Squid Game da sempre gioca con la percezione dello spettatore. Lo faceva nella prima stagione e lo fa anche in questa seconda. Nonostante un paio di episodi iniziali molto interlocutori, in cui scopriamo che il protagonista della prima stagione, Seong Gi-hun, ha trascorso questi anni usando i soldi vinti per trovare le persone che hanno organizzato quei giochi e che, ora che ha rintracciato la persona che seleziona i possibili concorrenti in metropolitana, desidera infiltrarsi per farli fuori, quando la narrazione ingrana e torna a raccontare lo scontro mortale tra persone per denaro, la serie comincia a fondere la storia con i luoghi in cui è ambientata.
Al secondo ciclo narrativo appare ancora più evidente quanto sia cruciale ciò che gli ambienti comunicano a livello inconscio, per arricchire l’intreccio e conferirgli fascino.
Architettura e temi
L’isola in cui si svolgono i giochi e le costruzioni in cui avvengono sono tutti a tema infantile: si tratta di giochi di bambini e anche quelli di questa seconda stagione (molti nuovi, alcuni già visti) sono quella cosa lì: giochi per bambini trasformati in dinamiche mortali. L’estetica e l’arredamento scelti infatti richiamano spesso gli asili. Tuttavia, il design degli ambienti suggerisce un altro significato: quei luoghi che possono sembrare asili sono in realtà prigioni, strutturate in modo tale da distinguere nettamente tra guardie e prigionieri. Ma non solo: osservando i dormitori, emerge una terza interpretazione. Sembrano caserme, e i giocatori sono come soldati, cioè tutti uguali, pedine in attesa di ordini. Queste tre componenti – l’essere pedine, l’infantilizzazione e lo stato di prigionia – sono gli elementi che la serie mescola per costruire il suo fascino, e tutto ciò scaturisce dagli ambienti stessi.
Una ambientazione emblematica
In questo modo, anche la riproposizione delle medesime dinamiche della prima stagione cambia di segno, creando storie e intrecci diversi. Quel luogo iconico, così cruciale per la serie, continua a dominare, tanto che persino il logo di Netflix che precede ogni puntata è stato ridisegnato per richiamare la stanza delle scale. Squid Game insomma possiede una mitologia che è tutta architettonica. Tra la prigione, l’asilo e il magazzino in cui archiviare e immagazzinare esseri umani, quel grande set è il cuore pulsante della serie che sostiene la scrittura. Questa seconda stagione infatti è scritta come la prima e riesce nell’impresa, non facile, di replicarne la tensione verso il finale (almeno dal terzo episodio in poi), grazie al meccanismo dei giochi mortali che rimandano continuamente alla sopravvivenza, alle nuove sfide e a un nuovo rompicapo da risolvere per restare in vita. È il segreto di pulcinella del binge-watching.
L’architettura come comunicazione inconscia
Al secondo ciclo narrativo, però, appare ancora più evidente quanto sia cruciale ciò che gli ambienti comunicano a livello inconscio, per arricchire l’intreccio e conferirgli fascino (e di conseguenza permettere al pubblico di immedesimarsi in alcuni personaggi e provare empatia per loro). Ispirati a tutte quelle costruzioni destinate a ospitare molte persone (prigioni, caserme, asili, scuole, università, dormitori, navi…), le stanze o i cortili di Squid Game costituiscono un compendio delle modalità con cui la nostra società categorizza le persone attraverso la progettazione. Progettare uno spazio come una prigione implica dividere le persone in due categorie (chi sorveglia e chi è sorvegliato), progettarne un altro come un asilo significa indirizzare l’interazione dei presenti, spingendoli a giocare insieme, mentre progettarne ancora uno come un dormitorio militare significa trasmettere l’idea che siano tutti uguali, privi di differenze, pedine di un disegno più grande.
Al secondo ciclo narrativo appare ancora più evidente quanto sia cruciale ciò che gli ambienti comunicano a livello inconscio, per arricchire l’intreccio e conferirgli fascino.
L’uso narrativo degli spazi
Squid Game incorpora tutte queste destinazioni d’uso in momenti diversi, utilizzandole narrativamente a seconda degli scopi di ogni scena. Quando i personaggi discutono sono quasi sempre nei dormitori, quando sono minacciati sono nelle aree simili a prigioni, quando esprimono solidarietà e si aiutano tendono a essere nelle aree simili ad asili. Ognuno è raccontato attraverso la propria personalità, la propria storia e le connessioni che stringono (i bulli, i leader, i militari, la donna incinta, la madre anziana, la persona religiosa, i ribelli, ecc.), ma sono gli ambienti a indirizzare le azioni e le relazioni. Se non dormissero tutti insieme sui letti accatastati, non si creerebbero certe dinamiche relazionali e non ci sarebbe il rischio di accoltellamenti notturni. Se non fossero così separati dalle guardie, scoprirebbero chi sono, e se i giochi non si svolgessero in ampie arene prive di nascondigli, i giocatori non sarebbero altrettanto vulnerabili.
Non si può davvero affermare che Squid Game (sia la prima che la seconda stagione) sia un capolavoro. È un meccanismo narrativo straordinariamente ben eseguito che ha il pregio di dire alcune cose sulla società (pur trattandosi di cose che già sappiamo, ma messe in scena con efficacia), e si ferma lì. Si può però dire che sia un piccolo capolavoro di architettura applicata alla narrazione, grazie all’uso metodico e scientifico dell’arredo e del design per definire i ruoli e i destini dei personaggi. Molti film e serie si affannano a dotarsi di ambienti o costumi caratteristici per essere iconici e unici. Squid Game lo fa certamente (altrimenti non avrebbero ideato le uniformi rosa acceso delle guardie in quel modo), ma compie anche il passo successivo: lascia che gli ambienti richiamino le molteplici modalità con cui viviamo insieme.