Negli ultimi diciotto anni o giù di lì, mentre i designer erano alle prese con stampa 3D, ciclo di vita e riciclaggio dei prodotti, impronte ecologiche e dollari Linden, l'artigianato si è silenziosamente insinuato non solo nel dibattito teorico, ma anche nella pratica del design. Con artigianato—l'inglese crafts—non intendiamo qui l'abilità artigianale di costruire software (il codecraft) dei programmatori, né il macchinare di hacker digitali e post-digitali (a questo proposito rimandiamo al nostro saggio sul Thinkering, in Domus 948). Facciamo piuttosto riferimento ai designer che sanno sporcarsi le mani, cosa che per alcuni significa anche ripulire la coscienza.
La densa storia dell'artigianato torna ad allinearsi ai tempi—con il suo antagonismo nei confronti della produzione di serie e le sue implicazioni sociali—legandosi alle nuove condizioni del mondo e del mercato, a partire da una generale consapevolezza della crisi ambientale per arrivare al tentativo di fissare il prezzo e vendere il design in modo da renderlo più appetibile per i collezionisti d'arte. Sul tema, inoltre, abbondano mostre e conferenze: tra le più recenti ricordiamo la straordinaria The Power of Making del 2011 al Victoria and Albert Museum di Londra, a cura di Daniel Charny, e il convegno Me Craft/You Industry, lanciato da Jurgen Bey e organizzato da Premsela e dal Netherlands Institute for Design and Fashion allo Zuiderzeemuseum di Enkhuizen (a fine gennaio) per celebrare la mostra Industrious|Artefacts: The Evolution of Crafts.
States of design 11: Design fatto a mano
Negli ultimi vent'anni, l'artigianato è tornato a insinuarsi con forza crescente nel dibattito teorico e nella pratica del design, legandosi alle nuove condizioni del mondo e del mercato. Ripercorrerne fasi e artefatti, aiuta a comprendere un fenomeno fondamentale per il design e la cultura contemporanei.
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- Paola Antonelli
- 26 marzo 2012
- New York
La scelta di proposte provenienti da Gran Bretagna e Olanda non è casuale, perché i due Paesi rappresentano l'epicentro del Crafts Renaissance, il rinascimento dell'artigianato. Del resto, proprio in Gran Bretagna, dove l'ingegneria strutturale è considerata quasi un ramo dell'estetica e l'arte della ceramica ha precorso la rivoluzione industriale—nella famose fabbriche Wedgwood del XVIII secolo—abilità manuale e produzione standardizzata si sono confrontate, ma anche scontrate, in modo produttivo. La Gran Bretagna è il primo luogo in cui la meccanizzazione si è affermata, e dove i suoi limiti e i suoi potenziali sono stati messi in discussione prima che altrove. Nella seconda metà del XIX secolo il terremoto della rivoluzione industriale aveva momentaneamente separato il processo del "buon design" da quello di produzione. La questione dell'etica nel design e nella produzione era stata sollevata dal movimento Arts and Crafts; e i suoi protagonisti, William Morris in particolare, avevano tracciato, a futura memoria, un'oscillazione ideale, e per certi versi moralmente inflessibile, tra due estermi. Sul versante virtuoso di tale moto oscillatorio sedeva l'artigiano, produttore indipendente di idee e maestro illuminato di bellezza e probità. Sull'altro veniva collocato il produttore su scala industriale, mero attuatore di ciò che è brutto e cattivo, manipolatore dei materiali contro la loro stessa natura.
Ma spostiamoci velocemente alla fine del XX secolo, quando questa visione polarizzata del creare oggetti si è ripresentata a informare le azioni del designer. In Olanda, in particolare, fin dall'arrivo di Droog Design, a metà anni Novanta, l'artigianato è stato fatto coincidere con il bisogno di un rapporto più radicato, più ragionato e responsabile con l'ambiente costruito. Non solo un dry design, ma anche una specie di slow design. L'importanza di una dimensione mentale, spirituale e sensuale nell'architettura e nel design—un concetto vecchio quanto l'uomo che era andato momentaneamente perduto con la propaganda persuasiva del razionalismo—è oggi un dato riconosciuto. Ci sono tuttavia molte altre ragioni che rendono oggi importante l'artigianato, alcune legate a motivi di opportunismo. I prodotti fatti a mano sono ancora percepiti come portatori di maggior valore, sia culturale sia economico. E se alcune gallerie private, come kreo a Parigi e Libby Sellers a Londra, sono state e sono determinanti nell'offrire a designer promettenti e affermati l'opportunità di testare nuove idee in un ambiente capace di offrire sostegno e sicurezza, altri hanno spinto i designer a offrire costose "serie limitate" di oggetti fatti a mano come prototipi per la produzione industriale. A volte, questi designer hanno accettato persino di produrre i loro oggetti all'interno di manifestazioni artistiche a guisa di performance, glorificando l'autenticità del processo allo scopo di elevare il mero design allo status di arte—e di poter chiedere prezzi più alti. Senza dubbio una mossa regressiva.
