Questo articolo sarà pubblicato su Domus 1045, nella rubrica “What is design?”, in edicola dal 4 aprile.
Scrivo in tempi d’ansia. Oggi, mentre sto apportando le ultime modifiche a questo testo, Milano è stata ‘sigillata’ dalle autorità, insieme a gran parte del Nord Italia, nel tentativo di bloccare il Coronavirus, che si sta diffondendo in tutto il mondo. Questo saggio sarà pubblicato sull’equivalente, nell’universo del design, del celebre numero di settembre di Vogue: Domus di aprile. Un numero che dovrebbe essere gonfio d’inserzioni pubblicitarie e che esce in coincidenza con il Salone del Mobile. Il Salone invece è stato rinviato a metà giugno (incrociamo le dita).
In tutto il Pianeta, i mercati stanno crollando, mentre gli indici sono puntati verso i presunti responsabili e le teorie cospirazioniste fioccano. Si tratta di un momento di turbolenza a cielo aperto – improvvisa e violenta, spaventosa, ma temporanea – o di un massiccio adattamento tettonico a una nuova realtà?
Mentre scrivevo e riscrivevo questo saggio, sbozzandolo giorno dopo giorno per renderlo più sobrio a ogni nuova impennata del numero degli infetti e a ogni nuovo calo degli indicatori economici, ho provato a riconsiderare alcuni momenti difficili del passato. E ho trovato attuale un testo del 2009 che avevo scritto per la rivista SEED. Si intitola A New Map for Design e si adatta in modo inquietante alla situazione odierna. “La difficile situazione finanziaria e la riduzione dei fondi per effettuare viaggi, il crescente numero di risorse e opportunità disponibili online, la facilità di passaggio dalla progettazione digitale alla produzione digitale che rende quasi inutile la prototipazione fino al momento della distribuzione, […] la maggiore sensibilità nei confronti dell’inquinamento causato dal trasporto aereo e, in particolare, il massiccio spostamento della professione del design dal fare cose al proporre modelli, alla visualizzazione della complessità e alla costruzione di scenari, sono tutti fattori che stanno lavorando insieme per mettere ulteriormente in pericolo la mappa del mondo del design. Quel che conta ora è la produzione di idee: i poli sono diventati più leggeri e immateriali, liberandosi di gran parte del carico della produzione materiale”.
Quel che conta ora è la produzione di idee: i poli sono diventati più leggeri e immateriali, liberandosi di gran parte del carico della produzione materiale.
Il potere del design risiede nella sua capacità di analizzare e sintetizzare. Le capacità sintetiche dei designer sono visibili non solo nelle semplici dualità del passato – obiettivi e mezzi, per esempio, o forma e funzione, bisogni e desideri, o interesse individuale e collettivo – ma anche in scenari più complessi e fluidi che combinano biologia, tecnologia digitale, politica dell’identità ed etica, oppure produzione (post)industriale, sostenibilità e comunicazione, per citare solo alcune delle possibili permutazioni. I designer sono i custodi di una visione e costruiscono i gruppi di lavoro interdisciplinari necessari per concretizzarla.
Con alcune correzioni storiche quali il declino del design speculativo, accompagnato dall’ascesa del design thinking (che personalmente disapprovo), e l’avvento del design di ricerca e di filtri etici più rigorosi, il design oggi sembra essere ancora pronto ad aiutare il mondo a cambiare. Ecco una considerazione del 2008 sul rapporto tra design e cambiamento, tratta dal catalogo della mostra che ho curato al MoMA nel 2008, “Design and the Elastic Mind”: “I designer sanno cogliere cambiamenti epocali nella tecnologia, nella scienza e nei costumi sociali e poi convertirli in oggetti e idee che le persone possono effettivamente comprendere e usare”. Questa posizione contrasta con l’atteggiamento proattivo o addirittura attivista condiviso oggi da molti designer che hanno deciso di svelare gli ecosistemi nascosti e tossici che sostengono un’economia di consumo e le loro conseguenze geopolitiche, oppure hanno proposto splendidi esempi di circolarità e integrità, rendendo attraente e auspicabile una visione costruttiva e rigenerativa del futuro.
I designer sanno cogliere cambiamenti epocali nella tecnologia, nella scienza e nei costumi sociali e poi convertirli in oggetti e idee che le persone possono effettivamente comprendere e usare.
Questi progettisti hanno spesso in comune l’agilità che deriva dall’avere spese contenute, come avviene nel caso di medie e piccole imprese, e di essersi formati in un sistema educativo supportato da fondi pubblici – e sono disposti a rimanere di piccola o media dimensione, accontentandosi di entrate dignitose, ma non esorbitanti. Tale agilità consente loro di sperimentare con la propria struttura, integrando varie tipologie di design sotto lo stesso ‘tetto’ oppure lasciando che i collaboratori operino a volte in modo indipendente per unirsi ad hoc quando si presenta l’occasione. Possono lavorare sulla ricerca, concentrando analisi e sintesi in spazi ristretti.
Questo ecosistema di sperimentazione e pluralismo, così importante per i destini della nostra società, è in pericolo a causa dei tagli draconiani ai fondi a sostegno del design, delle arti e della cultura in generale, imposti da numerosi Governi in tutto il mondo. In molti Paesi, le scuole di design, architettura e arte sono costose e i giovani laureati si affrettano a cercare un lavoro ben pagato per ripianare il debito contratto durante gli studi. Questi lavori sono spesso offerti da grosse aziende con reparti di design incisivi, ma comunque grandi (come, per esempio, Google, Lego o IBM). Poiché l’esercizio visionario e sintetico del design è necessariamente frammentato in reparti che contano migliaia di impiegati, fa male pensare all’energia creativa e al potenziale che viene così dissipato. Peggio ancora, quei posti di lavoro si trovano spesso anche negli uffici di design aperti da gruppi di consulenza come McKinsey e Hakuhodo, che hanno deciso d’includere il design thinking tra le loro offerte ai clienti – Hakuhodo ha persino acquisito parte di Ideo, la società che ha cementato l’infatuazione con la pratica. Poiché design thinking equivale nel design a ciò che il metodo scientifico è nella scienza, i designer non sono in grado di realizzare appieno la propria educazione.
Oltre a una riforma del sistema educativo, il design potrebbe beneficiare dello stesso modello di startup che viene ora riconsiderato dal settore della tecnologia dopo l’ennesimo brusco risveglio.
Oltre a una riforma del sistema educativo, il design potrebbe beneficiare dello stesso modello di startup che viene ora riconsiderato dal settore della tecnologia dopo l’ennesimo brusco risveglio (vedi per esempio Uber e WeWork). Le delusioni si sono tuttavia verificate in molti casi perché le aspettative di rendimento finanziario erano troppo fuori misura, ingorde. Con i nuovi fondi di capitale di rischio perfettamente in linea con le basi più ‘umanistiche’ di un’economia resettata non solo dallo shock di Covid-19, ma anche dalle profonde crisi ambientali e politiche che ci colpiscono da diversi anni, il design potrebbe prosperare e aiutare umani e altre specie a guarire. Il design è un ingrediente fondamentale della vita e della società, anche perché aiuta le persone ad affrontare il cambiamento. Questo è il momento perfetto per dimostrare la sua importanza.
Paola Antonelli è senior curator di Architettura e Design al MoMA, oltre che direttrice della divisione Research & Development, da lei fondata nel museo newyorkese.