Dal 2020 Domus sta cercando – con un’apposita rubrica – di richiamare l’attenzione su di loro. Sono la nuova generazione di designer. Vengono da paesi e culture differenti, non sono tutti strettamente coetanei, in alcuni casi muovono anche da presupposti teorici apparentemente lontani. Eppure, c’è un humus comune che li collega. Una sensibilità diffusa. Un’idea del design come processo e non più solo come prodotto. C’è, soprattutto, la consapevolezza di agire, operare e progettare in un’epoca molto diversa da quella in cui agivano i Maestri, un’era in cui il design sempre più diventa professione di massa.
8 giovani designer che hanno attirato l’attenzione di Domus
Tra innovazione, sperimentazione ed empatia, i nuovi progettisti hanno in comune un’idea del design come processo, non più solo come prodotto.
Foto © Sam Gilbert
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Foto Agnieszka Mazur
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Foto © Mariska Proost
Foto © Sterre ter Beek
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Courtesy Poh Yun Ru
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Courtesy OrtaMiklos
Foto © OrtaMiklos – Friedman Benda
Courtesy OrtaMiklos
Courtesy Ludovico Alves
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- Silvana Annicchiarico
- 14 marzo 2024
Fra i tratti comuni più ricorrenti e capillarmente diffusi in un territorio progettuale molto ampio c’è senz’altro quel filone che tenta di realizzare soluzioni innovative capaci di ridurre, riparare e contenere il malessere sociale e individuale sempre più diffuso. Potremmo definirlo il “design del disagio”: è quello che si esprime ad esempio nelle ricerche dell’olandese Sterre ter Beek (che con il suo progetto Almer cerca di offrire ai malati di Alzheimer un’esperienza sensoriale e forse perfino un rituale memoriale capace di risvegliare e rimettere in funzione le connessioni neurali disattivate) o nel progetto Rewind della giovane designer di Singapore Poh Yun Ru che si propone di aiutare gli anziani afflitti da demenza senile a rievocare i gesti familiari della vita di tutti i giorni e a non perdere del tutto la memoria.
In una direzione analoga va anche Sarah Hossli con le sue poltrone progettate per facilitare il gesto di sedersi e rialzarsi in anziani con difficoltà motorie. La sensibilità verso l’ambiente si esprime invece attraverso la diffusa attenzione per il riuso dei materiali e nella scelta di lavorare con materiali di scarto. La belga Mahaut van Peel, ad esempio, convinta che “la spazzatura di un uomo è il tesoro di un altro uomo”, utilizza le “macerie” altrui per realizzare qualcosa di utilizzabile, mentre la polacca Agnieszka Mazur trita e sminuzza reperti del mare, rimpastandoli poi con collanti diversi, in modo da dar vita a una sorta di atlante materico dei luoghi.
C’è un humus comune che li collega. Una sensibilità diffusa. Un’idea del design come processo e non più solo come prodotto.
Ma c’è anche chi – come il portoghese Ludovico Alves – enfatizza la funzione sociale del design nella convinzione che possa aiutare le persone a pensare, riflettere e sviluppare migliori capacità decisionali, o chi – è il caso del duo OrtaMiklos – pratica il design come performance e guerriglia, bric à brac oggettuale e riassemblaggio defunzionalizzato delle culture contemporanee, o ancora chi – l’italiano Giuseppe Arezzi – riflette sui temi legati all’antropologia e alla sociologia, in relazione alla produzione artigianale e al design industriale, sempre lavorando sulla multifunzionalità, trasformabilità e reversibilità.
In tutti c’è una pulsione evidente alla sperimentazione e all’innovazione, un’attenzione non occasionale alle potenzialità aperte dalle nuove tecnologie, e una sensibilità evidente per i temi dell’inclusione. Sospesi fra materiale e immateriale, consapevoli dell’importanza dell’estetica, visti tutti insieme disegnano una mappa di grande interesse, tanto più stimolante quanto più composta da prassi ed azioni non omologate.
