L’Ape Piaggio è un mezzo di trasporto unico nel suo genere e nel suo design, che racconta la storia del paese che l’ha creata e del periodo in cui si è affermata. Ora Sting Like a Bee la usa questo che è uno degli oggetti di design più iconici del Novecento italiano, per raccontare qualcosa di imprevisto: delle persone e ciò che l’Ape fa alle loro vite. Non è, come sarebbe facile immaginare, una storia operaia, di lavoro e di uomini e donne che utilizzano l’Ape per le consegne o il trasporto merci: è una storia di ragazzi, amori, desideri, sesso e aspirazioni. L’Ape Piaggio come oggetto che definisce uno status, come le Lambrette dei mods, un feticcio di una sottocultura che non sa di essere tale e che è talmente “sotto” da riguardare pochissime persone in un luogo marginale.
L’apecar, capolavoro del design italiano, finalmente ha il film che si meritava
Un documentario italiano, Sting like a bee, rilancia il mito del “tuktuk italiano”, protagonista di una nuova sottocultura fatta di ragazzi, di amore e di modding, e di tanta Italia di provincia.
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- Gabriele Niola
- 30 novembre 2024
A creare questo documentario è stato Leone Balduzzi, che ne film organizza, gestisce e muove una serie di ragazzi di un paese di provincia italiano come fossero attori, in una finta rappresentazione. Lungo Sting Like a Bee si cerca di mettere in piedi un finto film come espediente per documentare la vita di questi ragazzi, fargli delle domande e far emergere le loro vite, i desideri e le aspirazioni. Più facile da vedere che da spiegare, è tutto pensato intorno all’uso che in quei posti viene fatto dell’Ape, un mezzo da personalizzare, modificare e usare come status symbol. E proprio questa pratica, quasi sovversiva rispetto alle intenzioni con le quali l’Ape è stata messa in commercio, racconta l’essenza del potere del design.
Il design migliore infatti non è quello che serve un solo scopo o che assolve a una funzione precisa, ma quello che attraversa le epoche e i mutamenti sociali assumendo ogni volta ruoli e funzioni diverse. Nata nel 1948 all’alba della ricostruzione ma prodotta nella forma che conosciamo oggi a partire dal 1956, l’Ape Piaggio è ovunque anche oggi, esportata in India dove è usata come risciò e in produzione in diverse versioni e modelli. In Sting Like a Bee è il simbolo perfetto dell’incrocio tra tradizione locale, origini operaie e nuove istanze moderne dei ragazzi che le comprano e le modificano. Questa Ape-culture di un piccolo centro italiano, limitatissima e circoscritta, trasforma il design senza trasformarlo. L’Ape è sempre quella, nonostante i colori e gli assetti da corsa, e con quella forma industriale si adatta alla vita notturna, alle uscite romantiche e al corteggiamento.
Niente potrebbe costituire un ribaltamento più forte del concetto iniziale di questo mezzo se non l’idea che delle ragazze si interessino a dei ragazzi perché li vedono su delle Ape Piaggio, cool come fossero auto sportive decappottabili. L’Ape anche solo nelle sue forme contiene il racconto dell’Italia contadina, di un’epoca in cui l’industrializzazione aveva una certa forma e una forte radice bottegaia. Prima dei furgoncini moderni e più in basso dei camion, c’era e c’è una forma di produzione imprenditoriale minima che ha esattamente l’immagine dell’Ape: a guida singola, con poco spazio per altre persone e molto spazio per le merci.
Il design migliore infatti non è quello che serve un solo scopo o che assolve a una funzione precisa, ma quello che attraversa le epoche e i mutamenti sociali assumendo ogni volta ruoli e funzioni diverse.
E Sting Like a Bee, nonostante i suoi molti limiti e un po’ di velleità soprattutto nel parlare di sesso (la metafora che vorrebbe i ragazzi giovani approcciarsi al sesso come api che impollinano a bordo di un mezzo che si chiama Ape è decisamente troppo), fa proprio il lavoro del cinema: pensa una storia intorno a un’estetica. Le immagini rurali delle strade solcate da queste Ape Piaggio spiegano il carattere dei protagonisti, commentano i mutamenti sociali e la maniera in cui c’è qualcosa di molto rapido (le sottoculture giovanili) unito a qualcosa di lentissimo (l’uso di uno strumento antiquato), qualcosa di aspirazionale (apparire cool) e qualcosa che li trattiene verso il basso (l’uso di un mezzo economico e operaio) fa in modo che capiamo delle persone attraverso ciò che sperano che il design degli oggetti possa fare per loro.
C’è nel documentario una chiara impostazione fotografica, da documentazione dell’Italia provinciale, la tendenza cioè a mettere in scena le persone a partire dagli ambienti in cui vivono e che li definiscono: i ragazzi nel loro garage immersi negli attrezzi, quelli accoppiati ritratti nei salotti con il pizzo sulle mensole, i genitori in cucina e via dicendo. Sembra a tratti la versione in movimento di un grande reportage fotografico sull’Italia profonda e su come subisca i cambiamenti sociali, incapace (come sempre) di rimanere al passo con ciò che vede in tv o sugli smartphone, ma desiderosa di avere la sua versione delle mode e del ribellismo giovanile. Attraverso il riutilizzo di un mezzo piccolo-industriale!
Non ci sono dubbi che il documentario adotti un punto di vista totalmente paternalista. I ragazzi sono guardati, raccontati e scrutati come farebbe un genitore, con quella bonarietà e senza mai stare al loro livello, senza mescolarsi alle beghe, alle rivalità e agli odi, senza giudicarli (come fanno loro invece) ma solo ammirando la maniera in cui vivono la propria età. Non senza un po’ di nostalgia per quell’età e una certa semplicità percepita dall’occhio adulto, che è parte integrante di ciò che un oggetto di design iconico porta con sé: il racconto della nostra storia.