La riflessione del design sulle proprie pratiche e funzioni diventa protagonista negli anni ’60, stimolata dall’attivismo politico e dalle proteste studentesche del periodo. È infatti nelle università, in particolare quelle di Firenze e Torino, che si sviluppano le basi del Radical Design, un movimento eterogeneo, caratterizzato dalla disillusione nei confronti degli ideali del modernismo e dalla volontà di operare una riforma radicale della disciplina, che ne privilegiasse la dimensione critica.
Quando il design è critico: l’eredità del Radical Design in 20 progetti
Dagli anni Sessanta a oggi, una selezione di progetti che mettono in discussione il ruolo della disciplina e il suo impatto sulla società.
Foto: Bara dell’aldilà con cella a combustibile microbica
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- Rei Morozumi
- 08 settembre 2022
Si sviluppano progetti che non rispondono alle regole dell’industria ma che mirano a esprimere un’idea, interpretando gli oggetti come veicolo di un messaggio critico. Con estetiche sempre provocatorie e spesso volutamente kitsch, i progetti sono volti a stimolare la riflessione e a creare dibattito su temi sociali ritenuti fondamentali. Consacrato dalla mostra “Italy, the new Domestic Landscapes” al MoMA di New York nel 1972, l’anno successivo il Radical design crea i Global Tools, laboratori finalizzati alla formulazione di una base teorica comune. Questo passaggio, scrive Ugo La Pietra in un articolo pubblicato su Domus nel 1978, “segnò l’apoteosi e morte del design radical italiano”, che infatti come movimento si scioglierà in quegli anni.
La riflessione del Radical design torna in altre forme negli anni ’90, quando si riafferma una progettazione critica che mette in discussione anche sé stessa. E, di nuovo, sono scuole e università i laboratori di sperimentazione e creazione.
I progetti del collettivo Droog sono una critica alla cultura del consumo, con un approccio che si interroga sul contesto degli oggetti prodotti, rigenerando e rinnovando il senso delle cose e agendo, come commentò Mendini, “con grande libertà rispetto all’industria e ai meccanismi economici”. La maggior parte dei membri viene dalla Design Academy di Eindhoven.
A cavallo tra i due millenni, Dunne & Raby, docenti del Royal College of Arts di Londra (RCA), teorizzano in questa prospettiva il Critical Design e, qualche anno dopo, lo Speculative Design. Attraverso pubblicazioni teoriche e alcuni dei progetti più iconici di questo approccio, i due autori sottolineano la necessità per il design di operare al di fuori dei vincoli delle pratiche industriali, per evitare di perdere credibilità e ridursi ad agente della società capitalista.
Il Critical Design, dicono gli stessi Dunne e Raby, è un “un modo di usare il design come medium per sfidare congetture, preconcetti e idee scontate sul ruolo dei prodotti nella vita quotidiana”. Non crea infatti oggetti utili, ma progetti utopici e distopici, con l'intento di far riflettere l’utente e stimolare dibattiti sulle implicazioni sociali, culturali ed etiche di prodotti e tecnologie. Oggi emergenze come il cambiamento climatico o le conseguenze di certe tecnologie continuano a interrogare il design sulla sua pratica e sulla sua funzione.
Uno dei progetti più rappresentativi del Radical design, Monumento continuo visualizza, con l’esagerazione e l’utopia, fenomeni reali come la natura artificiale del territorio e il dominio delle leggi del mercato. Consiste in un’architettura modulare quadrettata potenzialmente infinita e rappresentata tramite fotomontaggi, che si espande in varie capitali e luoghi del mondo, fondendo natura e città. Un “modello architettonico per l’urbanizzazione totale”, ma allo stesso tempo anti-architettonico. Molto celebre è “New York Redevelopment. Extension of Central Park”, in cui la griglia si articola in modo da coesistere con i grattacieli di Manhattan. Nella sua evoluzione successiva, “Supersuperficie”, la griglia forma invece una pianura sconfinata, un paesaggio nuovo in cui l’uomo conduce una vita priva di architetture e sostenuta soltanto da tecnologia e oggetti. Il progetto interroga quindi sulle strutture formali della società e sull’omologazione tecnologica e culturale.