Mahaut Van Peel lavora così: nel suo laboratorio di Bruxelles frantuma gli scarti di marmo raccolti nelle aziende che lo lavorano, li spacca ulteriormente con l’incudine e il martello, poi li miscela e li unisce con un collante composito in modo da creare una gamma di pomoli e pomelli che possono fungere da maniglie delle porte. Ma a Mahaut piace mescolare i frammenti di marmo anche con i residui di altri materiali: polvere di acciaio, riccioli di legno, scarti di produzione di una fabbrica di cristalli.
Convinta che “la spazzatura di un uomo è il tesoro di un altro uomo”, Mahaut – 28 anni, diplomata in Design tessile presso l’Ensav-La Cambre – utilizza le “macerie” altrui per realizzare qualcosa di utilizzabile. La tecnica è simile a quella con cui si realizza il “terrazzo” veneziano (una tipologia di pavimento realizzata con frammenti di pietre naturali e marmi colorati), con la differenza che Mahaut non usa la calce come collante. Alle fine ogni suo pezzo è diverso dagli altri e quindi unico, perché le pietre non sono uniformi e la loro frantumazione è il frutto di un intervento della mano dell’uomo. E proprio questa irregolarità sistematica è – per sua diretta ammissione – la cosa che più apprezza nella sua produzione artigianale.
Duplice la sua fonte di ispirazione: da un lato gli abitanti che vivono lungo il fiume Tagliamento, in Friuli, con la loro pratica di raccogliere i sassi dal letto del fiume per creare i loro splendidi pavimenti; dall’altro lato, la permanenza quotidiana nel Palazzo Bozar di Bruxelles (dove Mahaut lavora di sera), un edificio costruito negli anni Venti del secolo scorso da Victor Horta in uno stile Art Déco, con pavimenti bellissimi che hanno creato in lei una forte suggestione e il desiderio di creare oggi qualcosa di analogo. Il suo atelier a Bruxelles, aperto nel 2021, è il laboratorio in cui tutti i suoi pezzi vengono pensati, progettati e realizzati.
Raccogliere, mescolare, catalogare. Si possono sintetizzare in questi tre verbi il metodo e la prassi progettuale di Agnieszka Mazur e del suo studio (con sede a Eindhoven, nei Paesi Bassi). Di origine polacca, Agnieszka esplora palmo a palmo le spiagge della costa olandese (soprattutto quelle della regione della Zeeland) e raccoglie di tutto: conchiglie, vetrini, pezzi di legno, frammenti di ceramica, alghe, sabbia, pezzi di mattoni. Agnieszka è convinta che l’identità di un luogo risieda nei materiali che lo compongono: per questo studiare i materiali, selezionarli e catalogarli può essere un modo efficace per capire meglio l’ambiente, sia quello naturale sia quello trasformato da tracce di attività antropiche.
Tritando e sminuzzando questi reperti del mare, e rimpastandoli con collanti diversi, Mazur dà vita a una sorta di atlante materico dei luoghi, una vera e propria “biblioteca dell’identità”: i campioni, composti da miscele disparate, variano i colori dalle tonalità più scure a quelle molto chiare e sono fatti da piume di uccelli, corde, reti di pescatori, bottiglie, lattine, rifiuti di plastica, gusci di granchi e tutto ciò che il mare fagocita e poi restituisce. Gli ingredienti provenienti dal mare sono mescolati con collanti organici come gelatina e additivi aggiuntivi per ottenere proprietà distintive come superfici flessibili o texture diversificate. Agnieszka lavora insomma con le nozioni del nascosto, dello scartato, del trascurato e dell’ovvio.
