Munari fu davvero poli-tecnico, come si legge nella mostra attualmente in corso al Museo del Novecento: designer, scrittore, teorico, scultore, quasi-ingegnere, disegnatore, certamente visionario.
Munari politecnico
La mostra curata da Marco Sammicheli al Museo del Novecento sottolinea la matrice artistica originaria di Bruno Munari, testimoniando il suo ruolo di riferimento per più generazioni di artisti.
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- Maria Cristina Didero
- 15 maggio 2014
- Milano
Nell’incipit del suo libro Arte Come Mestiere “è un artista colui che, elaborando le proprie impressioni soggettive, sa scoprirvi un significato oggettivo generale ed esprimerle in una forma convincente”. Quindi sì, Munari fu assolutamente un artista, un uomo che chi ha avuto la fortuna di conoscere personalmente non sa dimenticare e dal quale, chi lo ha solo studiato, non può prescindere.
Bruno Munari è stato capace di sintetizzare le pratiche industriali e artigianali del ‘900, associare in modo unico e irripetibile parole e oggetto, concretezza e astrazione, solidità e ironia – era in realtà un maestro dell’autoironia; ha saputo raccogliere e voluto raccontare il fermento e le potenzialità del dopoguerra italiano elaborando un pensiero originale. Per aggiungere una tessera al grande puzzle dell’esperienza munariana (mai neologismo fu più indicato, giacché il suo pensiero ha insegnato a generazioni di progettisti) è da non perdere la mostra curata da Marco Sammicheli in collaborazione con Giovanni Rubino.
Negli spazi che affacciano su piazza Diaz, la messa in scena di questa intelligenza nostrana ha un taglio inedito e inaspettato: troviamo un Munari da ri-scoprire. Non serve qui raccontare del giovane nato a Milano nel 1907, trasferitosi in Polesine per poi rientrare all’età di vent’anni nella sua città e condividere dai tavolini dei caffè di Brera sogni concreti con la creatività meneghina, e del suo personale approccio al progetto, alla didattica, alla vita stessa e alla trasmissione del conoscere – fu un talento non solo nell’elaborazione d’intuizioni ma nel modo in cui riusciva a condividere il suo peculiare entusiasmo per le cose tutte: spinto da una curiosità spasmodica, sapeva coinvolgere in maniera epidemica chiunque lo incontrasse. Precursore dei nostri tempi, Munari invitava – e invita tutt’ora – a non smettere di cercare: invitava a scoprire, riflettere e a fare.
Suggeriva di guardare le cose con occhi diversi. Il design predicato dalla più lucida critica contemporanea, totalizzante perché investe tutti gli elementi della nostra quotidianità, era già stato in verità già teorizzato nei suoi scritti: “È necessario oggi, in una civiltà che sta diventando di massa, che l’artista scenda dal suo piedistallo e si degni di progettare l’insegna del macellaio (se ce la fa)”. L’Italia di quegli anni sta cambiando e Munari è forse l’unico pensatore capace di mettere in discussione il rapporto tra cultura alta e cultura bassa: quel se ce la fa rivela tutta la sua grandezza professionale (e umana), la sua densità di pensiero, è il suo j’accuse.
Il taglio della mostra dal titolo “Munari politecnico” non è quindi convenzionale: Sammicheli è partito dalla collezione del Fondo Munari della Fondazione Vodoz-Danese (coppia di attenti indagatori del panorama intellettuale del tempo) e da quella del Museo del Novecento – che ha già una sala dedicata a Munari, scelta unica all’interno del panorama italiano. “Mi interessava sottolineare la matrice artistica originaria e generativa di ogni approdo disciplinare di Munari e soprattutto volevo testimoniare il suo ruolo di riferimento per più generazioni di artisti nel corso del Novecento. Da qui ho lavorato per aggiungere lavori provenienti dall’ISISUF (Istituto Internazionale di Studi sul Futurismo), dalla collezione del Museo del Novecento e da altre private”, commenta Sammicheli.
