Per una elegia del dramma: l’eredità di Christian Boltanski

Scomparso pochi giorni fa, a 76 anni, per tutta la sua carriera Christian Boltanski si è fatto carico di raccontare “gli ultimi” del mondo, guardando alla storia del Novecento. Consegnandoci opere, collezionate da tutti i più grandi musei d'arte contemporanea, dove la metafora porta dritta al dolore. 

Monumentale, iconico, autobiografico ma senza parlare necessariamente di se stesso: sono tre aggettivi che aderiscono bene a quella che è stata la personalità di Christian Boltanski, forse il più conosciuto artista francese contemporaneo, scomparso la settimana scorsa a 76 anni. Nato nel 1944, durante l'occupazione nazista la madre (cattolica), nascose per un anno e mezzo il padre (ebreo), sotto il pavimento dell'appartamento parigino dove la famiglia viveva. Il giovane Boltanski, autodidatta, è ovviamente impressionato dalla sua storia d'infanzia, sebbene non vissuta con piena coscienza, e per tutta la vita la sua arte sarà un omaggio agli scomparsi, agli ultimi, alle vittime innocenti, alla perdita, al dolore, al ricordo. 

Christian Boltanski, Anime. Di luogo in luogo, veduta dell'allestimento presso il MAMbo di Bologna, 2017.

La tragedia della Shoah e della morte in generale sono l'orizzonte di opere installative che hanno ricevuto i più alti riconoscimenti mondiali: Boltanski è stato insignito del Premio Imperiale per la scultura nel 2006, sebbene lui stesso si considerasse un pittore; rappresentante della Francia alla Biennale di Venezia nel 2011, con l'installazione Chance, a cura di Jean-Hubert Martin, l'artista ha partecipato anche alle edizioni del 1972 e 1987 di Documenta, la quinquennale di Kassel, la più autorevole e intellettuale manifestazione dedicata all'arte contemporanea a livello mondiale, oltre ad aver avuto una serie infinita di mostre personali nei più importanti musei del mondo, partendo dal Centre Pompidou della sua Parigi. 

In Italia, a Milano, abbiamo potuto vedere una sua “co-creazione” non troppo tempo fa: nel 2018 gli spazi di Pirelli HangarBicocca si riempirono di opere che il pubblico poteva portarsi a casa: era Take Me (I’m yours), collettiva che in quel caso conteneva 56 artisti internazionali di tutte le generazioni. Approdata nei musei di mezzo mondo, il progetto di arte partecipativa che mette in scena la possibilità data al pubblico di interagire con le opere (multipli o replicabili) e di farle sparire, portandosele a casa - ecco il ritorno al filo rosso poetico dell'artista - era nata nel 1995 da un dialogo tra lo stesso Boltanski e Hans-Ulrich Obrist

Monumenta 3, Christian Boltanski al Grand Palais di Paris, 2010. Foto Jean-Pierre Dalbéra su Flickr

Sempre all'Hangar di Milano, qualche anno prima, era stata la volta di Personnes, un riadattamento della monumentale installazione realizzata in occasione di Monumenta 2010, nomen omen, progetto sostenuto dal Ministero della Cultura francese che ogni anno, dal 2007, ha invitato uno dei più grandi artisti globali a confrontarsi con gli smisurati spazi del Grand Palais parigino e a concepire al suo interno un'installazione site specific. I visitatori di Personnes erano accolti – in questa sede - da un muro di metallo arrugginito, scoprendo solo successivamente una distesa di vestiti disposti sul pavimento in rettangoli ben organizzati, e attraversabili; da ognuno di questi arrivava il sonoro di battiti cardiaci amplificati e mescolati. Nella zona più lontana della grande navata, sotto la cupola, un immenso braccio meccanico pescava altri vestiti da un gigantesco mucchio, random, lasciandone cadere alcuni e stringendone altri. All'infinito. 

Non è mai stata una passeggiata scoprire una mostra di Boltanski, indagarla: il suo immaginario era composto davvero delle schegge della storia più buia, e nemmeno troppo metaforico...

Se possibile, però, all'Hangar questo progetto aveva assunto una potenza ancora maggiore: attraverso un lungo camminamento obbligato rischiarato solo da una serie di neon, avvolti da una parete-gabbia e dagli incessanti battiti del cuore amplificati - che Boltanski registrava dal 2008 per il suo Archives du Coeurs - si arrivava al Cubo dove la montagna di indumenti occupava tutta l'area per diversi metri di altezza. E anche qui, ancora, una gru a tirare su, a caso, le vittime, e a sbatterle giù.
Non è mai stata una passeggiata scoprire una mostra di Boltanski, indagarla: il suo immaginario era composto davvero delle schegge della storia più buia, e nemmeno troppo metaforico: l'identità cancellata dei deportati, partendo dal loro denudamento, i battiti delle anime impazzite di paura e dolore, quasi il rumore dei treni merci che partivano da moltissime città d'Europa, per portare a compimento la “Soluzione Finale”. 

Christian Boltanski. “Dopo”, Fondazione Merz, 2015. Foto Andrea Guermani

Un corpus di opere che sono un'apologia del dolore generale, organizzate in maniera sublime. È ancora in Italia, a Bologna, che si trova in permanenza uno dei progetti più riusciti dell'artista francese: l'installazione al Museo per la Memoria di Ustica. Minimale, sorprendente, commovente: 81 luci, numero delle vittime della strage, calano dal soffitto e si accendo e spengono al ritmo di un respiro, contornando i resti del DC9 Itavia che fu abbattuto il 27 giugno 1980 nella tratta Bologna-Palermo, al largo dell'isola di Ustica, appunto. Intorno alla carcassa dell'aereo anche 81 specchi neri: riflettono il pubblico e sussurrano frasi delle vittime, ricordate dai famigliari. 9 grandi casse nere raccolgono, alla rinfusa, gli oggetti personali che sarebbero dovuti appartenere ad ognuno dei passeggeri. 

Capita che gli occhi si facciano lucidi; non è sorprendente, è solo il potere di un'arte che – senza eccessive sovrastrutture, senza concettualismi – porta direttamente alle soglie della storia, e ancora prima a tutto quel dolore che è stato causato da chissà chi, e si è ripercosso su di noi, testimoni involontari e portatori del senso di colpa che appartiene a chi resta.

Immagine di apertura: Christian Boltanski by Juan García from Institut Valencià d'Art Modern.