer giapponese, molto minimalista... ma l’anima è molto importante. E sento che i giovani designer hanno bisogno di più energia, devono essere più affamati, fare più errori e continuare a correre attraverso quel tipo di energia”. Non bisogna resistere alla dipendenza, quindi. “Sì, il design non ti deve piacere, lo devi amare. Devi essere disposto a dedicarti interamente al design. È costì che la vedo”.
Oltre lo sguardo
Showroom Paola Lenti, via Bovio 28
15-21 aprile
Immagine di apertura: Oki Sato, fondatore di Nendo.