È da circa due mesi che ci viene richiesto di stare a casa. La nostra casa è diventata ufficio, ristorante, scuola, palestra, cinema e in alcuni casi palco, platea, parterre o dancefloor. In un articolo uscito di recente su Artforum, Paul B. Preciado paragona la nostra condizione attuale a quella del fondatore di Playboy: “Hugh Hefner diresse e produsse la rivista per uomini più diffusa negli Stati Uniti senza uscire di casa, spesso senza lasciare il letto. Collegato a un telefono, una radio, uno stereo e una videocamera, il letto di Hefner era una vera piattaforma di produzione multimediale.” Probabilmente abbiamo meno soldi e meno playmate, in compenso la tecnologia di cui disponiamo è molto più avanzata e talmente versatile che non è assurdo definire lo spazio virtuale come una seconda realtà, un territorio — quello che McLuhan negli anni Sessanta definiva Villaggio Globale — in cui possiamo muoverci potenzialmente in ogni direzione e partecipare a ogni genere di attività.
Oggi la morsa del virus sembra essersi allentata e gradualmente dovremmo tornare a fruire di alcune cose in un modo che assomiglia a come facevamo prima. Ma se è possibile predisporre, con le dovute misure, la ripartenza di alcuni settori, per altri la situazione è più problematica. In particolare, l’industria dell’intrattenimento dal vivo è congelata ed è complesso prevedere che forma prenderanno i luoghi dell’arte in questo mondo nuovo.
Una delle ipotesi è che, almeno per un po’, continueranno ad essere luoghi virtuali. Dall’inizio della quarantena abbiamo assistito a numerosi tentativi di trasposizione online dell’esperienza live, ma dopo una fase di entusiasmo iniziale, abbiamo iniziato a vederne i limiti. Il primo è che, evidentemente, l’offerta eccede la domanda. Il secondo problema è che per forza di cose l’interazione tra audience e performer è molto spesso unidirezionale e, per quanto ci impegniamo ad architettare elaborati scenari virtuali, è complicato predisporre una partecipazione attiva dell’audience. Prendiamo l’esempio del concerto di Travis Scott su Fortnite: nonostante si trattasse dell’evento più spettacolare della storia dei concerti online, prendervi parte da spettatore non era particolarmente coinvolgente. Lo stesso vale per gli esempi meglio riusciti di festival online delle scorse settimane, come quello dei 100Gecs su Minecraft o il Nu-Cenosis, ospitato da una piattaforma, Imvu, che funziona in modo molto simile a Second Life. Ci troviamo in una preistoria tecnologica per cui la componente immersiva delle realtà virtuali è ancora piuttosto bidimensionale. Siamo lontani dagli scenari alla Ready Player One, insomma.
Probabilmente abbiamo meno soldi e meno playmate, in compenso la tecnologia di cui disponiamo è molto più avanzata e talmente versatile che non è assurdo definire lo spazio virtuale come una seconda realtà
Si dà il caso, tuttavia, che il fattore emotivo possa essere recuperato almeno parzialmente ricorrendo a stratagemmi molto più elementari. Al netto di line-up altisonanti, gli eventi in streaming che più si avvicinano al calore della presenza reale sono quelli che si rivolgono a una community ben definita e incentivano l’interazione tra utenti con strumenti all’apparenza banali come una chat. C’è stato un tempo in cui le nostre seconde vite online si svolgevano in forum che fungevano da aggregatori per fandom unite dalla stessa passione. Poi qualcosa è cambiato. “Le nostre tecnologie sono passate dall'essere strumenti utilizzati dall'uomo ad essere gli ambienti stessi in cui operiamo,” scrive il teorico americano Douglas Rushkoff nel saggio Team Human, in cui analizza le dinamiche per cui strumenti di aggregazione come i social network siano stati trasformati in dispositivi di controllo che, anziché incentivare i legami sociali, li hanno allentati, trasformando gli utenti da soggetti interattivi a target passivi di campagne di mass-marketing.
