“Se sei un critico, non parlare di me, parla di questa storia”. Lei è Amanda Piña, artista messicano/cileno/austriaca, e questo è un passaggio cruciale del denso, incalzante j’accuse che apre il suo ultimo spettacolo, Climatic Dances; la storia in questione è quella di una certa montagna delle Ande, luogo simbolico del paesaggio biografico di Piña perché parte della sua storia familiare. Questa montagna oggi è scavata al midollo, avvelenata; l’acqua che ne sgorga ha un colore tossico, racconta. Se il teatro contemporaneo ha sovvertito i canoni della struttura classica, destrutturando funzioni e ruoli, in questo testo d’introduzione – che non è artistico, ma “personale”, sottolinea Amanda Piña – si ritorna a un conflitto essenziale, a una linea di fuoco tra protagonista e antagonista, e la nemesi è Mark Cutifani, Ceo di Anglo American, la multinazionale che ha scavato la montagna; la quale, si legge su internet, vuole “reimmaginare l’estrazione per migliorare la vita delle persone”. L’artista ha visto invece in prima persona quanto la cultura dell’estrazione sia basata sul sacrificio degli altri: vite umane in cambio di materiali più o meno preziosi. Che poi magari sono gli stessi minerali impiegati dalle tecnologie grazie alle quali tu, lettore, stai leggendo questo articolo, ora. Viviamo in un mondo complesso e contraddittorio. E in un futuro che è presente e fantastico.
“Stai con la terra, non consumarla, non estrarre”, è la preghiera di Amanda Piña, prima che le parole lascino spazio allo spettacolo vero e proprio, che dopo la tirata iniziale è tutto immagini e suoni e movimento. Intanto, a Santarcangelo di Romagna, nel palco poco fuori dalla città dove assisto allo spettacolo, il vento è gentile, la notte quasi fresca. Il cielo pieno di stelle.
Per un paio di settimane all’anno da mezzo secolo a questa parte, tutte le estati, questo sonnacchioso paese della Romagna, ritagliato tra due fiumi l’Uso e il Marecchia, un pugno di strade arrampicato sul Monte Giove – che poi è solo un colle e secondo la gente del posto dà nome al celebre vino sangiovese –, questo borgo tipico e bello e antico come tantissimi altri antichi e belli e tipici borghi sono sparsi per la penisola, diventa la capitale del teatro italiano. Nato come festival di strada in anni 100% fricchettoni, Santarcangelo ha vissuto mille destini, vestito mille identità, ma è soprattutto l’epicentro del teatro di quella che parafrasando Manuel Orazi possiamo definire come la città teatrale adriatica, un terreno artisticamente fertilissimo dalla Bologna di Teatrino Clandestino giù fino a Ravenna del Teatro delle Albe e Fanny & Alexander, passando per Societas Raffaello Sanzio e Valdoca (Cesena), Masque (Forlì) e appunto Motus (Rimini), compagnie che dagli anni Novanta hanno fatto vedere che un teatro diverso è possibile anche nell’Italia della lirica e della grande prosa e degli attori mattatori.
Inizia il festival e sembra di stare in un film di Luciano Ligabue in cui ha fatto inaspettatamente irruzione un’avanguardia di personaggi di Cyberpunk 2077, che si giostrano amenamente tra piadinerie e baretti sfoggiando una certa passione per le Birkenstock. Ma la gente del posto è abituata e ricettiva, i local più anziani li senti fuori dai bar che parlano con cognizione di causa e tanta romagnolità di Grand Bois, i tamburi matti di Bluemotion e Fanny & Alexander in collaborazione con Tempo Reale che hanno illuminato di poliritmia e luci blu le strade la sera prima. E poi la sera tutti in piazza Ganganelli, l’approdo principale della cittadina ai piedi del Monte Giove, punto d’inizio e fine di ogni avventura santarcangiolese, a vedere il liscio con la figlia di Raul Casadei, che qui è una semidivinità.
La mattina che incontro per una chiacchierata Enrico Casagrande e Daniela Nicolò di Motus – loro la direzione artistica di questo cinquantesimo Festival di Santarcangelo – i due sono, diremmo noi di Milano, “in sbatti”. È qualcosa che ha a che fare con un impianto audio. Una questione tecnica, ma che nel teatro vuol dire serenità di andare in scena, fiducia nel deus ex machina, tanta roba insomma. Lo sbatti in questione è uno sbatti gestibile e comunque vissuto alla romagnola, senza ansie; e così sull’onda di questo banale episodio mi tuffo dritto nello spirito del festival, con i demiurghi di una delle compagnie di teatro più importanti d’Italia – e tra le nostre più note all’estero – che si mettono 24/7 al servizio degli artisti che hanno invitato qui. Alcuni anche ragazzi alle prime armi. Nella calma di un angolo d’ombra, ricavato sul bordo di una strada pedonale santarcangiolese, sprofondati su un divano, proprio in chiusura della nostra chiacchierata Enrico e Daniela racconteranno che l’idea del curare è forse la cosa più importante che si portano a casa da questo Festival, “mettere a disposizione le nostre conoscenze a favore degli artisti, soprattutto giovani”.
