Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 1046, maggio 2020.
In Homo Sacer, il filosofo italiano Giorgio Agamben parla delle misure repressive messe in atto durante uno stato di eccezione, quando la vita delle persone è ridotta al minimo biologico, come nei campi di concentramento nazisti. Questa limitazione della libertà personale, tuttavia, può persistere anche una volta superata la situazione straordinaria: in passato, il sociologo Alain Touraine ha mostrato come le condizioni del periodo bellico legittimassero la regolamentazione della vita delle persone da parte dello Stato molto tempo dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Le strutture di potere sfruttano le crisi, usandole per convalidare l’intensificazione del controllo.
Questa forma di sfruttamento è resa possibile dal panico. Oggi, nei Paesi ricchi, pochi giovani hanno esperienza della disciplina militare, il cui principio-guida prevedeva che i soldati mantenessero la calma sotto il fuoco nemico: in una zona di guerra, il panico è garanzia di essere uccisi. Ma i media oggi sono ebbri di panico e dipingono gli estremi di malattia e morte come un destino inevitabile. Quando arriva una buona notizia, come la diminuzione dei contagi in Cina, per i media ciò non uguaglia l’eccitazione di paragonare la pandemia alla peste del XIV secolo – il confronto è assurdo, ma solletica. In questo modo, la potenza dei media aiuta lo Stato nel suo progetto di normalizzazione. Non sto minimizzando affatto l’attuale pandemia: sto solo dicendo che dev’essere affrontata senza panico, e che presenta un’‘opportunità’ – se questa è la parola giusta – di essere messa a frutto.
Questa è la prospettiva corretta per le città di oggi: le regole di controllo sopravvivranno alla pandemia. In particolare, le norme che regolano lo spazio pubblico, che dettano la distanza sociale e vietano gli assembramenti persisteranno anche dopo che avremo gli strumenti sanitari per eliminare la malattia. Ce lo dimostra la storia recente: dopo l’11 settembre, le regolamentazioni che limitavano le riunioni pubbliche, il controllo dell’accesso agli edifici e le normative su come costruirne a prova di esplosivo sono rimaste nei codici statutari. Il “distanziamento sociale”, necessario durante l’attuale crisi, minaccia di diventare una norma imposta dal Governo anche dopo che le persone, grazie a un vaccino efficace, non avranno più un valido motivo per temere la vicinanza degli altri.
La concentrazione delle persone è anche un buon principio ecologico quando si affrontano i cambiamenti climatici, risparmiando sulle risorse infrastrutturali
La pandemia c’impone comunque di pensare ai problemi della città che le sopravvivranno. Il primo di questi è l’isolamento sociale, triste parente del distanziamento sociale. La pandemia – in particolare in Europa, e a Londra, da dove scrivo – ha sollevato nella mente delle persone il problema di come gestire il grande numero di anziani che vivono soli: a Londra, sono il 40 per cento, a Parigi il 68 per cento. Stanno già sperimentando il distanziamento sociale, e la solitudine non ha certo un effetto positivo sulla loro salute fisica o mentale. I Governi, a mio avviso, non sono in grado di promulgare leggi che superino la solitudine creata dall’imposizione del distanziamento sociale, che è invece una sfida per la società civile urbana: per affrontarla, avremo bisogno di nuovi concetti di comunità.
La pandemia sfida anche gli urbanisti a ripensare l’architettura della densità. La densità è la logica delle città: la concentrazione di attività in un ambiente urbano stimola l’attività economica, per esempio tramite l’”effetto di agglomerazione”. La concentrazione delle persone è anche un buon principio ecologico quando si affrontano i cambiamenti climatici, risparmiando sulle risorse infrastrutturali. È positiva anche sul piano sociale, in quanto ci espone a individui diversi da noi in una città densamente differenziata. Tuttavia, per prevenire o inibire future pandemie, potremmo avere bisogno di trovare diverse forme fisiche di densità, che permettano alle persone di comunicare, di vedere i vicini, di partecipare alla vita di strada, anche se costrette a separarsi temporaneamente. Molto tempo fa, gli urbanisti cinesi hanno trovato una forma dotata di questa flessibilità nello shikumen, il cortile. Architetti e progettisti devono trovare il suo equivalente contemporaneo.
Un problema più impegnativo per la densità è rappresentato dai trasporti. I vantaggi del trasporto pubblico consistono nel raggruppare in modo efficiente un buon numero di passeggeri, ma questa non è una forma salutare di densificazione. Pertanto, gli urbanisti di Parigi e Bogotá stanno esplorando le cosiddette “città a 15 minuti”, in cui le persone possono camminare o andare in bicicletta verso nodi densi sparsi in tutta la città piuttosto che spostarsi sui mezzi pubblici verso centri ad alta densità. Ma per realizzare tutto ciò è necessaria una rivoluzione economica, specialmente nelle città in via di sviluppo in cui le fabbriche, come a Bogotá, sono situate lontano dai barrios e dagli insediamenti informali in cui vivono i lavoratori.
Questo è il momento di temere l’opportunità che la pandemia offre ai poteri dominanti, di rifiutare la messinscena del panico diffusa dai media, di trovare modi per contrastare il divario crescente tra una classe media sicura e una classe lavoratrice esposta
Questo evidenzia un grosso problema: come riconciliare e integrare la città sana con quella verde. Ci sono alcuni ovvi punti d’incontro su piccola scala – per esempio, capire come i poveri non debbano bruciare i rifiuti contribuendo all’inquinamento –, ma la più ampia relazione tra sano e verde c’impone un ripensamento radicale della densità.
La pandemia è, a mio avviso, un esperimento naturale sulla disuguaglianza di classe. Il tipo di lavoro che le persone possono svolgere da casa è in gran parte appannaggio della classe media, mentre non è possibile effettuare la raccolta dei rifiuti, interventi d’idraulica o altri servizi manuali online.
Detto questo, la pandemia potrebbe invece umanizzare l’uso della tecnologia nelle città. I modelli di “città intelligente” di una generazione fa riguardavano la regolamentazione e il controllo – lo Stato online. A emergere con questa pandemia, tuttavia, sono buoni programmi e protocolli che creano comunità. Sono particolarmente colpito dal numero di reti di mutua assistenza che stanno nascendo a Londra in comunità come la mia, che è molto diversificata, ma finora priva di un senso comunitario particolarmente spiccato.
In breve, questo è il momento di temere l’opportunità che la pandemia offre ai poteri dominanti, di rifiutare la messinscena del panico diffusa dai media, di trovare modi per contrastare il divario crescente tra una classe media sicura e una classe lavoratrice esposta, per esplorare forme di diversità che potrebbero mettere in relazione la città verde e quella sana e utilizzare la tecnologia per affermare il potere della comunità nelle città.
Richard Sennett è professore ordinario di Sociologia alla London School of Economics e insegna discipline umanistiche alla New York University. Sennett è noto per i suoi studi sui legami sociali nelle città e sugli effetti della vita urbana sugli individui nel mondo moderno. Attualmente è senior advisor delle Nazioni Unite nel programma sui cambiamenti climatici e le città.
Immagine di apertura: particolare del Karl-Marx-Hof di Vienna, progettato da Karl Ehn, 1927-1930, in una foto del 2008. Esempio di edilizia abitativa sviluppata in un unico blocco lungo il perimetro dell’isolato, accoglie 5.000 abitanti. Offre numerosi servizi per la comunità e, nonostante la densità, racchiude nella sua corte ampi spazi verdi. Foto Viennaslide/Construction Photography/Avalon/Getty Images