L’obiettivo è mettere in discussione e indagare i significati assegnati ai materiali e la narrazione in cui sono avvolti per sfidare le nostre percezioni abituali e indurci e sperimentare un nuovo modo di rapportarci ai materiali di scarto. Il passo successivo del progetto prevede la realizzazione di oggetti di design che incarnano e fondono sia la ricerca materiale che quella visiva. Questi oggetti – da una lampada fatta con i guschi di mitili a tavolini realizzati con i reperti raccolti – evocheranno il paesaggio marino e saranno veicoli di narrazione legati alla regione da cui provengono i materiali utilizzati.
C’è un filone molto interessante del design contemporaneo che lavora attorno ai nodi della vulnerabilità fisica e psicologica delle persone. Potremmo definirlo “design del disagio” nel senso che tenta di progettare soluzioni innovative capaci di ridurre, riparare e contenere il malessere sociale e individuale sempre più diffuso. Sterre ter Beek - laureata nel 2021 alla Design Academy di Eindhoven – è una giovane designer che si muove in questa direzione: fortemente colpita dall’esperienza del nonno malato di Alzheimer, con il suo progetto Almer ha cercato di offrire al nonno e a tutti quelli che vivono una tragedia analoga alla sua un’esperienza sensoriale e forse perfino un rituale memoriale capace di risvegliare e rimettere in funzione le connessioni neurali disattivate.
Il nome Almer è una contrazione della parola Alzheimer, di cui conserva solo le prime due e le ultime tre lettere, in virtù del fatto che una persona con l'Alzheimer ricorda approssimativamente i primi 2 decenni e gli ultimi 3 minuti. Il progetto prevede la realizzazione di quattro diverse tazze da caffè in ceramica, ciascuna corrispondente a una delle successive fasi dell’Alzheimer: le forme sono ancestrali, evocano matrici medievali, mentre il colore blu è legato alla casa in cui il nonno viveva. Almer cerca di coinvolgere nel rito tutti e cinque i nostri sensi: il suono cristallino di un cucchiaio d’argento contro la porcellana, il profumo e il sapore del caffè, il colore blu della casa e la matericità che si adatta perfettamente alla prensilità delle mani.
L’auspicio è che il rito possa riattivare storie, ricordi e legami che sono andati perduti in qualche angolo del cervello, e che il sovraccarico di sensorialità possa guidare l’inconscio verso i meandri più reconditi. Sterre segue personalmente tutto il processo, anche la realizzazione degli stampi, e presta particolare cura ai dettagli, convinta che in essi si annidano sentimenti ed emozioni da non perdere e da non dimenticare. Nella sua semplicità e tenerezza, è un progetto indicativo della nuova sensibilità che anima il design contemporaneo.
Alzarsi. Sedersi. Gesti banali della vita quotidiana. Meglio: gesti apparentemente banali. Perché per alcune persone un gesto semplice e istintivo come l’alzarsi e il sedersi da soli può presentare criticità e difficoltà. Basta visitare una casa di cura per anziani per rendersene conto. Sarah Hossli, giovane designer elvetica animata da un vivo interesse per gli impatti sociali dei prodotti che crea, ha fatto proprio questo. Ha visitato diverse case di cura e ha osservato lo svolgersi della vita di tutti i giorni, rendendosi conto delle difficoltà insormontabili a cui vanno incontro molte persone anziane o con menomazioni.
Così ha progettato T’Roi: un prototipo di seduta con braccioli estesi, in modo da consentire a chi è seduto di trasferire il peso in avanti per alzarsi in modo indipendente e per non rischiare di perdere l’equilibrio. T’Roi è stata poi testata e collaudata tra i residenti di diverse case di cura, che hanno in genere apprezzato la funzionalità dell’oggetto ma ne hanno criticato l’estetica. Hanno chiesto alla designer una seduta con un’analoga funzionalità, ma più amichevole, calda, accogliente ed elegante. Così è nata Lotte, una poltrona di legno che mantiene le funzionalità di T’Roi ma usa materiali e colori diversi.
