In Arizona, al Museo di Arte Contemporanea di Tucson la mostra dal suggestivo titolo “Meeting the Clouds Halfway” riunisce i lavori dello studio di architettura sperimentale Aranda\Lasch (Benjamin Aranda e Chris Lasch) e dell’artista Terrol Dew Johnson. La curatrice Alexandra Cunningham Cameron, di base a New York, ha dato una forte direzione concettuale al progetto facendo emergere la lunga collaborazione dello studio Johnson, membro della tribù dei Tohono O’odham – meglio conosciuta come “gli uomini del deserto”.
Meeting the Clouds Halfway
Al MOCA di Tucson, i pezzi nati dalla collaborazione tra Aranda\Lasch e l’artista Terrol Dew Johnson rappresentano una sintesi tra l’artigianato tipico delle popolazioni native e il mondo di oggi.
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- Maria Cristina Didero
- 14 novembre 2016
- Tucson
I pezzi in mostra rappresentano una sintesi personale e contemporanea tra l’artigianato tipico delle popolazioni native e il mondo di oggi, arricchiti da una solida componente estetica e filtrati dal particolare approccio concettuale proprio dello studio di base a Brooklyn e a Tucson. Un esempio tra tutti l’interpretazione ed elaborazione del tradizionale cestino (elemento caratteristico dell’opera di Johnson che ha imparato quest’arte quando aveva 10 anni) realizzato con materiali esclusivamente provenienti dal deserto e con una tecnica atipica, vicina a un rituale meditativo e toccante, dove mente e mano lavorano all’unisono.
La popolazione dei Tohono O’odham, indigena della regione del deserto di Sonora che si estende fino al Messico, ha dovuto fare fronte a cambiamenti climatici importanti che, negli anni, hanno generato specifiche strategie progettuali per i loro artefatti; operazione questa che richiede di distillare l’armonia e combinarla con la forza della natura, cercare la funzionalità estrema e l’equilibrio in oggetti iconici capaci di soddisfare i bisogni primari della tribù – e soprattutto che durino nel tempo. La longevità insieme alla delicatezza creativa sono caratteristiche essenziali di questa nuova produzione (che include, oltre a cestini, panche elaborate e un grande cupola realizzata in una particolare ceramica chiamata ferrock) concepita a sei mani dagli in occasione di questa mostra. Si tratta di oggetti semplici ma carichi di significato, ispirati al deserto e al peso del tempo, della storia e delle fatiche umane. Materiali come pietra, rame, legno ed erba sono i protagonisti di questo progetto dalla forte valenza sociale che intende restituire un messaggio positivo e confermare, ancora una volta, che l’interazione tra culture diverse non solo è possibile ma auspicabile, e che la diversità va solo celebrata.
Maria Cristina Didero: Come è nato il progetto? Aranda\Lasch: per qualche tempo abbiamo condotto ricerche sulla produzione di ceste dei nativi americani. La nostra prima mostra in una galleria risale al 2006, all’Artist Space di New York, su invito del curatore Christian Rattemeyer. Chris Lasch aveva da poco visitato il National Museum of the American Indian e aveva visto uno dei cesti di Terrol Dew Johnson. Colpito, cercò di contattare Terrol per chiedergli se voleva lavorare con noi alla mostra dell’Artists Space: per caso Molly McKnight, moglie di Chris, conosceva uno che conosceva un altro che stava lavorando con Terrol a un libro di cucina sulla cucina dei nativi. Intitolammo la mostra “Rules of Exchange” (“Regole di scambio”) e realizzammo un bel po’ di cesti sperimentali in cui il nostro interesse per i sistemi basati su regole si univa alla conoscenza pratica dei materiali di Terrol. Poi il Museum of Modern Art acquistò gli originali di quei cesti perché li considerava una combinazione di artigianato e tecnologia. Dieci anni dopo fummo invitati ad allestire la nostra prima mostra personale in un museo, e anche questa volta chiedemmo a Terrol di realizzare insieme qualche cesto.
