Questo articolo è stato pubblicato in origine su Domus 983 / settembre 2014
Un cinquecentenario nel silenzio
Per rendere omaggio a Donato Bramante, uno dei più straordinari architetti di tutti i tempi, Domus ha chiesto a Paolo Portoghesi di ripercorrere la sua opera, tutta tesa all’affermazione di un’architettura italiana, e poi europea, di valore ‘universale’.
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- Paolo Portoghesi
- 01 dicembre 2014
“Io chiamo secolo non la ordinaria misura del tempo, ma quelle grandi tappe dell’umanità in cui appariscono dei principi nuovi e si trasforma la faccia del mondo. Questo avviene per una lenta e costante elaborazione di tutti gli elementi sociali, i quali vi lavorano inconsapevolmente; ma prima di dare il colpo mortale all’edificio crollante, si aspetta un uomo che è destinato a riassumere in sé tutto quel movimento, al quale tanti elementi cospirano senza saperlo, e che è destinato a dargli il nome”.
Questa l’incisiva descrizione data da Francesco De Sanctis del ruolo di Machiavelli, che, forse ancor meglio che al grande pensatore, si attaglia a Donato Bramante, l’architetto che con le sue opere mature ha messo in crisi il pluralismo regionale che aveva caratterizzato l’architettura quattrocentesca italiana e al quale egli stesso aveva dato un importante contributo, non per resuscitare l’architettura romana – come si credeva un tempo –, ma piuttosto per ‘superarla’, utilizzando le regole vitruviane e l’esempio dei monumenti antichi in una nuova sintesi, forgiata sul modello della Chiesa, dotata quindi del crisma dell’unità e dell’universalità.
A Urbino, la capitale del Montefeltro, vicino alla quale si trova il villaggio di Monte Asdrualdo in cui nacque nel 1444, Bramante deve la sua vocazione alla chiarezza, la sua abilità prospettica e il suo amore per l’antico. La vicinanza di Piero della Francesca, del Laurana e di Francesco di Giorgio è alla base di una formazione culturale non facile per quello che un suo allievo, il Cesariano, definì “patiente filio de paupertate”. A Milano, dove arriva più che trentenne, Bramante confronta arditamente l’eredità di Brunelleschi con quella dell’Alberti, associa alla riconquista degli ordini quella dell’effetto spaziale dei monumenti antichi, a Santa Maria presso San Satiro e a Santa Maria delle Grazie e, in modo paradigmatico, nell’incisione Prevedari elabora un sistema compositivo in cui archi, colonne e pilastri si combinano nelle tre dimensioni, in un meccanismo che incatena sostegni e volte in modo rigoroso e consequenziale.
La veste decorativa, nelle opere milanesi è ancora un elemento essenziale, secondo la prassi quattrocentesca, che in ciascuno dei centri regionali di elaborazione del nuovo linguaggio prospetta una diversa ipotesi di arricchimento plastico degli archetipi derivati dall’antichità. È solo dopo il trasferimento a Roma, che precede di poco l’inizio del nuovo secolo, che l’architetto rinuncia consapevolmente alla decorazione per orientare la sua ricerca verso il puro enunciato degli elementi compositivi.
Nel chiostro di Santa Maria della Pace interpreta mirabilmente nella purezza assoluta della forma costruttiva la mite intimità del chiostro, come simbolo della vita monastica. Siamo, nei primi anni romani di Bramante nella Roma di Alessandro VI Borgia e l’architetto è interessato soprattutto allo studio e al rilievo dei monumenti antichi. Nel 1503, l’elezione di Giulio II produce un profondo mutamento nella vita dell’architetto: il programma con cui era arrivato a Roma, quello d’immergersi nello studio filologico dell’antichità, è messo in crisi da ciò che il nuovo Papa gli chiede: di aiutarlo, cioè, in una serie d’imprese di vastissimo respiro, per le quali non sarebbe bastata un’intera vita. L’incontro tra il bellicoso pontefice, ormai settantenne, e l’architetto che stava per compiere i 60 anni si risolse in una profonda amicizia basata sulla complementarità dei caratteri e sul comune entusiasmo per un ideale pragmatico e ottimistico. L’aneddoto dell’architetto che legge e commenta Dante al capezzale del Papa malato è indizio rivelatore di una solidarietà che oltrepassa la specificità dell’impegno architettonico.
