Passiamo tempo ad almanaccare e a interrogarci su dove stia andando il design, su quali siano le scene o gli eventi, o le design week dove di volta in volta si costruirà il prossimo capitolo. Perdere il fuoco della situazione è il minimo che ci possa capitare. Parlarne con chi invece tutto questo lo sta facendo – sia il prodotto, sia la riflessione, sia la scena – è quello che può venire in nostro soccorso.
Sabine Marcelis non ha bisogno di presentazioni: va aggiunto solo che quest’anno è stata host della Design Biennale Rotterdam.

Le scene locali hanno molto da dire
L’evento non nasce attorno a una scuola come accade invece ad Eindhoven, epicentro della Dutch Design Week; Rotterdam è più sviluppata come scena architettonica. Intanto però non solo esiste, ma si definisce più per attitudine che per estetica: in termini di design, è una scena del making. “Hai un’idea, proverai in tutti i modi a farla diventare realtà”. Nasce come da un processo di osmosi: non aveva molto da offrire in partenza, come locali o altro, c’era anzi molto spazio fisico a disposizione, e c’era la vicinanza alle industrie di una città portuale di prima importanza, industrie facili da coinvolgere nella produzione di nuovo design.
Sei in un caffè in Thailandia, e potresti essere in Australia, ed è tristissimo. Per questo dobbiamo promuovere quello che c’è di unico nelle scene locali
Fare una biennale di design a Rotterdam ha permesso a tanti creativi presenti nella città, ma sempre impegnati a esporre altrove, di mostrare il loro lavoro nell’ambiente che lo ha generato, quindi ha permesso ad una scena locale di guardarsi allo specchio e comprendere la propria identità: “Non c’è una singola estetica, o qualcosa di incanalabile in un trend”, dice Marcelis, ed è quello che a lei piace. È una scena generosa, estremamente diversificata, internazionale – “probabilmente neanche un terzo di chi ci lavora è olandese” – e capace di resistere alle negatività che il mercato globale impone al design: “C’è una tendenza del mondo a trasformarsi in un'unica estetica perché tutto è così visibile. Sei in un caffè in Thailandia, e potresti essere in Australia, ed è tristissimo. Per questo dobbiamo promuovere quello che c’è di unico nelle scene locali”.

Questa città fatta di grandi superfici industriali o pubbliche spesso dismesse è riuscita a mettere a sistema design e location, facendo di questi due concetti qualcosa di concreto, diverso dalla macchina del “location hype” cui ormai siamo abituati. La mostra “This is us” – col titolo che arriva dritto dall’inno del Fejenoord, la squadra di calcio locale – dentro il grande hub modernista del Groot Handelsgebouw, è quella che per Marcelis meglio ha riassunto il carattere peculiare della scena, come ha fatto Johannes Offerhaus riscrivendo l’idea di intimità coi suoi tessuti mobili dentro gli spazi della Katoenhuis; poi c’è stata la mostra curata da Barry Llewellyn dentro il W70 dedicata alle nuove prospettive dell’ornamento, che per Marcelis ha saputo dare “un senso di libertà in un mondo così pesante, dove anche il design è diventato un luogo pesante”.

Gesti semplici, invenzioni e pochi materiali
Già. Perché è innegabile che a minare quelle basi di comunità, scambio e sperimentazione che hanno davvero creato le scene, a Rotterdam come a Milano o a Berlino, sia arrivato ogni tipo di difficoltà. Uno sta nell’insostenibilità economica delle città, dove dieci anni fa ci si poteva non preoccupare degli affitti, che ora invece sono principale ostacolo di ogni esistenza: “Stiamo perdendo quel momento all'inizio della carriera in cui si può progettare liberamente, esplorare e divertirsi” dice Marcelis, anche ammettendo che “forse così si coltivano altri modi, molto più innovativi, di progettare”. Poi ce n’è un altro che sta nell’industry vera e propria, ed è la grande facilità di creare design fatto di immagini, generabili in AI e totalmente scollate da qualsiasi processo produttivo: “Se perdiamo il contatto con il modo in cui si ottimizza l'uso dei macchinari o di un processo, allora perderemo molti modi intelligenti di progettare. Il tipo di design che mi piace è quello in cui capisci che il processo produttivo è stato una forza trainante, che il suo uso intelligente ha plasmato l'estetica, il linguaggio formale. E spero di poterne vedere molto di più”.

Per lei che ha fatto del “disrupting the industry”, dell’inserirsi nei processi di produzione e cambiarli sperimentando, una sfida sempre accettata (perché “il ‘no’ non è un’opzione”), questi sono punti nodali nella pratica di una designer: stare vicina alla sfera del making, del processo condiviso di sviluppo dei progetti – tutte le svolte della sua carriera si legano ai momenti di crescita del suo studio, ci dice – e al trovare nuovi modi di esprimerli. D’altro canto, quando le chiediamo quali icone lei abbia come riferimento, subito ci nomina la Panton chair (“un’avanguardia per la produzione, una vera invenzione”) ma anche lo specchio “3 to 5 seconds” creato da Jenny Nordberg con un singolo splash d’argento su una lastra di vetro: “Così semplice, un solo gesto e con così poco materiale si crea ogni volta un oggetto unico”.

...e Milano?
E con la Design Week di Milano in arrivo? Che scena è quella dove parteciperà, lei ormai al suo decimo fuorisalone? Una scena messa a dura prova da quando è iniziata l’era Airbnb, ci dice Marcelis, da un afflusso smisurato di pubblico e dalle code infinite, “e penso che nessuno dovrebbe passare del tempo in coda per vedere qualcosa”. Dove tutto sembra continuare a gridare “go big”, sembra esserci bisogno di riorientare lo sguardo. “Il rischio è che, quando tutto deve essere così grande e impattante, allora certi oggetti o gesti di design che sono sottili, piccoli, si perdano un po' nel circo. E invece c’è una tale bellezza nelle sottigliezze!”.
Infatti è su qualcosa di piccolo che lei ha scelto di concentrarsi per la settimana del design milanese del 2025, e ancora una volta è una sfida all’industry: vediamo se le cose piccole riusciranno ad avere la meglio sul circo.

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