Munari amava ripetere: “La fantasia è una facoltà dello spirito capace di inventare immagini mentali diverse dalla realtà nei particolari o nell’insieme: immagini che possono essere anche irrealizzabili praticamente. La creatività è una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile praticamente”. Ed è in questa direzione che il curatore approccia la sua ricerca scientifica con puntualità e rigore per dare forma alla mostra; “È in questo modo che Munari ha voluto conferire a idee semplici un’adeguata espressione formale”, aggiunge. Ed è nello stesso modo che ha attraversato la pittura, la scultura, la grafica, il design e la pedagogia, fiducioso nella fantasia del pubblico. “Le sue opere rappresentano anche una narrazione, per forme, dei processi creativi dal punto di vista dell'artefice. Nel corso della sua attività, la rete di rapporti intessuta con molti altri artisti italiani e stranieri, (Arturo Bonfanti, Max Bill, Gillo Dorfles, Franco Grignani, Max Huber e il Gruppo T) ha permesso che il suo lavoro s’intrecciasse con l'articolato panorama modernista del secolo scorso”, conclude il Sammicheli.
La mostra “Munari politecnico” prosegue un percorso incominciato nel 1996 con l’esposizione delle opere della collezione Vodoz-Danese nella sede della fondazione, occasione in cui si era iniziato ad analizzare il rapporto dialettico tra Munari e una più giovane generazione di artisti. "Munari politecnico" intende segnare un processo di acquisizione – che tutt’ora è in corso – dimostrando l’adeguatezza del Museo del Novecento ad accogliere permanentemente queste opere e gode di un esemplare allestimento firmato da Paolo Giacomazzi, efficace e leggero nel richiamare l’invito alla sintesi del protagonista celebrato: sarebbe piaciuto anche a lui. “Ritengo che il modo in cui Munari sia entrato nella storia del design sia grazie alla sapiente capacità di utilizzare la civiltà della tecnica per ragioni espressive. Tra il 1950 e il 1970, Munari si concentra sulla macchina e sul “Good Design”.
È una via per sottrarsi alla pratica della pittura. È un modo per captare il quotidiano mondo tecnologico: le nuove forme sono quelle dello Sputnik, delle televisioni e delle automobili. Per convogliarle nell’arte, Munari non solo ha realizzato opere multiple (Strutture Continue) per Bruno Danese ma ha anche immaginato un’archeologia del futuro, ironizzando sulla stessa idea di progresso (Fossili del 2000). Le opere programmate (Colonna a sfere, Tetracono) dialogano con le forme funzionali della tecnologia, tra cui si annoverano i primi cervelli elettronici, ma restano “oggetti” volutamente inutili (Colori Rotanti, Rotori). Se negli “oggetti” vi è l’intervento della macchina (Fontana Zen, Bambù, Xerografie originali, Le forchette), questa è inibita con l’impiego di materiali organici o attraverso un gesto irripetibile dell’autore. In un continuo rimando tra arte e scienza (Curve di Peano, Tensioni), Munari non si limita al semplice dato percettivo (Proiezioni dirette) ma esige la partecipazione critica dello spettatore”. Munari amava parlare alla gente comune più che alla critica specializzata; scopriamo il lato antropologico caratterizzato dal continuo scambio con i personaggi del suo tempo che hanno collaborato e condiviso sogni e passioni con lui. “Era un uomo tra gli uomini. Era desideroso di continui scambi con colleghi, amici, studiosi e più in generale con persone libere e curiose come i bambini. Nella mostra questa dimensione si ritrova nella galleria delle corrispondenze dove vengono descritti alcuni suoi rapporti con diverse generazioni di artisti con cui ha esposto e condiviso analoghe ricerche visuali”.
Dulcis in fundo, vediamo Munari ritratto in maniera impeccabile nella sezione Focus, dove la mostra prosegue con ritratti, in parte inediti, di Ada e Atto Ardessi che lo hanno seguito per quarant’anni documentando la sua vita lavorativa e non.
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Fino al 7 settembre 2014
Munari politecnico
Museo del Novecento
piazza Duomo, Milano