Sono diventato architetto per caso. Avendo trascorso buona parte dell’infanzia a disegnare, capivo che la strada che avevo di fronte era cercare il mio destino nel mondo del graphic novel. In assenza di una scuola del fumetto in Danimarca, mi iscrissi alla Scuola di Architettura della Royal Danish Art Academy. Pensavo che una scuola d’architettura potesse insegnarmi a disegnare edifici e paesaggi, in sostanza gli sfondi per i personaggi e le storie che volevo raccontare.
Naturalmente, mi innamorai ben presto di progettare gli sfondi della nostra vita, e adottai un piano B. Se l’idea alla base delle graphic novel è dare struttura a una narrazione componendo scene un fotogramma dopo l’altro per costruire una storia, l’architettura è l’arte di creare la scena della vita che intendiamo vivere. Quasi lo stesso mestiere, a parte il fatto che dell’architettura è la realtà e non la fantasia. Il mio interesse per i fumetti era partito dagli autori europei: René Goscinny e Albert Uderzo (inventori di Astérix), Tome e Janry (famosi per Spirou et Fantasio). Mi sono innamorato di La Quête de l’oiseau du temps di Serge Le Tendre e Régis Loisel, del post-apocalittico Jeremiah e delle crociate di Sir Aymar ne Le torri di Bois-Maury di Hermann Huppen. Nonostante il mio scetticismo europeo nei confronti dei supereroi, ho scoperto il ritratto noir di Frank Miller in Batman: Anno Uno e Il ritorno del cavaliere oscuro. Mi ha sedotto l’erotismo dell’avanguardia italiana – Tutto ricominciò con un’estate indiana di Milo Manara e Hugo Pratt, il côté da figli dei fiori de Lo scimmiotto e le avventure psichedeliche orientali di HP e Giuseppe Bergman di Manara.
Ero sbalordito dal Ranxerox cyberpunk di Tanino Liberatore e dall’implicito erotismo delle avventure spaziali di Morbus Gravis di Paolo Serpieri. Mi affascinava in particolare un autore – o piuttosto due autori in uno. Jean Giraud aveva creato Blueberry in collaborazione con Jean-Michel Charlier: l’odissea western in 29 album di un soldato sudista disertore durante la Guerra di secessione. Un graphic novel che preannunciava i racconti long-form cui oggi abbiamo fatto l’abitudine come The Wire, Breaking Bad e Il Trono di Spade. Raccontare l’odissea western di un antieroe contro il sistema lungo un viaggio nell’Ovest della Guerra di Secessione è un’impresa che da sola basterebbe a garantire un posto nell’Olimpo della graphic novel, ma qui si sommava al quotidiano lavoro di Giraud sotto lo pseudonimo di Moebius, disegnatore di immagini fantascientifiche come Il garage ermetico di Jerry Cornelius e le cronache in sei volumi di John Difool in L’Incal. È intervenuto in prima persona nella creazione dell’originale di Tron oltre che di Il quinto elemento di Luc Besson.
Moebius mi fece scoprire il genere letterario che ha avuto il maggior influsso sul mio modo di pensare la maniera di dare forma al futuro. Se la fantascienza è il genere che introduce concetti e idee della scienza nella sfera narrativa, l’architettura è l’arte e la scienza di trasformare la narrativa in fatti. Mentre gli scrittori di fantascienza creano e sviluppano i loro esperimenti mentali attraverso una ricerca narrativa, noi architetti cerchiamo di trasformare le nostre visioni in realtà tramite una mediazione tra i vincoli di gravità, economia e competenze tecniche. Il mio entusiasmo per i mondi fantastici di Moebius era radicato nella mia passione per il disegno e le immagini, che mi avvincevano più delle narrazioni. Lo stile e la tecnica del disegno, più dei concetti e delle idee sottese. Al liceo, un amico mi fece conoscere Neuromante di William Gibson. Nella Trilogia dello Sprawl di Gibson e in tutte le sue opere seguenti scoprii l’intuizione fondamentale che questo autore coglie meglio di chiunque altro: l’idea che il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito.
L’oggi reca già le tracce che conducono al domani. Da qualche parte – in un centro di ricerca, sui computer portatili, nei laboratori di modellistica di uno studio di progettazione – ci sono i prototipi che daranno vita al mondo in cui vivremo domani. Gibson è come un archeologo che scava fuori dalla terra frammenti di futuro nel presente. A differenza di altre forme di fantascienza, che ho spesso rifiutato come fantasie allo sbaraglio irrilevanti per il presente, il cyberpunk di Gibson compie un’estrapolazione radicale delle tendenze di oggi. Tramite l’amplificazione genera proiezioni del futuro e, così facendo, mette in luce aspetti della vita contemporanea che altrimenti sarebbero impercettibili alla vista. La lente dell’estrapolazione e dell’amplificazione, quando si progetta per il domani, è produttiva. Il progetto di un edificio, per arrivare a compimento, richiede da cinque a 15 anni, CopenHill ha richiesto dieci anni, per l’aeroporto di Zurigo ce ne vorranno 15, tutto compreso. Ciò significa che non costruiamo mai il presente: stiamo sempre e soltanto costruendo il futuro.
