Ritorno al Parco dei Principi, l’hotel di Gio Ponti a Sorrento

Dall’archivio Domus, un racconto tra il sognante e il pittorico che Ponti fa del suo progetto mediterraneo, con cui reinterpreta il rapporto tra arte e paesaggio, anticipando il concetto di design hotel.

L’Hotel Parco dei Principi occupa una posizione di enorme prestigio nella galassia della mitologia pontiana perché, oltre a incarnare l’immagine del turismo mediterraneo moderno, incarna anche molti dei temi cari al suo progettista: nasce non dal nulla, ma dalla reinterpretazione di una storia esistente – quella settecentesca del poggio del Conte di SIracusa poi Cortchacow – e Ponti privilegia allora gli interni rispetto alla forma esterna dell'edificio, dando piena espressione alla sua ricerca di un dialogo innovativo tra il moderno e la decorazione, e collaborando anche con figure come Ico Parisi e Fausto Melotti (che vediamo tornare in vari progetti, come la Casa di Fantasia a Milano). 

Come è stato fatto notare in occasione del suo cinquantenario, Il Parco dei Principi anticipa l’idea poi affermatasi di design hotel, è un’opera d’arte – anche collettiva – espressa in un interno, tra maioliche, ciottoli bianchi e blu, piastrelle di cui Ponti cura la produzione e la stessa ideazione: “E sempre penso a queste infinite possibilità dell’arte: date ad uno un quadrato di venti per venti e, benché nei secoli tutti si sian sbizzarriti con infiniti disegni, v’è sempre posto ancora per un disegno nuovo, per un vostro disegno. Un facetissimo amico mi chiedeva cosa avverrà dopo che l’ultimo disegnatore avrà fatto l’ultimo disegno, quando tutti i disegni saranno fatti. Non avverrà nulla, perché non ci sarà mai l’ultimo disegno, e non ci sarà mai l’ultimo disegnatore”. Queste le parole di Ponti che Fabrizio Mautone riprendeva nel 2017 in occasione della mostra dedicata in Triennale a queste stesse ceramiche.

Noi riportiamo qui invece le altre parole con cui Ponti raccontava il progetto facendolo letteralmente scomparire in una pittura armonica di paesaggio, colori ed atmosfere: era il giugno del 1964, e l’uscita di Domus la numero 415.

Domus 415, giugno 1964

Cielo azzurro, mare azzurro, isole azzurre, maioliche azzurre, piante verdi, rose ai piedi della principessa, orma di danzatrice

Non è una canzone – “blue skies”, o “blue sea”, o “azulejos azules” – per quanto Sorrento sia posto da canzoni. E nemmeno favola è, per quanto un gran pittore napoletano dell’Ottocento, Palizzi, qui abbia galantemente pittato petali di rose ai piedi della principessa Korciacov, au lit donnant; e benché sulla terrazza marmorea dell’ottocentesco padiglione, in questo parco, ci sia ancora la minuscola impronta del piede della famosa Sedova, danzatrice alla corte di Russia.

È storia, che diventa leggenda. V’era il parco della villa dei Korciacov, dove viveva la bellissima Korciacov, la principessa che i sorrentini ricordano ancora, per lo sfarzo delle sue feste, e la prodigalità dei doni ai poveri, anche quando decadde, e per i famosi lunghissimi bocchini, e per l’amore straordinario alle piante. Piante e fiori del parco – curato da dieci giardinieri – intorno alla villa e al padiglione che ella iniziò a costruire, sognando di ospitarvi, dalla Russia, la Famiglia Imperiale – e che rimase, incompiuto, rudere ante luterani fra le piante del parco. Qui, un uomo che ha il genio di scoprire le qualità di ciò che tutti conoscono e di cui nessuno si accorge, ha potuto, nel parco, far costruire un albergo.

Domus 415, giugno 1964

Vi condusse un architetto, in un giorno in cui tutto era azzurro, per nebbia di solare calura: cielo azzurro (blue sky), mare azzurro (blue sea), lontani profili azzurri all’orizzonte, di Capri, di Ischia, di Procida (blue islands), di Posillipo (blue peninsula) e, in terra, del Vesuvio (blue volcano). Disse l’architetto: sia azzurra e bianca, fuori, l’architettura, e bianca e azzurra dentro. L’architettura non gli riuscì di ottenerla fedele al progetto, nelle strutture e nelle finiture; ma dove natura aiutò, le cose andarono passabilmente bene: terrestre il verde percorso nel parco, fra alberi solenni; acquatica la verde piscina, che fu pensata non come un bacino per nuotatori sportivi, ma come uno specchio d’acqua per ninfe boschive, donde emergono brevi isole per i classici atteggiamenti, alla Récamier o alla Paolina, di femminili bellezze; e dalle acque emerge una scala di cemento, per salirvi e poi inabissarsi in tuffo.

Il resto delle cose disegnate – stoffe, pareti, pavimenti, bicchieri, tovaglie – è (o dovrebbe essere: l’architetto non c’è più stato) bianco e celeste, come il cielo, le ombre, le lontananze, il mare.

Domus 415, giugno 1964

Fu la maiolica, passione di quell’architetto, a soccorrerlo: nei pavimenti, con le piastrelle salernitane di D’Agostino, per cui con trenta nuovi disegni variamente composti risultarono cento nuovi pavimenti diversi, tanti quante le camere (passione dell’architetto di far queste fatiche felici); e, nelle pareti delle sale, con le placche di ceramica Melotti, bianche e azzurre, nuvolose, murate, a rivestire i pilastri, nel modo che vedete, e per cui ogni volume invadente gli spazi perde consistenza, per virtù dei riflessi. Fra i disegni di nuove piastrelle offerti per l’esecuzione perfetta alla bravura salernitana dei D’Agostino, vi son lune (di miele) e geometrie naturali. E, sulle scale, ed all’ingresso, e fuori, l’architetto si è valso di un’altra sua idea, quella del mosaico di ciottoli in ceramica, eseguiti dalla Ceramica Joo. Di bellissimo effetto, egli dice; e voi vedrete. Blu sono le coperte, le testiere dei letti, le porte: bianco il resto. E l’architetto insegnò come fare spaghetti (e polli) al blu di metilene, sanissimi e stupendi; e scelse scodelle e vassoi di stupenda materia, bianca nel cavo, azzurra fuori. Invano.

Domus 415, giugno 1964

Dall’albergo, che sorge su un altissimo antico spalto di tufo, si scende – attraverso gallerie nella roccia, e grotte – al mare, dove ci accoglie un molo falcato a mezzaluna, una mezzaluna qui arenata. Queste gallerie e grotte un po’ sono rimaste come erano; ma, alcune, Salvatore Fiume le avrebbe, pare, coperte di calce, dipingendovi poi deità proclivi agli amori naturali, elementari e sani, quegli amori che ramificarono gli alberi genealogici della mitologia.

È vero tutto ciò? Lo era nella mente dell’architetto; non lo è (tranne il bianco e il blu) nella realtà. Così egli lavora, lavora, lavora, e non riesce ad esprimersi. 

Domus 415, giugno 1964

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