Dopo avere diretto l’edizione del quarantennale, i Motus (qui tutti li chiamano al plurale, come si fa con le band, lo farò anche io) sono stati chiamati a ripetere l’esperienza con quella dei cinquant’anni, che si sarebbe dovuta svolgere nell’estate del 2020. L’arrivo della pandemia li ha incapsulati in una sorta di loop temporale, di cui questa rassegna estiva rappresenta (crediamo) la conclusione e la via d’uscita. Il programma era chiuso a dicembre del 2019, raccontano loro, poi il Covid-19 ha stravolto tutti i piani. La scorsa estate, dopo il durissimo primo lockdown, sono andati in scena 5 giorni di programmazione ripensata solo con compagnie italiane, una rassegna a cui si sono affacciati circa 5000 spettatori. “Senza volere essere patetico, è stata l’occasione per riguardarci in faccia e piangere”, dice Enrico Casagrande.
Il festival a quel punto scommette su una versione invernale. Salta anche quella, sostituita da una proposta interamente su zoom, “ma il teatro è un’altra cosa”, liquida la questione Daniela Nicolò. Intanto, vengono attivate una serie di residenze d’artista, i cui risultati – ottimi – sono in scena quest’estate: un’edizione che è un fiume in piena, una proposta diffusa in undici giornate. Sul volantino del programma, la cui estetica ha un po’ un sapore anni Novanta – mai quanto le grafiche del Padiglione Italia della Biennale, comunque stampato meglio –, di fianco all’anno in corso, il 2021, compare la data simbolo del 2050.
“Per noi il festival è come uno spettacolo, è una drammaturgia”, dicono i Motus. “Nella nostra visione se lo guardi tutto, capirai come i tasselli del mosaico siano tutti collegati”. Un racconto che si snoda negli spettacoli che arrivano da mezzo mondo. “Volevamo lavorare sulle visioni distopiche della fantascienza, un genere di cui siamo fan da sempre”, spiegano Enrico Casagrande e Daniela Nicolò. “Poi nella distopia ci siamo trovati immersi per davvero, con la pandemia”. E quello che doveva essere un festival è diventato una trilogia. “Futuro Fantastico”, che è il titolo di questa rassegna “mutaforme di meduse, cyborg e specie compagne”, viene da un racconto di Isaac Asimov. “Le/gli umane/i devono lottare per la sopravvivenza dell’intera Terra, perché è in essa che sono radicate/i, assieme a tutte le forme di vita organiche, artificiali o non-umane, cyborg, creature altre, mostruose e inappropriate/ibili”, citano i Motus nella guida ufficiale del festival dal testo di Angela Balzano che introduce Le promesse dei mostri di Donna Haraway, filosofia americana del manifesto cyborg, delle identità ibride e del Chtulucene, musa ispiratrice riconosciuta di Santarcangelo 2050. In cui si parla di una cosa soprattutto: del pianeta che abitiamo, e di come lo stiamo abitando (male, ma questo lo sapevamo già).
Gli spettacoli del festival sono cuciti addosso agli spazi in cui vanno in scena, spiega Daniela Nicolò. Sono 15 diverse location, per lo più all’aperto, dallo Sferisterio al colpo d’occhio strepitoso di Nellospazio, con due palchi immersi nella natura del parco Baden-Powell, poi vecchie conoscenze del festival come la scuola Pascucci, lo spot sul fiume Marecchia, Mutonia – il villaggio dei mutoidi, che meriterebbero un discorso a sé, intanto potete fare un giro di Google se non sapete di chi si tratti – fino a Rimini e San Mauro Pascoli. Ogni sera una piccola comunità, sempre coerente con se stessa eppure ma esattamente identica, rimbalza tra una venue e l’altra, si incontra e discute, impara a conoscersi.