Quindi dobbiamo amare e comprendere il futuro così come apprezziamo il presente. Il racconto di Gibson intitolato Johnny Mnemonico è diventato un film con Keanu Reeves nella parte del protagonista, ed è difficile immaginare la trilogia di Matrix delle sorelle Wachovsky senza il genio visionario di Gibson. La passione da medico forense di William Gibson per la dissezione del presente in cerca di frammenti di futuro è condivisa da un suo collega di Vancouver, Douglas Coupland, anche se Doug rimane sempre ancorato al presente. Allo stesso modo, però, Coupland è capace di osservare la situazione contemporanea e – al di là della quotidianità poco appariscente di autostrade ed email, distributori di carburante e minimarket, quartieri suburbani e parcheggi – ha un’abilità senza pari nello scoprire ciò che è significativo in mezzo a ciò che è banale. Per ricordarci che "la vita è quel che si svolge mentre siamo occupati a fare altro". Che il mondo in tutta la sua mediocrità è un luogo di bellezza indicibile se si riesce a essere pienamente presenti, a osservare, ascoltare e imparare senza l’ostacolo di preconcetti e convenzioni. Generazione X, La vita dopo Dio, Generazione Shampoo, Microservi hanno tutti avuto un influsso immenso su di me come architetto, perché in un modo o nell’altro mi hanno dato fiducia nel fatto che il quotidiano è già interessante a sufficienza.
Se ci si tuffa in esso fino in fondo, non si ha bisogno di un teatro lirico o di un museo d’arte per realizzare un contributo architettonico significativo per il mondo. L’ordinario può essere straordinario, un complesso residenziale o un parcheggio possono diventare una collina a giardini o un villaggio di montagna creato dall’uomo. La mia assimilazione dell’opera di William Gibson e Douglas Coupland mi ha portato a scoprire Philip K. Dick, Kim Stanley Robinson, Vernor Vinge e Iain M. Banks. Dick ha formulato la migliore spiegazione del motivo per cui ho trovato tanto significativa la fantascienza: perché trascende i confini della letteratura per diventare applicabile come processo mentale all’architettura e ad altri settori. Parafrasando le sue parole: la fantascienza, anche se spesso si svolge nel futuro, non è una narrazione del futuro. Non è una storia spaziale, anche se spesso si svolge nello spazio. È una narrazione la cui trama viene innescata da un certo tipo d'invenzione, spesso da un’invenzione tecnologica, ma può anche trattarsi di un’innovazione culturale, sociale, ambientale, biologica o politica. Il racconto si dispiega come sviluppo narrativo delle potenziali conseguenze che derivano a cascata da quest’unica invenzione.
Dipingerà un mondo esattamente analogo a quello che si sperimenta quando l’alterazione di un aspetto particolare innesca una reazione a catena, e non solo l’autore, ma anche il lettore vengono invitati a seguire intellettualmente quest’idea nelle sue molteplici conseguenze. Sostanzialmente, il nostro lavoro di architetti si realizza nella sua forma migliore quando riusciamo a formulare una domanda, a modificare uno dei dati, e di colpo il processo progettuale diventa la sperimentazione progettuale di tutte le conseguenze a cascata di quell’unico fatto cambiato. L’architettura è essenzialmente fantascienza trasformata in realtà. Invece di riflettere sul futuro gli diamo forma e lo costruiamo. Kim Stanley Robinson rifiuta la parola fantascienza in favore di "storia del futuro".
I suoi libri, di fatto, sono realistici al punto che spesso antepongono il realismo all’intrattenimento. Il risultato è un genere di fantascienza affascinante per il particolare microscopio che applica alla proiezione di scenari futuri. Il ministero per il futuro ci conduce nei due secoli di colonizzazione di Marte e della sua assimilazione alla Terra: dagli iniziali problemi tecnici di insediamento, edificazione e mappatura del pianeta all’arrivo delle società minerarie e delle multinazionali, degli ideologi e dei capi religiosi, fino all’avvento dell’inevitabile desiderio di liberarsi delle Nazioni Unite e della Terra in favore di un futuro indipendente, libero dai vincoli del vecchio mondo. Le idee di Kim Stanley Robinson in Il rosso di Marte, Il verde di Marte e Il blu di Marte hanno ispirato la mia idea di un’architettura e di un’urbanistica interplanetarie, e sono state il fondamento della concezione di una colonizzazione extraterrestre come qualcosa di attuabile nell’arco della mia vita: l’idea che la Luna e Marte siano semplicemente grandi isole raggiungibili navigando attraverso gli oceani degli spazio, come i nostri antenati raggiunsero l’Australia in canoa e l’Alaska su ponti di ghiaccio.
