Una volta Gillo Dorfles per parlare del design ha usato un aggettivo che mi ha molto colpito.
L’ha definito scottante. “Nulla è più scottante del design”, ha detto.
Ora, questo aggettivo si presta a due accezioni possibili: quella alla lettera rinvia all’idea di arroventato, bollente, ardente; quella metaforica suggerisce invece qualcosa che si impone all’attenzione per urgenza, gravità o attualità. Entrambe le accezioni colgono un aspetto specifico e caratterizzante del design: da un lato la sua capacità di assorbire e rendere la temperatura emotiva di un’epoca, di surriscaldarsi fino a diventare rovente, dall’altro lato la sua capacità di dare risposte immediate ai problemi urgenti della vita quotidiana.
Mi piace l’idea che il design sia qualcosa che scotta. Qualcosa che comunica non solo alla vista ma anche al tatto. Qualcosa che è difficile da maneggiare, incasellare, catalogare. Una cosa che scotta non riesci neppure a prenderla in mano. E il design non siamo ancora riusciti a prenderlo in mano, a definirne i contorni, a tracciarne una storia condivisa. Per questo, di fronte a una domanda solo apparentemente semplice e diretta come “Che cos’è il design?” credo che l’unica risposta plausibile e non contestabile sia quella tautologica.
Il design è il design. Punto.
Un po’ come Godard diceva che il cinema è il cinema.
Il design è il design nel senso che è tutto ciò che le culture e le società umane hanno chiamato design.
Perché ci sia design, insomma, ci deve essere progetto. Vero e condivisibile. Ma [...] chi stabilisce se un progetto è buono o non lo è? Con quali criteri, quali griglie, quali metri di giudizio?
Risposta troppo vasta? Troppo vaga? Troppo inclusiva e pervasiva?
Forse. Ma tutti coloro che hanno cercato con le lance acuminate dei loro raffinati sistemi concettuali di infilzare e definire univocamente tutto il design, una volta per tutte e per sempre, hanno fallito miseramente. Perché si sono trovati a dover constatare ogni volta come il design esondasse dalle loro gabbie definitorie, tracimasse oltre i loro schemi, invadesse territori inattesi e si manifestasse anche là dove loro non avevano previsto si potesse manifestare. Noi stessi abbiamo posto la domanda “Cos’è il design?” ad alcuni dei più importanti designer contemporanei e le risposte sono state eterogenee e discordanti: un mosaico di punti di vista e di convinzioni che va ad arricchire e a raccontare in modo caleidoscopico la magmaticità della disciplina.
Forse allora prima di chiedersi “cos’è il design?” bisognerebbe forse chiedersi “dov’è il design?”. Dove agisce, dove interviene, dove opera.
Provare a individuare la sua presenza, la sua azione, la sua capacità di incidere e modificare lo stato delle cose.
Non può essere circoscritto entro confini rigidi, il design. Non lo si può ingabbiare dentro mappe troppo strette. Non lo si può etichettare. Perché il design è dinamico. Genera cambiamenti e trasformazioni, e così facendo cambia e modifica anche se stesso. Il suo statuto disciplinare è mobile, perennemente in evoluzione.
Quando dirigevo il Triennale Design Museum della Triennale di Milano, fondato nel 2007, ho progettato e realizzato ben 11 edizioni del Museo del design italiano, cercando di dare ogni volta una risposta diversa alla medesima domanda di partenza. Che è poi quella da cui ha preso le mosse anche questa riflessione.
Quando è nato il design? C’è chi lo fa risalire al secondo dopoguerra, chi alla rivoluzione industriale, chi ancora a Christopher Dresser, chi a Gutenberg, chi ai Futuristi, chi all’animismo pompeiano, chi all’epoca etrusca. E c’è perfino chi dice che il diritto romano è a suo modo, ante litteram, un capolavoro di design. Vogliamo parlare delle modalità di produzione? Qual è quella canonica e connotativa del design? La grande serie? La piccola serie? La serie limitata? Se il design implica, come vorrebbero alcune teorie, la produzione seriale, come la mettiamo con i tanti pezzi unici o con i prototipi che pure fanno parte a pieno titolo della storia del design? Un prodotto di design deve essere fatto necessariamente a macchina? E se c’è l’ausilio della mano dell’uomo?
