Questo articolo è stato pubblicato originariamente su Domus 1059, luglio e agosto 2021.
A casa di Paolo Fresu
Nella casa bolognese del trombettista italiano nulla è fuori posto e l’ordine regna sovrano. Entriamo nel suo mondo fatto di opere degli amici pittori e lampade d’autore.
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- Carlos D'Ercole
- 10 luglio 2021
“Sarà stato a metà degli anni Ottanta, in occasione di uno dei miei primi concerti all’estero. Suono a Winterthur, in Svizzera, ospite nel trio del pianista americano ArtLande. Invece di prendere un volo diretto per la Sardegna, per non so quale strana ragione decido di tornare in Italia con un treno da Monaco di Baviera.Mi accorgo che l’arrivo a Bologna e molto in anticipo rispetto all’orario dipartenza della nave da Civitavecchia. In quelle poche ore di attesa, mi iscrivo al DAMS, trascinato dalla passione per Roberto Leydi e gli studi di etnomusicologia”. Cosi Paolo Fresu mette radici a Bologna, finisce per dare un solo esame (teoria e solfeggio), ma la città lo conquista per sempre. “Ho una grande passione per le case– quella di Tucconi, quella di Bologna e quella di Parigi – e riesco a farle sentire sempre abitate nonostante non ci sia mai. Il segreto, in fondo, è semplice: lasciarle in ordine alla partenza in modo che al rientro risultino accoglienti, ed è questo che faccio ogni volta che le abbandono per un tempo più o meno lungo”.
Lo scrive nella sua autobiografia, Musica dentro, e non tradisce le aspettative. Nella casa bolognese di Fresu nulla è fuori posto e l’ordine regna sovrano. Mi accoglie con un sorriso chiedendomi se voglio un caffè. Mentre lo prepara, mi racconta delle copertine scelte per gli album della sua etichetta Tŭk Music che ha appena compiuto dieci anni di vita. Francesco Bongiorni, Emiliano Ponzi, Alessandro Sanna, Anna Godeassi, Paola Pezzi, Benno Simma sono alcuni degli illustratori che ha chiamato a collaborare. Su una colonna, riconosco la copertina di Heartland, disegnata da Severino Salvemini e, a quel punto, Fresu mi guida alla scoperta della sua collezione personale. Nel salotto ci sono opere dell’amica cantabrica Pilar Gomez Cossio e del napoletano Salvatore Ravo, dell’artista sardo Primo Pantoli, un ritratto di Fresu e della moglie realizzato da Greta Frau. Sulle scale, che portano allo studio situato al primo piano, convivono lavori di Marco Cingolani, del fratello Antonello, di Salvatore Garau, batterista degli Stormy Six e un trittico del colombiano Juan Carlos Pineda.
A un osservatore attento non può sfuggire l’energia travolgente di Fresu che, contemporaneamente, riesce a mettere su il tè, recuperare un catalogo celebrativo del fondatore della ACTMusic, Siggi Loch (A Life in the Spirit of Jazz) e raccontarti un aneddoto su Massimo Urbani: “A Boston divisi la stanza con Massimo che, la seconda e ultima sera del tour, si ritrovò seminudo in corridoio a bussare disperatamente alla porta. Era uscito per prendere una Coca-Cola da quei distributori di ghiaccio e bevande che si trovano ai piani degli alberghi americani, ma si era dimenticato di prendere la chiave. Io dormivo sonoramente con i tappi nelle orecchie perchè lui durante la notte russava troppo forte. Un nero grande e grosso della security lo beccò in quello stato e alla domanda ‘Who are you?’, rispose nel suo splendido inglese: ‘I am Max… alto sax’”. Il suo ritratto migliore ce l’ha forse consegnato il suo grande amico Gianmaria Testa: “Paolo Fresu porta scarpe per me stravaganti, spesso bicolore. Se le porta in giro con il passo un po’ puntuto dei magri e deglii indaffarati. Quando ho visto Berchidda, ho pensato alla distanza fra le sue scarpe e quelle stradine in salita, quella piazza. Poi l’ho guardato muoversi in fretta, nei giorni del festival, salutato da chiunque, sollecitato da chiunque, interrogato da chiunque”.
Devi sapere che, per me, le lampade e i quadri sono la cosa più importante, vengono prima ancora della casa. Una cosa che fa imbestialire mia moglie.
In questa mattinata bolognese di fine maggio, con il sole che entra timidamente in casa Fresu, lasciando intravedere da lontano San Luca e le due Torri, il padrone veste una camicia floreale, un pantalone sportivo e scarpe a punta, preludio di un’estate che finalmente si avvicina. “A proposito di Gianmaria, questa lampada Lucifero che vedi è un suo regalo. Devi sapere che, per me, le lampade e i quadri sono la cosa più importante, vengono prima ancora della casa. Una cosa che fa imbestialire mia moglie”. A Bologna ho portato con me un libro di Luciano Viti con fotografie di Chet Baker e Miles Davis e testi di Fresu. Mentre lo sfoglia, ripercorrendo l’età dell’oro dei jazz club di Madrid (Cafè Central), Barcellona (La Cova del Drac) e Parigi (Le Duc des Lombards, Le Baiser Sale, Sunset), apre una parentesi su Michel Petrucciani: “Ci avevo suonato assieme, unica volta della mia vita, pochi mesi prima della sua scomparsa a Catania. Mi esibivo nella stessa serata con l’Angel Quartet e Michel mi invito a improvvisare su Well You Needn’t di Thelonious Monk. Credo che qualcuno abbia quella registrazione”.
Confesso a Fresu la mia predilezione per gli album registrati con il pianista Uri Caine. “Ci siamo conosciuti nel backstage durante il festival del jazz che si svolge in Francia a Marciac. Stessa cosa e successa con Omar Sosa in Estonia. Non programmo mai le mie collaborazioni, a un certo punto avvengono. Per me non esiste la casualità”. Ricevo in regalo da Fresu il libro che festeggia i 30 anni di “Time in Jazz”. Mentre mi dirigo verso l’uscita, gli faccio notare che non ha mai suonato con Brad Mehldau: “Hai perfettamente ragione. Il problema è che, cascasse il mondo, lui ad agosto va sempre in vacanza”.
Foto Valentina Petrucci
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