A New York ho incontrato Jonah Nolan. Lo conoscevo da quando aveva scritto il racconto che ha ispirato Memento ed era stato co-autore del copione di un capolavoro diretto da suo fratello Christopher, probabilmente tra la mia top five cinematografica. Jonah e sua moglie Lisa erano impegnati a resuscitare Westworld per la HBO. Ricordavo con affetto Westworld di Michael Crichton dalla mia infanzia, come una sorta di Jurassic Park con sesso, armi e robot. L’ho rivisto di recente, ma l’ho trovato inguardabile. Per la loro riedizione, i Nolan hanno assunto il punto di vista dei robot. Piuttosto che rimanere con gli esseri umani che usano i robot per sfogare i loro desideri oscuri in una vacanza abusiva — Las Vegas con gli steroidi — siamo stati invitati a entrare nella mente delle macchine, una nuova sottospecie non organica di umanità con corpi di polimeri e circuiti di silicone, piuttosto che di carne e neuroni. Ci chiedono di immedesimarci in una nuova forma di coscienza che presto potrebbe evolversi da strumento ad agente, ad ancora. Anche mentre scrivo, la fantascienza di Westworld dei Nolan si sta avvicinando alla realtà, ora che i Large Language Models sono stati liberati nel nostro mondo e stanno diventando sempre più potenti, senzienti e potenzialmente autocoscienti. I fatti seguono la finzione.
Infine, è stato Iain M. Banks, ispirato da Vernor Vinge, a pensare all’intelligenza artificiale come a un elemento importante del futuro dell’umanità. I suoi libri sulla cultura, la civiltà umanoide interstellare sostenuta e resa indipendente dalla potenza dell’intelligenza artificiale, sotto la denominazione di “le menti”, sono la più brillante, convincente e disinibita panoramica di un probabile lontano futuro dell’umanità che io abbia mai conosciuto: il genere di libera fantasia radicata nella creatività senza paura e nell’immaginazione intelligente che apre la mente e allarga l’orizzonte intellettuale. La fluidità di genere, l’interfaccia uomo-macchina, la longevità spinta, gli psicofarmaci, l’edonismo, l’emancipazione, i rapporti tra specie diverse, la riproduzione in videorealtà di varie concezioni religiose del paradiso e dell’inferno, la soluzione in videorealtà dei conflitti come alternativa alle guerre armate: la lista delle idee audaci e brillanti è senza fine.
Con il nome di Iain Banks, è stato anche autore di successo di una narrativa "seria" e, quando gli fu contestato che scrivesse fantascienza per arrivare alla narrativa seria, confutò: “Al contrario: io scrivo narrativa ordinaria per contribuire a sostentare la mia passione per la fantascienza”. La concezione del “ciclo della cultura” di Iain M. Banks racchiude invenzioni e idee che sembrano i fondamenti concettuali dell’ecosistema societario di Elon Musk. Da xAI e Neuralink a SpaceX, Tesla Motors, Starlink Services e the Boring Company. Banks ha tratto la coerente visione complessiva di un futuro lontano che non è solo acuta e geniale, ma anche abbastanza suggestiva e affascinante da fare da stella polare a imprenditori, ingegneri e progettisti: ha consentito loro di essere certi che tutte le minime scelte che compiono giorno dopo giorno saranno anche coerenti con un futuro che può trascendere l’arco della loro vita, ma che possono ancora aiutare a raggiungere, se l’insieme delle loro scelte contribuisce con coerenza a un futuro migliore che superi e vada oltre ciò che si può fare oggi.
Le nostre scelte di progettisti devono essere radicate in valori e principi che trascendono i particolari pratici delle richieste, del budget e dei programmi dei committenti. Il nostro lavoro deve essere coerente con le nostre basi umanistiche e filosofiche. Se filosofia ed etica possono essere la nostra base, la fantascienza può essere la nostra meta. L’opera di grandi pensatori creativi come Gibson, Coupland, Dick, Robinson, Vinge e Banks può fare da vettore intellettuale di riferimento per la nostra specifica prospettiva. Il nostro lavoro dev’essere radicato nei valori del nostro patrimonio culturale, ma mirare alla nostra visione del futuro lontano. Da dove veniamo e dove stiamo andando. Se la storia ci aiuta a capire e ad apprezzare il modo in cui siamo arrivati fin qui, la storia del futuro ci aiuta a configurare il punto dove ci occorre arrivare. Di colpo, si capisce allora che la fantascienza non è un puro passatempo o una forma di intrattenimento, ma la fondamentale pratica della formulazione di futuri possibili e, attraverso la narrazione, dello sviluppo dei problemi e delle potenzialità di questi futuri, in modo che si possa trarre beneficio innumerevoli volte dal fallimento o dal successo del nostro immaginario collettivo nella narrativa, prima di impegnarci come architetti a dar forma a quei futuri e a trasformare la narrativa in realtà.
Immagine di apertura: Bjarke Ingels. Foto Sofie Mathiassen