Il gruppo Archizoom si approccia ai temi del territorio non con i classici metodi dell’urbanistica ma con immagini che mettono in luce l’urbanizzazione quasi totale di un globo, nel quale sparisce l’opposizione tra artificio e natura, tra città e campagna. Il progetto consiste in un sistema omogeneo ripetibile che rende obsolete le normali articolazioni urbane in strade, piazze, isolati, ecc., e nel quale lo spazio vuoto tra edifici e città è riempito da elementi d’arredo. È il designer, quindi, e non l’architetto o l’urbanista a progettare l’ambiente attraverso un sistema di oggetti aperti, che danno libertà all’utente. La “No-Stop-City” è rappresentata nei disegni come una griglia neutra che copre lo spazio, interrotta solamente all’orizzonte da paesaggi naturali. Le fotografie, invece, ritraggono spazi infiniti in cui gli uomini vivono nella totale mancanza di urbanistica e di architettura, in un mondo popolato solo da oggetti come elettrodomestici e motociclette.
Il Commutatore, progetto che Ugo La Pietra sviluppa nella sua ricerca sullo spazio urbano, è costituito da due tavole di legno unite ad angolo. Appoggiandosi a uno dei due pannelli dall'inclinazione regolabile, l’utente sposta il proprio baricentro e sperimenta così nuove percezioni che lo portano a osservare il mondo “da un’altra angolazione”. Il progetto, che ha l’obiettivo di permettere all’utente di riappropriarsi simbolicamente degli spazi urbani, è stato definito da La Pietra un “modello di comprensione”, uno “strumento per decifrare e proporre” che da solo riassume tutta la sua ricerca sullo spazio urbano
Ispirandosi a una fotografia di turisti seduti su colonne tronche nell'Acropoli di Atene, con la sedia Capitello Studio 65 trasforma sia la funzione sia il simbolismo della colonna ionica, in un'operazione democratica che la sottrae alle élite e la dona alle masse sotto forma di seduta in schiuma poliuretanica. L’attività di Studio 65 è caratterizzata da uno stile postmoderno, con prodotti ironici che si rifanno al neo-classicismo e alla Pop Art. Il gruppo è stato tra i più efficaci pionieri nel privilegiare la fantasia e il messaggio rispetto alla funzione, e questo progetto è un classico esempio del rifiuto dei dogmi del modernismo da parte del Radical Design.
Opera di Mendini, figura chiave del Design radicale, Lassù appartiene alla serie degli “oggetti a uso spirituale”, che mettono in discussione la funzione dell’oggetto, emancipandolo dall’idea d’uso intrinseca nella sua natura. Protagonista del progetto è infatti una sedia idealizzata posta su un piedistallo e quindi privata della sua funzione di seduta. Inoltre, all’opera viene dato fuoco in una performance di valore simbolico e rituale che lascia tracce sull’oggetto, evocando l’idea della sua morte e conferendogli così una dimensione umana che stimola la riflessione sulla natura transitoria che accomuna cose e uomini. Il progetto è stato realizzato in più versioni, delle quali la più celebre è un'immagine fotografica della linea di prodotti Bracciodiferro per Cassina, in cui Mendini brucia una versione di Lassù arredata con gradini.
Chest of drawers – You Can’t lay down your memory di Tejo Remy, che assieme a Hella Jongerius e Marcel Wanders fu tra i primi membri di Droog, è uno degli oggetti più iconici del gruppo, esposto nei più importanti musei di settore come il MoMA. È composto da una serie di vecchi cassetti collezionati dal designer e legati assieme con una fascia di cuoio per ottenere una cassettiera “nuova”, che defamiliarizza un oggetto formato da componenti e materiali tradizionali per creare un prodotto che non si ripete mai nella stessa forma e colore, poiché i cassetti sono sempre diversi, e possono essere rimossi e riorganizzati liberamente. Chiaramente il fine ultimo del prodotto non è la produzione industriale, ma la proposta di una critica alla cultura del consumo e dell’eccesso di produzione tramite l’utilizzo poetico di oggetti vecchi e della loro nostalgia intrinseca.
