I grandi interventi residenziali sviluppati attorno alle città francesi a partire dagli anni ‘50, con la loro mancanza di connessioni e servizi hanno dato fisicità alla segregazione, a una percepita discriminazione, già chiara entro pochi anni dalla realizzazione. Quella spaziale non è certo la sola tra le componenti sedimentate nelle città francesi a partire dal secondo dopoguerra, da cui si sono generati scontri violenti come in pochi altri luoghi. Ma è la più visibile: poche componenti infatti hanno quel potere che ha lo spazio, di sancire il successo o l’insuccesso di una politica sociale, di tracciare fisicamente superfici di coesione o linee di segregazione. Oggi quel panorama suburbano è scenario delle proteste seguite all’omicidio di Nahel Merzouk a Nanterre. Come dei moti del 2005, durati per più di un mese, che erano partiti da Clichy-sous-bois, nella periferia orientale di Parigi. L’origine della situazione che periodicamente si mostra difficile da sanare ha una struttura complessa. Già nel 1960 i limiti e le componenti potenzialmente dannose del piano di estensione della metropoli parigina erano visibili, tanto che era stato Claude Parent, l’architetto radicale delle funzioni oblique e della Révolte des villes, a opporre a questo piano una protesta tutt’altro che semplicisticamente anti-moderna, proponendo un'alternativa apparentemente utopica ma quanto mai realistica, basata su quelle componenti di diritto alla città che invece poi, come abbiamo visto, sarebbero puntualmente venute a mancare. Domus dedicava uno spazio e una riflessione a questo tema nel dicembre del 2005, sul numero 887.
Le banlieues parigine e le responsabilità dell’architettura, dall’archivio Domus
Quando già nel 2005 le rivolte urbane avevano infiammato le periferie francesi, l’architettura si interrogava sulla componente fisica, spaziale nel disagio e nella segregazione, criticando il proprio operato disciplinare come già Claude Parent aveva fatto negli anni ’60.
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- Claude Parent e Francesca Cogni
- 04 luglio 2023
La città ribelle
Nel 1960 l’intero comitato di redazione di L’Architecure d’Aujourd’hui chiese di essere ricevuto dal primo ministro Michel Debré per manifestare la propria opposizione al piano di Paul Delouvrier sulle villes nouvelles, la costruzione di nuovi poli urbani nella regione parigina. Il comitato presentò, in alternativa alle edificazioni previste dal governo, la soluzione della cosiddetta “Parigi parallela”, che sosteneva una Parigi Due fortemente concentrata, pari alla Parigi attuale, cui era collegata da mezzi di comunicazione estremamente rapidi. La distanza era dell’ordine di dieci minuti da centro a centro, nella volontà di creare un insieme gemellato con due nuclei, che alla fin fine funzionava come un’entità unica. Il progetto era accompagnato da un dossier molto particolareggiato sui pericoli dell’edilizia residenziale praticata nelle periferie ed era decisamente contrario alle città dormitorio e ai grandi complessi in costruzione.
Quando oggi assistiamo a episodi di rivolta, di saccheggio e di lotta armata nelle nostre periferie, siamo purtroppo costretti a dire che quarantacinque anni dopo le prime turbolenze le stesse cause producono gli stessi effetti in questi ultimi giorni a Parigi.
Già a quei tempi si guardava con sospetto al male di vivere dei giovani, al loro rifiuto di farsi parcheggiare in aree poco attrezzate, prive di mezzi di trasporto sufficienti. Si manifestava insomma uno spirito di rivolta nei confronti del ghetto per le classi meno favorite della popolazione parigina, coperto e incoraggiato invece dal governo come dai politici. Naturalmente certi giornalisti facevano titoli sulla “malattia dei grandi complessi” criticando il risultato architettonico più che le cause del sistema.
Riflesso normale, poiché l’architettura, considerata come un segnale del costume sociale, diviene automaticamente il capro espiatorio delle deviazioni dell’urbano. Riflesso tanto più inquietante in quanto i maggiori architetti dell’epoca, di fronte alla necessità di dare con urgenza un luogo abitabile agli immigrati arruolati massicciamente dalla Repubblica Francese come manodopera per l’industria, si lanciarono anima e corpo in queste edificazioni senza esprimere la benché minima riflessione critica su questa pratica, senza mai lasciarsi sfiorare dal minimo dubbio.