Maria Cristina Didero: Mi piace l’idea che questa mostra implichi una collaborazione culturale ibrida: qual è il messaggio che affidate a questo progetto e come avete condotto il lavoro insieme con Terrol Dew Johnson? Aranda\Lasch: Mettiamo in contatto la pratica dell’intreccio della tradizione nativoamericana con la nostra professionalità di architetti, perché pensiamo che condividano gli stessi fondamenti. L’intreccio è una pratica materiale si svolge attraverso un rituale. È un’attività iterativa e sociale, e attraverso l’iterazione dà schemi decorativi e struttura a materiali semplici per ottenere artefatti culturali complessi. L’architettura può essere vista in gran parte nella stessa prospettiva.
Maria Cristina Didero: Hai detto che è il risultato di una ricerca di lungo periodo sul tema: puoi raccontarci qualche episodio di questa ricerca? Aranda\Lasch: Il punto di svolta di questo progetto fu quando, dieci anni fa, chiedemmo a Terrol quale fosse la definizione di ‘cesto’. Rispose che un cesto è qualcosa che crea un dialogo. La pratica della creazione dei cesti – disse – è intrinsecamente sociale, è un’attività che crea occasioni di dialogo tra le persone che li realizzano. Pensava anche che certi cesti entrassero in dialogo con altri perché ne condividevano attributi e materiali. Queste definizioni per noi sono state una rivelazione. Secondo Terrol il cesto riguarda, più che l’oggetto in sé, i rapporti intorno all’oggetto. Questo ci permette di riflettere sull’idea di che cosa possa essere un cesto. E ci permette che di riflettere sulla nostra idea di che cosa possa essere l’architettura. Sono passati dieci anni ma ancora, su questo scambio, la pensiamo allo stesso modo.
Maria Cristina Didero: In che modo, in questa mostra, il design contemporaneo si fonde con l’artigianato dei nativi? Aranda\Lasch: La tradizionale tecnica dell’intreccio della tribù Tohono O’odham consiste nell’avvolgimento e i loro cesti, a paragone di altre tecniche che usano la fibra, dal punto di vista espressivo sono modesti. La colorazione usa una gamma di terre derivanti da materiali naturali, gli schemi decorativi sono creati dallo stesso processo di avvolgimento e la forma dei cesti rispecchia in astratto i profili di piante del deserto. Non c’è nulla di obbligatorio; è tutto intrinseco al processo, come se il deserto acquistasse nuova vita nelle mani di chi intreccia.
Maria Cristina Didero: L’avvolgimento è cruciale… Aranda\Lasch: La spirale è la chiave per comprendere la mostra. Il gesto di avvolgere inizia in un punto centrale intorno al quale si avvolge il materiale, allargandosi e alzandosi a spirale in curve concentriche, fino a quando la struttura è completa. Da subito abbiamo scelto gli avvolgimenti tridimensionali, in modo che, alla fine, invece di ottenere delle superfici avremmo avuto delle strutture aperte. Come cornici spaziali per indirizzare le spire nello spazio e farle tornare su se stesse abbiamo usato delle dime. Molte delle opere in mostra sono costruite intorno a questo avvolgimento tridimensionale, forma tanto pratica quanto simbolica. Per i Tohono O’odham i cesti adottano la spirale come strategia strutturale per creare un oggetto funzionale, ma anche come rituale che collega l’artigiano alla comunità, agli antenati e al deserto.
Maria Cristina Didero: Parlaci dell’allestimento della mostra: come saranno esposti gli oggetti? Aranda\Lasch: Il museo è di per se stesso un bell’esempio di attenta architettura del deserto. La mostra sarà allestita nello spazio principale di un edificio neobrutalista, ex caserma dei pompieri con un orientamento solare passivo e una struttura di calcestruzzo gettato in loco che crea una consistente massa termica. Inoltre non possiede condizionamento d’aria. È lo scenario adatto a questo lavoro e a un dialogo sulle soluzioni di lungo periodo per l’edilizia nel deserto.