Il primo atto della collaborazione tra Giulio II e Bramante è il cortile di Belvedere, il monumentale congiungimento, cioè, di due strutture edilizie separate, divise da un paesaggio campestre: il palazzo Vaticano, intessuto intorno all’angusto cortile del Pappagallo, e la palazzina del Belvedere, costruita da Innocenzo sullo sprone di una collina affacciata sui prati di Castello. Il solo fatto di vedere le due unità staccate, inserite in uno scenario naturale, come collegabili in un solo organismo, denuncia un nuovo modo di pensare in termini dimensionali. Per la prima volta, infatti, nel Belvedere è recuperata la dimensione urbanistica della città antica e, di conseguenza, la prassi di riplasmare artificialmente il paesaggio. Quando si entra nel presbiterio di Santa Maria del Popolo la memoria torna spontaneamente alla pala di Brera di Piero della Francesca, in cui appaiono tanti elementi analoghi: i cassettoni, la conchiglia del catino, l’abside con il vano voltato a botte che le fa da preludio; ma al prototipo pierfrancescano l’architetto ha aggiunto, oltre alla potenza della struttura articolata, il valore di una luce intrinseca all’oggetto, non più lume universale ma lume particolare generatore di ‘effetto’.
Nel tempietto di San Pietro in Montorio, il più minuscolo dei monumenti chiave della storia dell’architettura la centralità è l’idea dominante che immediatamente s’impossessa dell’osservatore e lo costringe a un’indagine mentale sulle ragioni, sulle regole, sulle proprietà di questa legge strutturale. L’idea di ricostruire integralmente la basilica di San Pietro nasce nelle mente di Giulio II in un momento tragico di frustrazioni e di attesa. L’idea sembra nascere dalla meditazione della morte; in principio, il Papa pensa unicamente al suo sepolcro e lo immagina – a somiglianza di quello dello zio Sisto IV – isolato come un’arca, ma altissimo: come un antico mausoleo. Poiché nessuna cappella della vecchia basilica può contenerlo, occorre pensare a un organismo in scala con il monumento. È probabilmente la grandiosità del nuovo programma che rende palese l’inadeguatezza della concezione con cui il restauro di San Pietro era stato iniziato dal Rossellino. Sebbene sia poco attendibile la tesi vasariana secondo cui la nuova chiesa sarebbe dovuta sorgere attorno al sepolcro, è pur vero che mausoleo e chiesa sono nella visione giuliana organicamente collegati. Bramante punta sull’organismo in senso albertiano, fatto di parti concatenate e dotato di un alto grado di complessità. Il punto di partenza è un grande spazio coperto a cupola, ma questo elemento dominante non si isola dal contesto: ne diventa invece il nucleo di sviluppo, intorno al quale germina una serie conchiusa di eventi spaziali omogenei.
L’aspetto più affascinante della planimetria bramantesca è la limpidezza delle leggi aggregative e la semplicità del risultato. In effetti, l’architetto è riuscito in modo impressionante a realizzare l’unità nella molteplicità attraverso un rapporto di omogeneità tra parte e tutto che fa pensare a una pagina di Plotino sul rapporto tra realtà mondana e idea: “Quaggiù... ogni parte nasce sempre da un’altra ed ogni singolo è semplicemente parte; lassù per contro dal tutto nasce incessantemente il singolo e al tempo stesso esso è singolo e tutto; certo esso appare come una parte, ma a un occhio acuto si disvela come tutto” (Enneade V, IV, 28). Bramante arriva al suo risultato di unità spaziale utilizzando con straordinaria capacità sintetica una serie di esperienze lontane nello spazio e nel tempo. Le terme romane suggeriscono la scala e l’ordine; ma la loro struttura per sequenza di spazi autosufficienti è respinta a vantaggio della fusione spaziale tardo-antica. Della tradizione medievale viene assorbito il procedimento ‘proposizionale’ usato nella connessione delle campate, che deriva dalla logica scolastica, e il carattere verticalistico dello spazio centrale.
Bramante è entrato nella storia come fondatore di un nuovo linguaggio diffuso gradualmente in tutta Europa. La sua fama di radicale, impaziente innovatore ha colpito la fantasia popolare ed è ironicamente condensata nel fantasioso aneddoto narrato dal Guarna nella sua Simia. Giunto in Paradiso in cospetto di San Pietro, l’architetto avrebbe dichiarato: “Prima di tutto io voglio eliminare questa strada di accesso così aspra e difficile da salire che conduce dalla terra al cielo; io ne farò un’altra così dolce e larga, che le anime dei deboli e dei vecchi vi possano salire a cavallo. Inoltre penso di buttar giù questo paradiso e farne uno nuovo con più belle e più allegre abitazioni per i beati. Se queste cose vi accomodano sono con voi; altrimenti me ne vado a casa di Plutone”.
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