Volevamo lavorare sulle visioni distopiche della fantascienza. Poi nella distopia ci siamo trovati immersi per davvero (Motus)
Questo resta un teatro soprattutto per addetti ai lavori, per appassionatissimi, che ne godono nel loro circolo virtuoso. Ed è un peccato. Perché dopo l’isolamento e il lockdown, il teatro appare come una epifania. Una riscoperta necessaria di un altro modo di stare insieme, di provare a guardare alle cose dall’interno di una comunità assemblata spesso dal caso o dall’emergenza. Che sia l’itinerare per il palco di Ondina Quadri in Emilio o il dialogo post-felliniano di Sovrimpressioni di Deflorian-Tagliarini o ancora il potentissimo concerto sul raffreddamento globale dell’Ottocento apparecchiato dai madalena reversa in Romantic Disaster, il teatro emoziona, sorprende, si fa beffe delle categorie stanche del nostro mondo linguisticamente iper omologato. La presenza è l’antidoto alla discontinuità di una esistenza pandemica smart? Possibile, di sicuro la vita durante questi giorni appare come la cosa più lontana da Instagram che possiate immaginare e questo è bellissimo.
Il quadrato non esiste in natura. E quindi non esistono in natura Instagram (appunto), i libri, gli edifici e altre cose che diamo per scontato. Neanche il teatro esiste di suo. Sono tutti artifici creati dall’uomo. Che se avesse creato anche l’universo, probabilmente avrebbe descritto orbite ad angolo retto, percorsi rettangolari in cui i pianeti si fermano per poi ripartire dopo un po’. Così Pablo Gisbert e Tanya Beyeler, il duo che ha fondato El Conde de Torrefiel, lei che parla benissimo italiano, lui con una invidiabile chioma nera e argento compattata dentro un cappellino alla Fidel, mi raccontano uno dei passaggi chiave del loro spettacolo qui a Santarcangelo, Fracciones de tiempio, il primo capitolo di una ricerca sulle “ultrafinzioni” da cui, nel maggio del 2022, scaturirà uno spettacolo.
L’opera è del tutto spiazzante. Seduti all’aria aperta, gli spettatori leggono una storia da un gigantesco schermo. Il suono ha un ruolo fondamentale e le canzoni di Kyuss e Low entrano dritte nella drammaturgia. L’artificio teatrale si confonde con la realtà del luogo in cui lo spettacolo viene rappresentato. Mentre El Conde gestisce ogni cosa dalla cabina di regia in diretta, non si capisce cosa sia vero, cosa finto, cosa registrato, cosa improvvisato, cosa causale. Un po’ come un concerto dei Daft Punk, osservo io, senza raccogliere troppo consenso.
La residenza a Santarcangelo è stata fondamentale per rendere questo lavoro teatrale coerente con il suo ambiente di messa in scena. Pablo e Tanya mi raccontano di giornate passate a scrivere, e poi alla sera andavano sul luogo dello spettacolo per studiarlo. Per integrarlo nella narrazione. L’intuizione di affidarsi alla lettura è fortissima: in un mondo assuefatto all’immagine, El Conde chiede al pubblico di usare l’immaginazione. “Perché l’immagine, il quadrato, l’Instagram, non sai quando sia vero, quando finto”, e così chiudiamo il cerchio rispetto al discorso di partenza: “Volevamo raccontare l’agonia dell’immagine nel mondo contemporaneo”. Poi, a metà, dopo mezz’ora di spettacolo, irrompe un gregge di pecore. Inatteso, meraviglioso, pacificante e terrorizzante al tempo stesso. Vedi il pubblico dividersi tra chi vorrebbe carezzare gli animali e chi si inerpica sulle sedute, come in cerca di salvezza davanti a questo mini-tsunami animale. “Per noi questo è il momento in cui entra la realtà e avviene l’interruzione della finzione”, dicono.
La mancanza di immaginazione è l’inizio di ogni violenza (da ULTRAFICCIÓN nr. 1)
“La mancanza di immaginazione è l’inizio di ogni violenza”, si legge a un certo punto sullo schermo. È una frase che Tanya e Pablo sottolineano più volte. È anche l’antidoto del teatro, di un certo teatro almeno, a un modo assuefatto che abbiamo di consumare l’immagine. Senza immaginazione.