Maria Cristina Didero: Mi pare che il titolo sia molto poetico. Come ci siete arrivati e qual è il suo significato? Aranda\Lasch: L’ha pensato Terrol Dew Johnson e, per spiegarlo con le sue parole, “tradizionalmente i Tohono O’odham, per raccogliere i frutti rosso rubino dei cactus saguaro, alti come torri, usano delle bacchette fatte con le costolature interne della stessa pianta. Alzandosi nel cielo il kuipad (utensile fatto di materiali naturali) “tira giù le nuvole” e contribuisce a portare la pioggia nell’arido deserto di Sonora. L’incontro tra le persone, il deserto e le nuvole nasce dalla mediazione del kuipad. In “Meeting the Clouds Halfway” analizziamo l’incontro tra le persone e la natura, le fibre naturali del deserto e i materiali moderni creati dalle persone. Queste creazioni sono una combinazione di tecniche antiche e di nuove prospettive. Insieme, si incontrano a mezza strada con le nuvole”.
Maria Cristina Didero: Secondo te qual è la condizione attuale dei nativi americani? Aranda\Lasch: Le comunità native come i Tohono O’odham certamente sono a rischio. Non dispongono di cose che noialtri diamo per scontate. Ma producono talenti brillanti come Terrol Dew Johnson, i cui risultati artistici e la cui militanza diffondono la consapevolezza della ricchezza della loro cultura e delle cruciali sfide sociali che affrontano. L’intreccio delle ceste è solo una parte della più vasta attività di Terrol, che comprende creatività, organizzazione comunitaria, salute e istruzione. Per esempio Terrol, per trovare materiali per le sue ceste, gira continuamente per il deserto, cosa che fa parte della tradizionale attività di ricerca di questa attività. Amplificando questa tradizione Terrol nel 2009 ha marciato dal Maine all’Arizona nel quadro di The Walk Home: A Journey to Native Wellness (“Il cammino verso casa: un percorso verso la salute dei nativi”), con lo scopo di diffondere la consapevolezza della crisi del diabete nelle comunità dei nativi. Inoltre gestisce una comunità di base, la O’odham Community Action (TOCA), creata per realizzare progetti sulla base dell’O’odham himdag, lo “stile di vita del popolo del deserto”.
Maria Cristina Didero: Quali sono le vostre reazioni di fronte a queste cose? Aranda\Lasch: Come architetti le consideriamo fonte di ispirazione: come far apparire qualcosa dal deserto, come trasmettere la tradizione da una generazione all’altra pur continuando a inventare, e come riuscire a creare bellezza da un contesto difficile.
Maria Cristina Didero: Mi pare di capire che la mostra comprenderà architettura, arredamento e un libro. Aranda\Lasch: Nel corso della mostra presenteremo un nuovo libro sul nostro lavoro, intitolato Trace Elements, pubblicato da Columbia Books on Architecture and the City.
Maria Cristina Didero: Mi piace questo cortocircuito tra “funzionale” e “rituale”: come siete riusciti a renderlo nella mostra? Aranda\Lasch: La ritualità spesso viene considerata un’attività profonda e spirituale, ma può anche essere molto banale. Il caffè del mattino, la passeggiata intorno all’isolato sono abitudini che trovano eco nella vita di tutti e si innalzano al livello del rito attraverso l’iterazione. Quel che ci interessa è questa idea di ripetizione significativa e il modo di organizzarsi intorno a essa. Gli architetti, per sintetizzare la forma, usano i requisiti funzionali, ma noi preferiamo il rito perché descrive le occupazioni umane in modo codificato ma non generico né sovradeterminato. Un rito è sempre specifico. Più in generale il nostro studio si interessa al rapporto tra i sistemi di progettazione basati su regole e sul loro modo di interagire con i rituali umani. Sostanzialmente questa mostra presenta gli artefatti del deserto di Sonora creati attraverso i riti e dimostra, attraverso questa lente, come il deserto sia fonte di ricche pratiche materiali in continua evoluzione. Per usare le parole di Jocko Weyland, primo curatore del MOCA, “Meeting the Clouds Halfway è l’acme dell’impegno di lungo periodo che Aranda\Lasch e Terrol Dew Johnson hanno dedicato alla comunità locale dei Tohono O’odham”.
© riproduzione riservata
fino al 29 gennaio 2017
Aranda\Lasch and Terrol Dew Johnson: Meeting the Clouds Halfway
MOCA Tucson
265 South Church Avenue, Tucson
Curatore: Alexandra Cunningham Cameron