Faraday Chair, il primo progetto presentato nell’ambito del Critical Design da Dunne e Raby, è un mobile che protegge dai campi elettromagnetici che invadono le case. Appare come una sorta di daybed che costringe l’utente a mantenere la posizione fetale, nonostante per i progettisti rientri nella tipologia di prodotto “sedia”, per sottolineare che quando entra in campo l’elettromagnetismo, la nostra concezione degli oggetti può essere modificata. Il progetto venne fotografato anziché ripreso in video, perché, secondo gli autori, le rappresentazioni di momenti singoli e fissi avrebbero permesso di dare maggiore enfasi alla vulnerabilità dell’utente, concedendogli anche maggiore libertà di immaginazione. Lo scopo della Faraday Chair è attirare l’attenzione sul mondo elettromagnetico, invisibile ma straordinariamente popolato, stimolando la riflessione sulle implicazioni della presenza costante di radiazioni.
The Vice/Virtue Glass series è stata prodotta inizialmente per il “Glassmanifest” di Leerdam in Olanda e successivamente esposta al MoMA, nella mostra “Design and Violence” curata da Paola Antonelli nel 2013. La serie ha l’obiettivo di esplorare, con dark humor, le contraddizioni culturali del nostro comportamento nei confronti delle dipendenze e dei farmaci, ed è composta di bicchieri riprogettati per soddisfare bisogni legati alla salute e all’edonismo. Tra questi bicchieri c’è ad esempio il Dispensary, in vetro soffiato e con un comparto appositamente progettato per il Prozac, l’Exhaust, sempre in vetro soffiato e con un comparto per le sigarette, e il Fountain, il cui design integra un ago ipodermico.
Progetto sviluppato da Studio Nucleo, collettivo di Torino diretto da Piergiorgio Robino e attivo nel campo del design, arte contemporanea e architettura. Il progetto vuole mettere in luce come l'evoluzione dei processi produttivi generi prodotti “alieni” sempre meno comprensibili da parte dell’utente comune. Secondo gli autori il modo migliore per comprendere un oggetto e per entrare in intimità con esso è partecipare alla sua costruzione. Terra! consiste nel telaio di cartone di una seduta, che sarà poi completato dall’utente ricoprendolo di terra e semi. Quando dai semi crescerà l'erba, la struttura diventerà di fatto parte del paesaggio. Per la copertura possono essere usati svariati materiali, naturali e non, come cemento o neve, a seconda del paesaggio in cui il prodotto è inserito.
La serie Smoke nasce nel 2002 come progetto di laurea alla DAE, per poi essere messa in produzione dal brand olandese Moooi nel 2003. Baas trasforma oggetti di arredo in legno di seconda mano, facendoli propri con una tecnica particolare: gli oggetti vengono bruciati con la fiamma ossidrica, preservando le fragili superfici carbonizzate attraverso l’applicazione di strati multipli di resina epossidica trasparente, e rivestendo o riparando, se necessario, i pezzi in modo da mantenerne la funzione originale. Il progetto enfatizza quindi la personalizzazione di oggetti d'arredo esistenti piuttosto che la loro creazione da zero, valorizzando la loro storia e l'intervento umano nei processi di produzione, sottolineando quindi la loro differenza rispetto agli oggetti industriali, impeccabili e identici per definizione.
Cow Bench di Julia Lohmann, designer e ricercatrice tedesca laureata al RCA, indaga le contraddizioni del rapporto tra uomo e animali esplorando “la soglia tra animale e materiale”. Il progetto, definito dall’autrice “Memento mori” bovino, consiste in una serie di sedute imbottite e rivestite in pelle, la cui forma rappresenta la mucca che fornisce la pelle, ricollegando così concettualmente il materiale all’animale che ne è all’origine. Testa e zampe non sono presenti poiché sono le prime parti dell’animale rimosse al macello, mentre la struttura interna richiama le costole e la spina dorsale. Ogni seduta è rivestita con la pelle di un’unica mucca che viene posizionata esattamente com’era nell’animale e utilizzata per intero, senza rimuovere eventuali rughe, cicatrici e imperfezioni. Come non vogliamo che il cibo ci ricordi l'animale che lo fornisce, ci disturba che un materiale ci ricordi la sua provenienza.