L’urgenza innanzitutto! Quanto al contenuto architettonico bastava pensare sulla falsariga dell’Unité d’Habitation per essere garantiti. Ed eccoli, tutti questi cari signori, andare a nozze con l’industria e far la loro sedicente buona azione ribaltando senza angosce i principi della Carta di Atene. Povero Le Corbusier, usato come paravento di queste nefandezze! Quando oggi assistiamo a episodi di rivolta, di saccheggio e di lotta armata nelle nostre periferie, siamo purtroppo costretti a dire che quarantacinque anni dopo le prime turbolenze le stesse cause producono gli stessi effetti in questi ultimi giorni a Parigi. Certamente la miseria, la precarietà, la disoccupazione endemica sono le cause che stanno all’origine di questi avvenimenti, ma la natura dell’architettura, la sua densità eccessiva, il suo invecchiamento, la mancanza di manutenzione e soprattutto la sua distanza da qualunque centro d’attività degno di questo nome fanno sì che le cause originali divengano esplosive.
Questa edilizia residenziale che si è perpetuata dagli anni Sessanta ai giorni nostri senza modifiche profonde è dunque sempre il responsabile visibile, il segno evidente dell’angoscia urbana: non si tratta di abitare ma solo di immagazzinare. Tuttavia l’incendio di oggi trova la sua causa determinante oltre l’architettura e la sua forma, ha la sua fonte essenziale nell’incarcerazione territoriale. Il vero fattore di questa esplosione è la barriera obbligata che si erge nella regione parigina, tra Parigi e le sue periferie. Nessun trasporto comune, nessuna attività industriale, poco commercio, nessuna attrezzatura per il tempo libero, insomma un deserto pervicacemente costruito, in puri e semplici cubi abitativi, un accumulo di dormitori senza nessuna speranza di vivere in simbiosi con la capitale. Questa convinzione di essere abbandonati, di essere i dimenticati della comunicazione urbana, di essere respinti entro un ghetto, di essere rinchiusi da una tangenziale invalicabile, conduce all’esplosione. Certamente altri fattori come il razzismo latente, la mancanza di considerazione umana, la scomparsa dell’autorità parentale, le reti profondamente strutturate della distribuzione della droga pesano gravemente sugli abitanti e rendono la situazione sempre più ingovernabile. L’architettura ha le spalle larghe, ma non spiega tutto. Se dovesse scoppiare una guerra sarebbe una guerra di territorio. Il fatto grave è che questa situazione di extralegalità viene rivendicata da giovani nati in Francia e, in virtù di questa legittimità geografica, cittadini francesi. Si tratta quindi di una ribellione aperta spinta dal rifiuto di riconoscere i propri doveri di cittadini. E l’architettura che parte ha in tutto questo? Ebbene, due elementi della forma architettonica acuiscono la crisi e impediscono di porvi rimedio. Gli edifici a torre e le stecche a grande altezza hanno il difetto di rendere astratta la vita comunitaria.
In questi complessi gli architetti hanno creduto che concepire grandi vuoti o lunghe prospettive sarebbe bastato a rendere felice la vita. Capita invece che il vuoto urbano indefinito, non utilizzato, sia fonte di disperazione per le popolazioni meno favorite. Per abitare di fronte al vuoto, anche di fronte a un vuoto vegetale, bisogna essere in grado di sviluppare un pensiero strutturato, occorre disporre di forza meditativa: la questione per l’architettura è per forza di cose di natura culturale. Nelle costruzioni che superino i cinque piani, l’abitante perde il contatto diretto con i bambini che giocano ai piedi del palazzo. La sorveglianza dei genitori è totalmente abolita; quanto al contatto sociale esiste solo attraverso la scala o, peggio, l’ascensore. In realtà, questa strada verticale impossibile da sorvegliare non si fa più carico delle relazioni proprie della vita comunitaria, e diventa il supporto della violenza cieca e della sua conseguente impunità. I blocchi sviluppati in lunghezza conservano per immagine e dimensioni di un anonimato assoluto, omologano i luoghi e la vita di ciascuno.
Nessuno, in un’architettura così monotona, può avere la minima possibilità di affermare la propria individualità, di sperimentare la propria differenza. Ma come è stata possibile questa deviazione? Sicuramente per la connivenza degli attori coinvolti: politici, banchieri, grandi amministratori pubblici e privati, imprenditori, centri studi per l'organizzazione del lavoro. Tutti concordi nel distribuire edifici di latta di sardine, tutti in combutta per ridurre al minimo i costi di produzione e l'assistenza psicologica, per addobbare al meglio l'impoverimento degli abitanti, ridurre la superficie utile e sostituire l’economia, come riconosciuta virtù cardinale di pubblico interesse, per sensibilità e libertà di scelta. L’alibi supremo era la sottomissione dell’architettura all'industria nel senso più dispotico e restrittivo, e la cosa spiacevole è che molti architetti sono caduti nella trappola con la loro ben nota ingenuità da boy scout.