E il rapporto fra design e artigianato?
Qualcuno ha provato a rispondere alla domanda individuando settori produttivi e di mercato di cui il design sarebbe il motore generativo: ma anche qui le tipologie riconducibili al gesto generativo del design sono talmente diverse ed eterogenee (dal furniture alla grafica, dall’automobile alla comunicazione, dall’illuminazione ai servizi, dal food al gioco) da rendere improduttiva o non esauriente ogni eventuale teoria basata su questa ipotesi.
Dunque, il design è il design.
Dorfles – che alcune riflessioni imprescindibili sul tema ce le ha regalate – sosteneva che un oggetto può essere considerato design se è tale da adempiere non solo a una funzione pratico-utilitaria ma anche a una funzione estetica. Utile e bello, insomma, secondo lui sono inscindibili negli oggetti di design. E aggiungeva che affinché si possa parlare di design è necessario che sia rinvenibile una forte componente di progettazione.
Perché ci sia design, insomma, ci deve essere progetto. Vero e condivisibile. Ma bisognerebbe fare un passo ulteriore e dire che ci deve essere un progetto buono. Quanto design è frutto di un progetto che forse sarebbe meglio che non ci fosse? Ma anche qui: chi stabilisce se un progetto è buono o non lo è? Con quali criteri, quali griglie, quali metri di giudizio?
In ogni caso, progetto e progettare vengono dal latino e significano “gettare avanti”, guardare oltre. Se ci atteniamo alla storia e alle sue lezioni, possiamo dunque dire che un buon progetto è quello che non solo è in grado di dare una risposta funzionale ai bisogni esistenti ma che sa anche captare e prefigurare bisogni ancora latenti ma in via di formazione nel corpo sociale. Design è cultura del progetto che sa essere visionaria, che sa vedere oltre, che è in anticipo sui tempi, che disegna scenari futuri. Nella seconda metà del ’900 il design è stato sostanzialmente questo. Ha fatto questo. Ha dato un contributo decisivo alla democratizzazione della cultura materiale e alla diffusione del benessere nella vita di tutti. Oggi – diventato una professione di massa in una società che fatica a progettare un futuro e che sembra non aver più bisogni che non siano già soddisfatti a priori – il design è diventato altro: più che progettare il futuro deve rendere sostenibile il presente. Deve veicolare processi di eticità, e responsabilità nell’uso delle risorse. Deve diffondere e far circolare idee che rendano le persone più consapevoli dell’uso che fanno degli oggetti, dei beni, delle risorse disponibili. È ancora il design del ‘900 o è diventato un’altra cosa?
Di nuovo: il design è il design. Intuitivamente capiamo tutti cos’è, razionalmente fatichiamo a trovare una formula che sintetizzi le sue molteplici funzioni e articolazioni. Ma forse è proprio questa sua ricchezza, questa sua polivalenza, questa sua congenita transdisciplinarità, questa sua capacità di dialogare con altre discipline (dall’arte all’artigianato) senza confondersi con esse, questa sua capacità di adattarsi ai tempi e di cambiare incessantemente pur restando fedele a se stesso, questo suo essere fluido e mutante ma non effimero, questo suo essere sempre lì a chiederci di dirgli e dirci che cos’è pur sapendo che una risposta univoca non c’è, a fare del design una delle forme/discipline/pratiche progettuali più contemporanee, più necessarie, più in sintonia con il difficile e complesso spirito del nostro tempo.
Immagine di apertura: CUCULA, mobili della Proposta per un’autoprogettazione in vendita a Berlino. © Verena Bruening, image courtesy of S27 – Art and Education