Dalla retrospettiva del 2013 alla Fondazione Prada di Venezia, curata da Germano Celant, fino alla recente mostra alla Collection Pinault a Parigi, curata da Carolyn Christov-Bakargiev: l’Arte Povera sembra non passare mai di moda. Per capire meglio l'impatto che continua ad avere e i motivi per cui oggi appare più attuale che mai, occorre tornare alle sue radici.
In principio era la guerriglia
La prima volta di quelli che sarebbero diventati “artisti poveri” o “poveristi” fu nel 1967, a Genova, in occasione della mostra organizzata alla Galleria La Bertesca dal proprietario Francesco Masnata e dal giovane critico d'arte Germano Celant. Il termine “Arte Povera” viene impresso su carta poco dopo, nell'articolo “Arte Povera: appunti per una guerriglia” scritto sempre da Celant e pubblicato su Flash Art.
Spesso citato e raramente letto, il testo di Celant ha tutte le caratteristiche di un manifesto, pur senza averne le intenzioni: poco programmatico, colpisce per la lucida lettura del mondo, partendo dal carattere vorace della società dei consumi e arrivando ad anticipare una guerriglia che, con l'avvicinarsi degli anni di piombo, avrebbe effettivamente sconvolto non solo il mondo dell'arte, ma l'intera Italia: L’artista, novello giullare, soddisfa i palati colti. Avuta un’idea, vive per e su di essa. La produzione in serie lo costringe a produrre un unico oggetto che soddisfi, sino all’assuefazione, il mercato. Non gli è permesso creare e abbandonare l’oggetto al suo cammino, deve seguirlo, giustificarlo, immetterlo nei canali. L’artista si sostituisce così alla catena di montaggio. Da stimolo propulsore, da tecnico e specialista della scoperta, diventa ingranaggio del meccanismo.
Il successo internazionale per gli artisti dell’Arte Povera arriva circa due anni dopo, con “When Attitudes Become Form”, la mostra rivelazione organizzata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna che sottolinea similitudini formali e una volontà diffusa da parte degli artisti contemporanei nel decostruire il mondo superando metodi e linguaggi del minimalismo.
In questo i vari artisti che facciamo rientrare sotto il cappello di “arte povera”, e le cui opere oggi hanno quotazioni stratosferiche, si trovavano certamente d'accordo, eppure non formano mai un vero e proprio gruppo di lavoro. Per fare un elenco, stiamo parlando di: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Gilberto Zorio, e, inizialmente, Mario Ceroli, Piero Gilardi, Paolo Icaro, Gianni Piacentino.
Non c'è mai stata nessuna corrente artistica e neppure un vero e proprio 'movimento' nel senso tradizionale del termine. Si trattava piuttosto di uan generazione di creativi accomunati da un forte zeitgeist , una spiccata sensibilità verso la materia e, a volte, semmai, da comuni posizioni politiche.
Non dite che ho inventato l’Arte Povera: è un’espressione così ampia da non significare nulla.
Germano Celant
La definizione di Arte Povera come un movimento di artisti che utilizzano materiali “poveri” – come cemento, eternit e ferro, oltre a terra, acqua e legno – oggi lascia il tempo che trova. Un’Arte Povera intesa in questi termini finisce infatti per significare tutto e niente, e soprattutto significa ben poco in un orizzonte artistico in cui l’impiego di materiali tradizionalmente estranei alle tecniche artistiche è ormai la norma. È una descrizione poco accurata, una semplificazione tanto accessibile da risultare pericolosamente pop e quindi mistificante.
E così, dietro il suo odierno successo, deve esserci dell’altro.
1. Il rifiuto delle definizioni
Più di tutto, si tratta di un’arte indescrivibile, che rifiuta le definizioni, figuriamoci le descrizioni, la cui potenza è esperibile solo davanti all’opera d'arte stessa. L’Arte Povera è pensata per essere vissuta in modo immediato, viscerale. Necessita del contatto diretto con il suo pubblico perché il messaggio venga innescato: non cerca critici, semmai curatori che la aiutino ad andare in scena e, così, a compiersi. Chiede di sporcarsi le mani e riporta all'interazione concreta con il mondo.
2. Il linguaggio inteso come tecnologia
Il presunto rifiuto della “tecnologia” associato all’Arte Povera meriterebbe un capitolo a sé. Le distanze che Celant e gli artisti prendono dal determinismo tecnologico non implicano un abbandono della tecnologia. Al contrario, l’Arte Povera segna una svolta nella storia del linguaggio artistico – una delle tecnologie più antiche, al pari dell'agricoltura. L’obiettivo è opporsi all’arte tradizionale, riducendo l’opera all’essenziale, per una rivoluzione artistica che metta l’uomo al centro e sfugga alle logiche del sistema di produzione. Il metodo, consiste nel semplificare il linguaggio dell’opera fino a ridurlo all’essenziale: solo così si ottiene un’opera davvero contemporanea, e con questa, la rivoluzione.
3. La critica al sistema come sfida all'eternità
È così che nascono i Quadri Specchianti di Pistoletto, specchi rinnovati; gli igloo di Merz, interpretazione contemporanea di una forma primitiva; i mari di Pascali e i planisferi di Boetti, che reinventano proprio ciò che rappresentano. L’Arte Povera, immediata ed effimera, non crea feticci ma inserisce frammenti di realtà in un discorso parallelo, sfidando i valori di conservazione, permanenza e unicità su cui si fonda l'intero sistema dell'arte.
A distanza di decenni l’Arte Povera rimane difficile da conservare, impossibile da riproporre nello stesso modo, testarda e indomabile.
E mentre i suoi creatori cedono alle lusinghe di stampa, musei e fiere, lei continua a osservarci, sorniona, appoggiata su piedistalli o sospesa su immacolati pannelli in cartongesso. Divertita dal riconoscimento del sistema che critica, compie la sua beffa più grande. Ci chiede se una guerriglia, per di più fatta attraverso l’arte, sia davvero ancora possibile oggi.