Fossili moderni è un progetto che vede la realizzazione di mobili utilizzando contenitori e oggetti di riciclo, trasformati in vani di forma, dimensione, colore e orientamento diversi. La casualità che deriva dai materiali di riciclo disponibili, quindi, ha un ruolo fondamentale nel processo di produzione: è l'elemento che determina il design dell’oggetto e che lo rende un pezzo unico. Il concetto di riciclo su cui si fonda il sistema ideato da questo progetto affronta la tematica relativa all’allungamento della vita degli oggetti, attribuendo loro significati diversi da quelli originali, modificando il loro aspetto estetico e funzionale, migliorando ed esaltando le loro qualità formali. La riflessione ecologica sulla sostenibilità è sostenuta in chiave critica anche dal nome del progetto: i fossili sono l'unico manifesto che ci rimane delle civiltà del passato e quindi, guardando un fossile moderno, ci dobbiamo chiedere che cosa lasceremo ai nostri posteri.
In 100 chairs in 100 days Martino Gamper, designer Italiano formatosi al RCA, ha raccolto vecchie sedie nelle strade di Londra e nelle case di amici, per disassemblare e riassemblare gli elementi strutturali ed estetici di prodotti esistenti e dare vita a nuove sedute dalle forme stranianti, poetiche e ironiche. Il progetto, apparentemente di creatività illimitata, è in realtà soggetto alle forti restrizioni imposte da materiali, lavorazioni e tempistiche. Combinando aspetti formali e funzionali con aspetti sociologici e semiotici, il suo scopo è mettere in discussione l'idea dell’intrinseca superiorità del pezzo unico e dimostrare la difficoltà di giudicare oggettivamente il design. In questo progetto, per esempio, il valore delle storie delle vecchie sedie incorporate nel nuovo prodotto ha la stessa dignità dello stile e della funzione.
Design for an Overpopulated Planet, No. 1, Foragers, uno dei progetti più rappresentativi dello Speculative Design, trae ispirazione da una ricerca dell’ONU sulla necessità di incrementare drasticamente la produzione alimentare per soddisfare i bisogni della popolazione globale nei prossimi 40 anni. Consiste nella rappresentazione di un “futuro possibile” in cui, dato il fallimento delle istituzioni e dell’industria nel risolvere il problema dell’insufficienza alimentare, la gente dovrà trovare da sola una soluzione, in base alle conoscenze disponibili. Gli oggetti che compongono il progetto sono tratti gastrointestinali esterni al corpo che, utilizzando la biologia sintetica e prendendo ispirazione dal mondo animale, estraggono dall’ambiente circostante e digeriscono elementi nutritivi non commestibili. Con un approccio “bottom-up”, questi device vengono progettati e utilizzati da gruppi di persone per massimizzare i valori nutrizionali disponibili nell’ambiente urbano.
Progetto di tesi al RCA, nasce dalla domanda: cosa sarebbe successo se David Attenborough fosse stato un Industrial Designer anziché un documentarista naturalista? Mantenendo il forte rapporto con la natura, il progetto esplora come alcuni comportamenti animali possano essere inglobati nei prodotti tecnologici, diventando istinti di sopravvivenza e auto-protezione del prodotto stesso. Il fine è perseguire prospettive sostenibili per allungare la vita di un prodotto elettronico. Tra gli oggetti progettati ci sono la Gesunfheit radio, una radio che “starnutisce” periodicamente per eliminare la polvere che si deposita al suo interno, e Floppy Legs, un lettore di floppy disk che rileva la presenza di liquidi e si difende da essi alzandosi, in modo da non compromettere l’hardware. Queste caratteristiche, oltre ad avere un aspetto funzionale, mostrano somiglianze con i comportamenti degli animali che creano un forte legame emozionale tra gli oggetti e l’utente.
In United Micro Kingdoms, Dunne e Raby esplorano l’impatto che diversi sistemi ideologici hanno sulla vita quotidiana. Individuano infatti quattro scenari corrispondenti a quattro micro-regni di un’ipotetica Inghilterra futura, abitati da altrettante popolazioni con ideologie diverse (Digitarians, Anarcho-evolutionists, Communo-nuclarists, Bioliberals). Ogni scenario è rappresentato da un mezzo di trasporto che incarna l’ideologia, i valori e le priorità di ciascun micro-regno e attraverso il quale gli autori dimostrano come le diverse conformazioni politiche e valoriali generino soluzioni diverse per lo stesso bisogno. Esempi sono le Digicars per i Digitarians, che si guidano da sole con tragitti e tariffe calcolate da algoritmi, e gli Anarcho-evolutionist, essi stessi veicoli, poiché tramite tecniche di biohacking fai da te modificano il proprio corpo e la natura circostante, muovendosi per mezzo della forza umana o di animali geneticamente modificati.