"L'errore più grande che i designer possono fare – sostiene Sarah Hossli – è quello di pensare che le persone over 60 perdano interesse per l'estetica e il design”. Non è così: un mondo in cui l’aspettativa di vita cresce rapidamente e la popolazione anziana è sempre più numerosa ci chiede di ripensare i modelli di vita esistenti per adattare non solo le case ma anche gli spazi urbani all’esigenza di garantire che tutti i membri di una comunità possano vivere in modo autosufficiente e indipendente, oltre che mantenere la loro rete di relazioni. I progetti di Sarah Hossli vanno proprio in questa direzione e aiutano il design a ritrovare la sua originaria funzione sociale senza per questo rinunciare a progettare oggetti al tempo stesso poetici e emozionali.
Il brief era chiaro e impegnativo. Chiedeva ai concorrenti di progettare “soluzioni originali che contribuiscono a un domani migliore e migliorano la felicità di tutti”. Poh Yun Ru – giovane designer originaria di Singapore – ha partecipato e ha vinto il Lexus Design Award 2022 con Rewind, un concept che utilizza un display visivo e uno strumento di rilevamento dei movimenti per aiutare gli anziani con problemi di Alzheimer e di demenza senile a rievocare i gesti familiari della vita di tutti i giorni e a non perdere del tutto la memoria. Di fatto, si tratta di uno strumento terapeutico di stimolazione cognitiva: gli utenti sono invitati a imitare attività quotidiane come preparare una tazza di tè, utilizzare un pestello o un mortaio per macinare ingredienti.
Queste azioni si riflettono su un dispositivo audiovisivo collegato che attiva il ricordo di quei gesti, nell’auspicio di arginare o alleviare i sintomi della demenza. Il progetto cerca di interagire con l’aspetto più intimo ed emotivo della vita quotidiana dei pazienti, arrivando a toccare elementi che non sempre i metodi terapeutici attuali riescono a intercettare: Rewind incoraggia cioè comportamenti istintivi che muovono i ricordi in modo immediato ed efficace. Poh Yun Ru è una product designer impegnata socialmente che cerca di creare un impatto positivo sulla società migliorando la vita degli altri. Vivendo in un contesto culturalmente ricco e diversificato, vede il design come una metodologia per sviluppare soluzioni intuitive e inclusive per persone di ogni estrazione sociale.
Il suo progetto – che si è affermato sugli oltre 1700 altri progetti partecipanti e provenienti da tutto il mondo – rientra a pieno titolo in quel design della cura che sta particolarmente a cuore alle nuove generazioni e che vede nel design non solo uno strumento per risolvere problemi pratici, per migliorare il comfort domestico o per abbellire il mondo, ma anche come approccio innovativo per aiutare la vita quotidiana di chi – per i motivi più diversi – si trova a vivere in una condizione di svantaggio.
Sono al contempo iconofili e iconoclasti. Hanno una passione talmente divorante per le icone del passato (quelle del design, ma anche quelle dell’arte contemporanea) che non possono non distorcerle e deformarle. Come hanno fatto con due delle loro opere più significative, Melting Thonet e Melting Breuer: hanno preso due sedie capostipiti nella storia del design – la prima prodotta in serie (la Thonet) e quella che incarna la quintessenza del Bauhaus (la Breuer) – e le hanno sottoposte a una deformazione quasi espressionista.
Per il duo OrtaMiklos (formato dai giovanissimi Leo Orta e Victor Miklos Andersen) il design è al tempo stesso performance e guerriglia, bric à brac oggettuale e riassemblaggio defunzionalizzato delle culture contemporanee. Nei loro lavori ci sono echi del linguaggio dei graffiti come di maestri del design emozionale: non si possono non riconoscere la lezione di Gaetano Pesce o di Verner Panton, come quella dei fratelli Campana o dei gruppi radical italiani, da Archizoom a Memphis e Alchimia. Nessuna concessione alla produzione in serie o al feticcio del funzionalismo. Forme informi. Sperimentazioni materiche (cosa succede versando calcestruzzo umido dentro le calze?). Derive e costruzioni cromatiche.