Nella connessione stretta tra drammaturgia e realtà dello spettacolo del Conde c’è anche spazio per i ragazzi di quello che tutti qui chiamano semplicemente “il campo”. How to be together, “esperimento di coabitazione per immaginare nuove collettività”, è un progetto che parte circa un anno fa e che involontariamente può riecheggiare la tagline di Sarkis per la Biennale 2021. Se a Venezia però sembra, a parte qualche fortunata zona di sovversione, di immergersi in una vasca di utopismo solarpunk, in cui galleggiano tanti compitini su come saremo felici a vivere insieme nel futuro prossimo venturo, qui il progetto di convivenza si è dovuto scontrare fin da subito con il più meraviglioso problema che l’essere umano da sempre ha su questo pianeta; ovvero, gli altri esseri umani. Chiara Organtini, che coordina il progetto, mi racconta davanti a un caffè che l’idea nasce come campus per i diplomati di quattro importanti scuole europee legate alle arti performative, e come poi si sia allargato con una open call ad altri ambiti culturali, come l’illustrazione. Qualche centinaio di metri dietro al parco dove ho visto Ultraficciones, c’è appunto il campo che ospita, in altrettante tende, 50 ragazzi, che nella finzione immaginata dal Conde a un certo punto si lanciano in una sorta di rave non autorizzato disturbando lo spettacolo, con tanto di auto che entra in scena e tutti che si chiedono se sia teatro o realtà.
Ma il campo è una esperienza ultravera, non ultrafittizia, e l’ultimo giorno del festival, il 18 luglio, è prevista una l’apertura a visitatori esterni; nei giorni in cui concentro la mia visita a Santarcangelo, una settimana prima, questa visita è impensabile, i ragazzi ne hanno esplicitamente respinto la possibilità. Un punto di vista che non tutti condivideranno, ma che capisco perfettamente: si sono insediati da pochissimo, sarebbe come se io facessi leggere le bozze di questo articolo a gente incontrata a caso. Il campo, mi racconta Chiara, è organizzato con docce alimentate da energia solare, frigo, servizi. I ragazzi e le ragazze devono imparare come vivere insieme. Iniziano la mattina alle 9 circa, con una assemblea in cui si confrontano, poi lavorano divisi in 5 diversi gruppi. I temi – ognuno con una diversa guida – sono lo spazio, la comunicazione (e i riti magici), gli ecosistemi oltre umani, politica e immaginazione (l’immaginazione torna!) e – ammetto, quello che mi colpisce di più – il “selvatico”. Dove sono coinvolti anche con 5 bambini della Scuolina Selvatica di Sarsina, che – leggo sulla pagina Facebook – è un “progetto di educazione parentale che segue la pedagogia del bosco”.
Il pomeriggio prima di partire, un sabato assolatissimo, mi lascio alle spalle gli spazi del centro commerciale La Fornace, significativo recupero di archeologia industriale convertita in shopping center, cammino tra le villette a schiera e mi infilo in un sentierino che risale il parco. Supero un monumento a forma di mappamondo intitolato a Robert Baden-Powell, il primo scout, circondato dai bidoni della differenziata, e incrocio un via vai di ragazzi che scendono a valle, verso i prefabbricati dei servizi igienici. Faccio attenzione a tenermi lontano dal campo, costeggiandolo vedo le tende in lontananza, tra gli alberi. Non sono qui per spiare, mi ripeto, sono in cerca d’altro. Dal bosco salgono suoni di percussioni e voci indistinte. Intravedo un gruppetto di ragazze su una piattaforma, nella posizione del loto. Sono vestite come ai ritiri yoga che vanno tanto di moda oggi. Risalgo la collina, fino a un muro di cinta. Incrocio passanti, c’è un ragazzo con la bici che legge su una panca. Poco più giù da me, un gruppetto di ragazzi del campo. Urlano, mi incurIo disco. Vorrei avvicinarmi, mi vedrebbero.
Mi lascio alle spalle il bosco, risalgo lungo una strada di terra battuta, mi siedo su una panchina al sole, da qui si vede tutto fino al mare, mi viene un po’ da ridere perché non riesco a non pensare a Giacomo Leopardi. Un ragazzo e una ragazza osservano il vuoto. “Secondo me ci vuole una decina di minuti”, dice lei. ”Anche un quarto d’ora”, fa lui. Indicano lo scatolotto gialloblu dell’Ikea di Rimini, che interrompe esattamente a metà la traiettoria diretta tra dove siamo e la costa. Mi alzo e dopo pochi passi raggiungo il punto più alto di Santarcangelo. Fa caldo, molto. Immagino il terreno sotto i miei piedi completamente svuotato e scavato e tossico come la montagna di Amanda Piña, o ghiacciato come nei versi di Shelley cantati in Romantic Disaster, immagino un paese che assorbe l’immaginazione del festival e la rende reale. Poi un corteo di auto mi riporta alla reltà. Lo guida una berlina grigio metallizzato infiocchettata, c’è un matrimonio in corso, gli invitati si inerpicano nei loro vestiti eleganti sul ciottolato. Passo oltre questa involontaria performance diurna, e scollino dall’altra parte del paese.