L'artigianato, tuttavia, può essere squisitamente progressivo. Una delle considerazioni più interessanti riguardo alla sua importanza nel panorama odierno ha a che fare con i materiali avanzati. La mia prima mostra al MoMA, Mutant Materials in Contemporary Design (1995), apparve all'inizio di un'era di resine composte e avanzate, di ceramiche ultra-performanti e impiallacciature di legno dolce, di acciai superelastici e memory foam, quando il design giapponese, con numerose mostre, era diventato la pietra di paragone—tra queste la gioiosa Making Things di Issey Miyake nel 1998—, a celebrare il matrimonio tra artigianato e alta tecnologia. Ma la sperimentazione, sia high sia low-tech, richiede un approccio molto pratico. Il design contemporaneo è una composizione molto interessante ad alto e basso contenuto tecnologico. Così, per dominare questo brave new world, questo mondo nuovo e audace, una formazione tradizionale basata sulla conoscenza diretta delle tecniche artigianali è estremamente utile.
Nella seconda metà degli anni Novanta, la capacità artigianale non poteva più essere considerata reazionaria, dato che i materiali avanzati—come le fibre aramidiche della Knotted Chair di Marcel Wanders, nella quale una rete da pesca annodata è bloccata nella forma voluta da un bagno di resina, o ancora la fibra di vetro della Knitted Lamp di Hella Jongerius, nella quale le lampadine sono coperte da un tessuto elastico traslucido bianco simile a una calza—possono essere personalizzati e adattati dagli stessi designer. Alcuni, in realtà, richiedono un intervento manuale, proprio come molti materiali low-tech di riciclo. L'evoluzione del ruolo della tecnologia ha portato alla ribalta in forme inattese molte culture locali, un ritorno catartico alle radici del fare che richiama alla mente l'indimenticabile mostra curata da Bernard Rudofsky al MoMA nel 1964, la splendida Architecture Without Architects. Tanto in mostra quanto in catalogo, Rudofsky celebrava l'architettura "vernacolare, anonima, spontanea, indigena, rurale, a seconda dei casi" di tutto il mondo, esprimendo con intensità e passione una tendenza comune che aveva già iniziato a manifestarsi. In molte parti del mondo, architetti e designer hanno usato la tradizione locale per mitigare le conseguenze negative della dominazione modernista, che oggi potremmo rapportare alle conseguenze negative della globalizzazione. Accade così che alcuni Paesi, la cui tradizione materiale è basata sull'artigianato e la cui economia è fondata sulla necessità, vengano considerati come dei nuovi paradigmi in architettura e design. Nel suo editoriale in un numero del 2003 del Prince Claus Fund Journal intitolato The Future is Handmade: the Survival and Innovation of Crafts (Il futuro è fatto a mano: sopravvivenza e innovazione dell'artigianato), il guest editor Iftikhar Dadi scrive: "Le pratiche artigianali oggi si incrociano con le tecniche di produzione seriale. Ma se può sembrare che l'artigianato rappresenti l'antitesi di queste ultime, in realtà il loro rapporto è molto più complesso". Fernando e Humberto Campana, il cui lavoro si è affermato a sua volta nella seconda metà degli anni Novanta, tenevano un album che conteneva la loro versione del concetto di "design senza designer". Quando, nel 1998, il MoMA ha organizzato la mostra che ha segnato la loro prima apparizione negli Stati Uniti, avevano con sé immagini con esempi di architettura e design spontaneo in Brasile: da una scacchiera in equilibrio sulle ginocchia dei giocatori a un improvvisato negozio di scope lungo la strada agli angoli delle strade di São Paulo, fino a una bicicletta su un piedistallo che genera elettricità in una fabbrica nelle campagne del Salvador. Ciò che hanno imparato osservando il mondo circostante ha informato i loro primi lavori: telai in acciaio per sedie con corde di cotone colorato o gomma per innaffiare, pazientemente e amorosamente intrecciate, o verghe di alluminio trattate come bambù. Spingendosi a fondo nella cultura materiale che li ha generati, sono diventati i portavoce ideali tanto del loro Paese quanto della cultura globale.
