The Hidden Mother

La ricerca di Linda Fregni Nagler presentata alla Biennale di Venezia è composta da 997 fotografie di donne: nascoste dai loro figli raccontano la condizione femminile tra Ottocento e Novecento.


Ci sono voluti più o meno dieci anni per raccoglierle. Sono poi serviti almeno cinque mesi per organizzarle all’Arsenale, dove hanno trovato una forma elegantissima e discreta. Qui, le foto di Linda Fregni Nagler – nata nel 1976, è una delle pochissime artiste italiane che il curatore ha voluto con sé nella mostra di quest’anno, ospitata più volte negli ultimi anni con altri lavori sulle pagine di Domus – sono diventate pubbliche come una sola opera, inserite nella sezione curata da Cindy Sherman all’interno della mostra di Massimiliano Gioni “Il palazzo enciclopedico”. La serie, che s’intitola The Hidden Mother (“La madre nascosta”), è composta da quasi mille immagini (997 per la precisione), racchiuse in una teca di nove metri per un metro e mezzo, che l’artista ha fatto costruire apposta per la mostra. Sono dagherrotipi, ambrotipi, ferrotipi, albumine e istantanee realizzati in un arco di tempo che va dagli anni Quaranta dell’Ottocento agli anni Venti del Novecento. Messe in fila, misurerebbero la bellezza di 57 metri.

Linda Fregni Nagler, The hidden mother, veduta dell'installazione, Biennale di Venezia 2013

Le immagini raffigurano donne, visibili e al tempo stesso nascoste. A un primo colpo d’occhio, queste figure femminili sono celate, soprattutto se si osservano le immagini contenute nella teca una per una. Sono come sottratte al senso della fotografia che pur contribuiscono a creare, cancellate perché un altro soggetto possa apparire (per lo più bambini, messi in posa col loro invisibile aiuto davanti all’obiettivo). Organizzate in gruppi, le immagini rivelano, almeno in parte, il ruolo della donna nella società a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Il merito dell'artista non è stato soltanto quello di raccogliere queste immagini per sé e di articolarle in seguito con occhio d’artista, ma è stato anche quello di aver saputo dare magistralmente forza all’idea che in ogni immagine non potesse esserci frontiera tra ciò che essa rappresenta e ciò che la rende visibile e ne costituisce la possibilità. Linda Fregni Nagler – che peraltro insegna, nella tradizione di alcuni grandi artisti italiani come Giuseppe Penone, e a suo tempo Ghirri e Munari – ha il merito di portarci con serenità e turbamento nel cuore di un immenso problema fotografico.

Linda Fregni Nagler, The hidden mother, particolare dell'installazione, Biennale di Venenzia, 2013

La cosa più complessa, inoltre, per l’artista italiana deve essere stato non solo riuscire a trovare e a scegliere le immagini, ma soprattutto a ritmarle dando loro la forza e l’intensità che avevano quando per lei erano semplici documenti privati. Le fotografie sono infatti state raccolte una a una, scovate ai quattro angoli del mondo, ma osservate e scoperte innanzitutto nell’intimità del suo atelier. Com’è riuscita a restituire la tranquillità del raccogliere e altresì l’emozione del guardare, preservando quella sorpresa straniante che ha per tutti, anche per il profano, l’arte della fotografia?

C’è una dolcezza, e anche paradossalmente un’ironia, in tutto quanto si trova ai bordi di un’immagine, in tutto ciò che non smette di entrarvi in modo minore
Linda Fregni Nagler, The hidden mother, particolare dell'installazione, Biennale di Venezia, 2013

Milieu: mille lieux. “Il centro: mille luoghi”, recitava un aforisma del poeta Edmond Jabès che non si dovrebbe mai smettere di ricordare. Lo si potrebbe utilizzare sia per disegnare quello che accade quando la luce davanti all’obiettivo impressiona l’immagine sia per definire cosa accade in questa teca, forse magica, che corre lungo un’intera parete dello spazio espositivo. Si resta a bocca aperta vedendo il grande lavoro messo pazientemente in opera da Nagler. È difficile infatti descrivere quel che si prova osservando le sequenze convergere in ogni istante verso nuclei certo cangianti nell’occhio di chi osserva, ma così forti da racchiudere e richiamare in eco ogni altra immagine lì in mostra, anche quelle più lontane. C’è una dolcezza, e anche paradossalmente un’ironia, in tutto quanto si trova ai bordi di un’immagine, in tutto ciò che non smette di entrarvi in modo minore. Vero enigma della sezione della Sherman queste madri alla periferia dello sguardo, questi bambini improvvisamente fissati ed espulsi dal tempo come in ogni esperimento fotografico, ossessionano dolcemente il visitatore della mostra di Gioni. Gli portano in dono una sorta di atlante misterioso che fa emergere, alla fine ogni immagine, un genere fotografico vernacolare ancora inesplorato. E dialogano silenziosamente con il tema di fondo di questa cinquantacinquesima edizione della Biennale di Venezia, aprendo la strada verso altri orizzonti.