In una pagina illuminante del suo Filosofia della casa Emanuele Coccia racconta un episodio che gli è capitato in uno dei numerosi e ripetuti traslochi che hanno segnato gli anni più recenti della sua vita.
Non è possibile vivere in una casa vuota
Nella progettazione delle case, gli architetti oggi spesso dimenticano un elemento fondamentale: le cose. A partire dalle riflessioni di Sottsass e Coccia, ci siamo chiesti se siano le case ad aver bisogno degli oggetti, o viceversa.
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- Silvana Annicchiarico
- 23 marzo 2022
Chiamato a insegnare a Friburgo, Coccia prende in affitto un open space enorme e di gran pregio, con un oblò rosso – scrive – “che trasformava l’angolo cucina in una stazione spaziale sospesa nel cielo”. Firma il contratto, prende possesso delle chiavi, ma mentre si dirige verso casa si accorge che la sua carta di credito ha smesso di funzionare. Ha un po’ di contanti in tasca e sulle prime non si preoccupa più di tanto. Ma non ha fatto i conti con un problema: la casa è vuota. “Non c’era nulla: non un letto, non un materasso o una sedia, neppure un piatto o una forchetta. Niente. (…). Avevo immaginato di andare a vivere in un veicolo spaziale e mi ritrovavo nel vuoto dello spazio”.
Per una settimana, Coccia si ritrova a vivere in “un’idea platonica di casa invece che in una casa vera e propria”. L’episodio è interessante perché consente a Coccia di affrontare in modo esperienziale uno dei dilemmi dell’attuale cultura del progetto: sono le case che hanno bisogno degli oggetti o viceversa sono gli oggetti che abbisognano delle case? “In quei giorni – scrive ancora il filosofo – ho capito che lo spazio nella sua purezza geometrica è fisicamente inabitabile”.
Non è possibile vivere in una casa vuota. Senza un letto, senza un tavolo, una sedia, un piatto, una forchetta. Senza cose. La forma-casa in sé e per sé è solo un’astrazione. Noi – sostiene Coccia – abitiamo solo le cose. Sono gli oggetti a ospitare i nostri corpi, ad accudirli, a proteggerli. Come dire: finché è vuota, una casa non è casa. L’architetto ha bisogno del designer, perché è il design a inverare l’architettura, non viceversa. Gli oggetti, le cose, possono vivere anche fuori dalle case, mentre le case senza le cose possono quasi rappresentare una regressione dell’architettura alla geometria. O – paradossalmente – alla metafisica.
Di “case vuote” si occupa anche Ettore Sottsass in un prezioso libretto pubblicato da Adelphi e intitolato – appunto – Di chi sono le case vuote? Il suo approccio però è più sociologico che epistemologico. Quando parla di “casa vuota”, Sottsass pensa a un’abitazione che gli abitanti non possono o non vogliono arredare. Ma le “case vuote”, paradossalmente, non sono quelle dei poveri.
“Le case dei poveri e dei molto poveri – sostiene – di solito sono così piccole, lo spazio è così corto, che la roba (il tavolo, la sedie, il mobiletto, le scatole, gli scatoloni, la bicicletta, la bambola) non ci sta mai, si accatasta, si ammucchia in ogni angolo, come i resti del fiume contro la curva”. Solo i privilegiati, i molto privilegiati, ragiona Sottsass, possono dissimulare il loro privilegio svuotando le loro case dalle cose e facendo finta di essere poveri. Ma è teatro. Messinscena. Nient’altro.
Il fatto è che un tempo gli architetti lo sapevano che case e cose erano necessarie le une alle altre. Lo sapevano e progettavano di conseguenza. Oggi invece molti architetti hanno smesso di pensare alle cose. Contemplano le loro case vuote inebriandosi della loro geometrica purezza. Ma così facendo dimenticano che senza le cose le case sono solo spazi virtuali. Oggi, nel pieno di una guerra di aggressione distruttrice e brutale, ci si rende conto di come sia facile in fondo distruggere le case e i palazzi e le architetture, ma anche di come sia più difficile uccidere le cose. I profughi, gli esuli, i fuggiaschi, non scappano mai a mani vuote. I piccoli oggetti che portano con sé definiscono la loro identità.
Lo diceva anche Sandro Mendini: sono le cose che ci definiscono, e ci consentono di essere quello che siamo.
Immagine in apertura: Camera da letto di Paul su Arrakis, Dune, 2021. Courtesy Warner Bros