Nati digitali, cresciuti nell’era del sovraccarico di informazioni e di suggestioni, Orta e Miklos fanno della loro operatività il terminale in cui si scaricano e si mescolano tutte le emergenze dell’iconosfera contemporanea. Nelle loro performance si presentano sempre mascherati, spesso con il viso avvolto in una calza di nylon che distorce i tratti somatici: alfieri dell’identità enigmatica e mutante, a seconda di come li guardi possono sembrare – come è stato notato – laboriosi artigiani o pericolosi sabotatori, scienziati pazzi o modelli di una sfilata di moda. E i loro video sono pastiche selvaggi di immagini prese dal museo o dalla strada, dal presente o dal passato, in un ibrido in cui Kim Kardashian coabita tranquillamente con il David di Michelangelo.
Trasformare un pericolo o una minaccia in un’opportunità. È quello che ha fatto con lo zucchero il giovane designer portoghese Ludovico Alves: nato a Lisbona ma cresciuto nella campagna lusitana, dove i laboratori artigiani della famiglia erano il suo parco giochi infantile, ha scoperto in giovane età di essere diabetico. Ma la scoperta è diventata presto per lui una sfida: invece di vedere nello zucchero solo un elemento potenzialmente dannoso per il suo corpo, e capace di produrre anche effetti distruttivi, ha deciso di fare proprio dello zucchero l’elemento costruttivo centrale nel suo progetto di design.
Così, grazie a un processo di sinterizzazione laser, ha creato una bioplastica a base di zucchero chiamata polimero dell’iperglicemia con cui realizza vere e proprie meraviglie zuccherine: si va dalle sedie super-dolci alle sculture della serie Anthropocorallius, in cui Alves fonde il realismo magico della sua immaginazione progettuale al realismo mondano della sua condizione diabetica. Le sculture possono essere toccate, accarezzate, sfregate, leccate, invitando l’utente a nuove modalità di interazione con l’oggetto.
Tra i prodotti più strani e sorprendenti delle sue collezioni, sicuramente Sugar O’Clock, bizzarro ibrido tra un orologio e le mammelle di una mucca, o anche un maialino zuccheroso che può fungere da simpatico portacandele. In bilico fra design e scultura, il lavoro di Alves ambisce a mettere a fuoco problematicamente questioni economiche, sociali e culturali legate al consumo di zucchero, secondo una visione per cui il design può spingere le persone a pensare, riflettere e sviluppare migliori capacità decisionali. Se tutte le persone diabetiche del mondo – ama ripetere Alves – si riunissero in un unico paese, questa ipotetica Diabetìa sarebbe il terzo stato più grande del mondo, dopo Cina e India: giusto per rilevare anche la dimensione quantitativa delle persone potenzialmente interessate al suo lavoro, alle sue creazioni e alle sue provocazioni.
Un oggetto polifunzionale per arredare uno spazio abitativo minimo: quelle piccole abitazioni di poco più di 10 mq (le cosiddette “chambres de bonne”, le camere della servitù), ricavate nei sottotetti dei palazzi parigini dei primi dell’800, oggi spesso occupate da studenti. Giuseppe Arezzi – siciliano di nascita ma milanese d’adozione – ha progettato Binomio proprio per questo spazio. E l’ha pensato come prototipo di arredo ibrido, con tre piani d’appoggio posti a tre diverse altezze in modo da potersi offrire di volta in volta come scrittoio o come spogliatoio, ma anche come appendiabiti, panca, tavolinetto o perfino come inginocchiatoio.
Al contempo rigoroso e visionario, con un approccio progettuale che scaturisce da un’attenta analisi socio-antropologica, Arezzi appartiene a quella generazione di designer che riesplora antiche tradizioni artigianali per dare risposte originali ai bisogni della contemporaneità.