Un altro solido esempio è rappresentato da Satyendra Pakhalé, che ha studiato in India e in Svizzera, ha lavorato per un periodo alla Philips e oggi vive e lavora ad Amsterdam. Ha grande padronanza del linguaggio globalista del product design, che ha dimostrato nel lavoro con Renault, nel 1997, mentre ancora era alla Philips. Al tempo stesso, lo studio della cultura materiale della natia India ha aggiunto profondità al suo design, anche del tipo industriale. I suoi oggetti stampati utilizzando la fusione a cera persa—in particolare la sedia e lo sgabello Horse—così vicini alla tecnica e al linguaggio degli artigiani indiani, evolvono in nuove linee per clienti come Alessi e Cappellini, linee nelle quali un concept della tradizione viene tradotto in materiali più attuali e in forme più universali, senza perdere la sua essenza. Brasile e India sono grandi Paesi. Per alcuni designer, la tradizione locale è molto più limitata sul piano geografico, ma non in termini d'ispirazione. Dalla loro base a Eindhoven, i Formafantasma, vale a dire Andrea Trimarchi e Simone Farresin —protagonisti di questo numero di Domus—condensano il meglio della formazione al design olandese con una cultura dei materiali molto articolata, che attinge all'arte popolare siciliana. Il loro lavoro, come si può leggere sul loro sito, tocca "questioni di rilievo come… Il rapporto fra tradizione e cultura locale, un approccio critico alla sostenibilità e il significato di oggetti come vettori culturali". Ma scendiamo a sud della Sicilia. Al contrario dei designer occidentali che cercano ispirazione in Africa, negli ultimi tempi numerosi designer africani hanno cominciato ad approfittare della loro tradizione e, sostenuti talvolta da aziende europee come Moroso, a esportarla sul palcoscenico globale. Mentre Giappone e Corea attingono già da tempo dalla loro tradizione per stabilire una forte identità sul piano internazionale, la Cina ha mosso dei passi in questa direzione solo di recente. Al Salone del Mobile 2011, accanto alle mostre degli studenti del Royal College of Art e della Eindhoven Academy—roccaforti della rinascita dell'artigianato—due mostre ospitate nell'area di Lambrate hanno manifestato un sofisticato livello di comprensione di questa evoluzione. Parliamo di Textile Futures, organizzata dalla University of the Arts London Central Saint Martins (rappresentata qui da Andreea Mandrescu) e di Thinking Hands, a cura dell'Industrial Design Department della Bezalel Academy of Arts and Design di Gerusalemme (rappresentata da Talia Mukmel). L'intero mondo del design li sta osservando con attenzione.
Gli esempi più noti e celebrati di questa New Age of Crafts arrivano da designer affermati e influenti come Hella Jongerius e Jurgen Bey: quest'ultimo è tra le voci più critiche e articolate non solo in quanto creatore, ma anche per la sua posizione concettuale nel dibattito intorno al ruolo dell'artigianato nel design contemporaneo. Jongerius e Bey hanno chiaramente ispirato un'intera nuova generazione di "donatori di forme e anima": designer attenti e sorprendenti come Wieki Somers, Nacho Carbonell e Julia Lohmann, solo per nominarne alcuni. In cambio, studenti e designer esordienti hanno trovato una nuova fiducia nelle proprie capacità manuali, una fiducia che permette loro di essere più decisi e assertivi nello scegliere la tecnologia appropriata per ciascuna situazione. L'attività artigianale forma ed educa. Inoltre, è in continua evoluzione. Su una pagina web pubblicata dal V&A, una serie di esperti propone la propria definizione della parola 'artigianato', nel bene e nel male, cliché compresi. Riportiamo quella di Paul Greenhalgh, ex direttore della Corcoran Gallery di Washington: "La parola artigianato ha cambiato significato in modo fondamentale almeno tre volte negli ultimi due secoli, e indica sostanzialmente cose diverse da nazione a nazione, anche nel mondo occidentale. Non può perciò esistere una definizione univoca che identifichi un unico significato globale, dato che non ne possiede uno". Non fa forse pensare a un altro termine altrettanto sfuggente: design? — Paola Antonelli Critico e curatore, MoMA