Hanno ammannito questo boccone avvelenato alla popolazione indifesa sventolando comfort, sole e igiene. Per concludere questo sciagurato capitolo della architettura francese va aggiunto che ogni dieci anni circa un ministro ben intenzionato si getta freneticamente sull’abitazione individuale e la preconizza come soluzione alternativa a tutti i nostri guai. Tutte queste strategie sono fallite: edilizia di cattiva qualità, dal degrado pressoché immediato, impianti silurati dalla mancanza di credito e di programmi di manutenzione, assenza di sufficienti servizi di collocamento al lavoro. Una catastrofe annunciata e confermata. Quando la smetteremo finalmente di prendere in giro il pubblico per poi distruggerne le (false) speranze di villette unifamiliari? In questa situazione di infelicità permanente e di fronte alla reazione brutale degli abitanti, che il governo non ha previsto, ci siamo sforzati solo di tirare in lungo, come a Vaulx-en-Velin, vicino Lione, qualche anno fa, oppure come a Marsiglia, nei quartieri settentrionali dove la polizia da decine d’anni non entra nemmeno più. Che cosa abbiamo in testa, che proposte possiamo fare?
Prima di tutto, come già si fa, distruggere, definire un programma in funzione dell’urgenza della demolizione di questi quartieri di torri e di stecche, ricollegandoci in questo ai miei scritti premonitori all’epoca così male accolti*.
Distruggere in piena coscienza, con l’obiettivo di risanare e inventare la città futura.
Contemporaneamente allo sviluppo di questa politica di distruzione concertata e pensata:
1. prevedere operazioni non organiche realizzabili e trasformabili nell’immediato;
2. immaginare strutture sostitutive che facciano appello all’immaginazione a lungo termine.
Ciò permetterebbe di non chiudersi nell’urgenza, come al solito, né nel temporaneo, né nel definitivo. Il primo punto non dovrebbe superare i dieci anni, con autodistruzione progressiva e sostituzione parziale secondo le improvvise crisi urbane (elasticità e mobilità). Il secondo punto copre l’arco di un quarantennio, con l’evoluzione dell’architettura, anticipando i cambiamenti sociali. È necessario che la fase dell’effimero o del temporaneo sia molto curata, soprattutto nel lavoro relativo alle infrastrutture - deflusso delle acque meteoriche, allacciamenti, accesso, fognature, rifiuti domestici - il tutto in funzione di una loro grande capacità di flessibilità. Queste sovrastrutture smontabili dovrebbero dare comunque ogni garanzia di isolamento e impermeabilità e implicare la possibilità di modifica immediata e facile (esempio: le tende dei paesi del Circolo polare).
In queste strutture cosiddette leggere, un punto forte – detto ‘cassaforte’ – di calcestruzzo, con una porta blindata, permetterebbe di proteggere i beni più preziosi della famiglia che vi abita. Quanto alle installazioni a lunghissimo termine, destinate a vivere lungo più generazioni, dovrebbero avere la natura di un tessuto urbano continuo, costruito secondo un dato dinamico che tenga conto delle migrazioni generate da nuove regole moderne della distribuzione del lavoro. Flessibilità ed elasticità nella modifica dell’abitazione nel breve termine, soluzioni temporanee, migrazione all’interno di strutture fisse nelle costruzioni a lungo termine. Solo questo discorso può permettere di assecondare il mondo moderno nelle sue crisi, nei suoi scatti, nelle sue modificazioni permanenti e non controllabili dalla politica nei loro effetti di reazione. Si tratta di istituire una manutenzione durevole dello spazio, di organizzare bene i territori per prevenire i cambiamenti del mondo senza per questo subire la demolizione pesante e l’altrettanto pesante ricostruzione di conseguenze che oggi si concatenano nel disordine, nello spreco, a danno soprattutto degli abitanti spinti a delinquere dall’astrattezza dell’architettura, con la sua mancanza di punti di riferimento al suolo e con il suo spirito carcerario che rifiuta l’evoluzione.
* La rèvolte des villes (in Entrelacs de l’oblique, Edition du Moniteur, Paris 1981) e Colère, ou la Nècessitè de dètruire (Michel Schefer, Marseille 1982)
Immagine di apertura: Fontenay-sous-Bois, foto di vmonet su AdobeStock