Se c’è un momento buono per riflettere su come riconvertire le piattaforme di cui disponiamo alla loro funzione originale, è proprio questo. Il concerto che ha come sottotitolo l’invito a stare a casa, presentato in maniera acritica, confinato in uno schermo, vive nell’illusione che le cose vadano esattamente come prima, nella negazione del disorientamento collettivo che la nuova realtà che stiamo vivendo comporta. E questa negazione è problematica tanto quanto l’affermazione che l’unica cosa che possiamo fare è essere spettatori di una distrazione di massa oppure, dall’altro lato dello schermo, gli intrattenitori, i giullari di corte, due poli opposti di un non-dialogo che si limitano a farsi compagnia in uno spazio di finzione. Al contrario, ragionare sulla costruzione di eventi in streaming a partire dalla volontà di costruire, ricostruire o cementare un senso di comunità comporta una partecipazione attiva e conferisce al territorio virtuale una dimensione molto più concreta, quasi umana.
Tornando sul piano della realtà tangibile, si cerca già di immaginare un ritorno alla normalità, talvolta mettendo sul tavolo prospettive sci-fi, come il casco futuristico Micrashell brevettato dallo studio creativo Production Club, che permetterebbe di bere e svapare in libertà mentre si frequenta in tutta sicurezza il nostro locale preferito. Non sono ancora chiarissimi i tempi di produzione né quanto questo delizioso compagno di serate potrebbe arrivare a costare, data la complessità del progetto. Mentre aspettiamo di capirlo, sono state avanzate altre proposte, alcune decisamente discutibili. Venerdì scorso in Germania, ad esempio, è stato organizzato il primo drive-in rave (idea circolata anche da queste parti) che, a giudicare dalle immagini, ha avuto esito in un ibrido tra un ingorgo autostradale e un incubo ballardiano. Mi rendo conto che la crisi che sta investendo l’industria dell’intrattenimento richieda soluzioni rapide, ma cercarle senza tener conto di ogni fattore, non ultimo l’impatto ambientale che ha generato questa pandemia, è un cortocircuito che rischia di peggiorare la situazione.
Qualunque sia il destino dell’arte nel mondo post-Covid, se c’è una cosa che stiamo imparando in questi giorni è che, indipendentemente dal contenitore, è necessario ripartire da contenuti in grado di entrare in dialogo con la realtà stessa
Mentre in Europa ci immaginiamo il nostro prossimo Primavera Sound dai sedili della macchina, in Cina alcuni club delle zone meno colpite dal virus hanno riaperto a fine marzo — una tempistica che dal nostro punto di vista sembra inverosimile. Da quelle parti i contagi si erano azzerati da un paio di settimane e al momento hanno riaperto soltanto locali piuttosto capienti che, giustamente, adottano misure di sicurezza particolari, tra cui il controllo della temperatura all’ingresso e la scansione di un QR code sul telefono degli avventori collegato a un registro del loro stato di salute. Sulla scia dell’esempio cinese si colloca la proposta spagnola di riapertura a capienza ridotta e organizzazione di eventi in cui il pubblico stia rigorosamente seduto e a debita distanza. In entrambi i casi la prospettiva è quella di dover frequentare locali semivuoti, i quali, a flusso ridotto, dovrebbero comunque essere messi nelle condizioni di pagare artisti, personale e spese di disinfezione quotidiana degli spazi.
Qualunque sia il destino dell’arte nel mondo post-Covid, se c’è una cosa che stiamo imparando in questi giorni è che, indipendentemente dal contenitore, è necessario ripartire da contenuti in grado di entrare in dialogo con la realtà stessa e condividere collettivamente una serie di interrogativi tesi ad approfondire questa realtà o immaginarne un’altra, in cui i luoghi dell’arte siano il collante sociale, gli anticorpi che prevengano il rischio di tornare a sentirci così soli.
Immagine di apertura: Terraforma 2019, Villa Arconati, Italia. Foto Francesco Mangaroli.