Nato dalla collaborazione tra l’antropologa e curatrice Ewa Klekot e la ceramista Arkadiusz Szwed sul tema del rapporto tra intelligenze artificiali e lavoro umano, il progetto ha lo scopo di ribadire il ruolo dell’uomo, della sua esperienza e intuizione, nella dinamica dell’industrializzazione. Consiste in una collezione da tavola in porcellana sui cui componenti sono impresse le impronte delle mani degli artigiani che li hanno prodotti, lasciate sull’argilla con guanti immersi in una soluzione di sale di cobalto. Grazie a questo minerale, dopo la cottura le impronte diventano blu scuro, creando pattern randomici e astratti. Il progetto ha lo scopo di celebrare il ruolo delle mani degli artigiani nella catena di produzione, enfatizzando la presenza umana a "rischio estinzione”. Il progetto People From The Porcelain Factory, realizzato nella più antica fabbrica di porcellana in Polonia, si completa con altri media, includendo fotografie dei lavoratori, un breve film e degli scritti.
Il progetto, commissionato dalla NGV Triennal di Melbourne e presentato alla XXII Triennale di Milano, consiste in una ricerca sul riciclo dei rifiuti sviluppata dal duo italiano Formafantasma (Andrea Trimarchi e Simone Faresin, entrambi laureati alla DAE). Al centro il problema dei rifiuti elettronici, inviati in paesi in via di sviluppo dove le condizioni non permettono di garantire un corretto smaltimento. L’installazione si avvale di diversi media. Presenta infatti elementi fisici, quali oggetti per uffici sviluppati a partire da pezzi di scocche di prodotti elettronici, invitando a riflettere sul tema dell’estrazione di superficie e sul ruolo del design nel trasformare risorse naturali in prodotti desiderabili. La parte video ha invece lo scopo di fornire strategie globali su una progettazione che tenga in maggior conto la questione del riciclo, alternando interviste a professionisti del settore con indicazioni progettuali volte a migliorare il processo di recupero.
Il progetto, presentato al Graduate Show della DAE nel 2018, affronta il problema del surriscaldamento globale e della sua correlazione con il rapido innalzamento delle acque attraverso una sedia in legno che viene rialzata tramite dei blocchetti per permettere di sedersi sopra il livello del mare. La prima versione fu calibrata su Rotterdam, la città natale dell’autore, situata per il 90% sotto il livello del mare. L’utilizzo dei blocchetti permette di regolare l’altezza della sedia in base alle diverse altezze dell’acqua, offrendo una visualizzazione diretta e tangibile delle conseguenze del cambiamento climatico. L’aspetto estetico dei blocchetti e la loro collocazione sfalsata sono stati pensati dal designer per dare l’idea del panico con cui la sedia viene adattata alle maree. Su una delle gambe, inoltre, è fissato un indicatore in ottone che richiama le targhe poste sugli edifici olandesi per segnare la differenza tra l’altezza della terra e il livello del mare.
Smogware è una collezione di ceramiche volta a sensibilizzare sul problema dell’inquinamento nelle città contemporanee, rendendo tangibile la scarsa qualità dell’aria che respiriamo. La decorazione delle ceramiche è infatti data da uno smalto realizzato con le comuni particelle dell'inquinamento atmosferico, raccolte su diverse superfici della città e trasformate in smalto senza utilizzare additivi o coloranti. Il primo smalto è stato realizzato con la polvere raccolta a Rotterdam, mentre altre collezioni riflettono l’inquinamento di città come Londra, Milano, Pechino e Jakarta. I colori e l’opacità degli smalti che si vengono a formare variano a seconda della composizione chimica e della quantità degli inquinanti atmosferici dei diversi luoghi e tempi di raccolta, e costituiscono una visualizzazione concreta del deterioramento dell'aria che respiriamo.