“I più alti spiriti, se così vogliamo chiamarli, sono stati misantropi”, scriveva il filosofo siciliano Manlio Sgalambro – a lungo collaboratore del recentemente scomparso Franco Battiato – ne “Della Misantropia” (Adelphi). Una condizione, quella dell’isolamento fisico e spirituale, dell’ascetismo e della misantropia spesso propria dei grandi pensatori, che oggi si trova in divergenza con il tema attorno a cui ruota la diciassettesima Biennale di Architettura di Venezia.
“How will we live together?” – come vivremo assieme? – domanda Hashim Sarkis ai curatori dei vari padiglioni della Biennale. La collettività, quasi più come imposizione di un’élite di architetti sul pubblico, che come urgenza delle popolazioni globali, domina la narrazione del settore da tempo, forse fin troppo. Essa si intreccia, senza soluzione di continuità, con altri temi caldi del discorso pubblico contemporaneo quali, per esempio, l’ecologismo, il cambiamento climatico e una non meglio specificata ‘inclusività’.
Tutte tematiche, sì, essenziali e ricche di opportunità per lanciare sfide concrete al futuro del pianeta, ma altrettanto approssimative nelle dinamiche entro cui vengono trattate a Venezia. Molteplici sono gli slogan dalla rapida fascinazione pop, ma privi poi nell’espletazione di una profondità critica. Si pensi, per esempio, all’eco mediatico dei Fridays for Future, ai quali però sono mancati – sinora – risvolti pragmatici.
Nel 1973 il compositore afroamericano Timmy Thomas dava alle stampe il suo più grande successo, “Why can’t we live together”. Una domanda retorica, anzi, più che altro un grido retorico colmo di insofferenza sull’impossibilità di vivere in armonia tra culture, negli Stati Uniti profondamente solcati da divisioni razziali e in cui ancora si percepiva l’onda lunga della Guerra del Vietnam.
Così, a quasi cinquant’anni di distanza, tra i padiglioni della Biennale, tra tante belle parole – non prive di alcuni errori di spelling e di editing del testo nei pannelli esplicativi – si fa di tutto per ricordarci che dobbiamo vivere assieme, ma senza troppa premura di spiegarci come sia possibile farlo. Per quanto vengano date risposte al quesito di Sarkis, l’impressione è quella che il tema sia stato abbracciato in maniera totalmente condiscendente, accettato come un dato di fatto, fenomeno che, dunque, suggerisce come anche il mondo dell’architettura non sia immune da quell’attitudine da larghe intense e conformismo della ribellione che attraversa la società contemporanea, dalla politica alla critica artistica; sintomo di un eccessivo distacco tra l’élite di cui sopra e i problemi stringenti delle comunità terrestri.
La sfera politica e militante del discorso, infatti, rimane marginale (Gran Bretagna su tutti, per esempio), limitando il resto a un insieme di diorami dal retrogusto d’Italia in Miniatura (Belgio, Svizzera), provocazioni piuttosto fini a sé stesse (Germania), molteplici installazioni che suonano – non senza retorica – come campanelli d’allarme sullo stato di salute del pianeta, e diversi casi studi che pur fornendo interessanti excursus storici continuano a danzare attorno al tema senza affrontarlo frontalmente.
La mancanza di risposte critiche e persuasive solleva, di conseguenza, un’altra domanda, certo cinica, ma legittima: perché vivere insieme a tutti i costi?
“Non ho voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade / Ho tanta stanchezza sulle spalle / Lasciatemi così come una cosa posata in un angolo e dimenticata”, scriveva Giuseppe Ungaretti in “Natale”.
Il tema della solitudine come necessità per l’arricchimento dello spirito ma anche come diffidenza verso la massa, d’altronde, è storicamente ricorrente, tanto nella cultura alta che in quella bassa. Il poeta Paolo Buzzi, a tal proposito, scrive: “Bimbo, anelavo appiattarmi nei cantoni / Il buio in solitudine m’impaurì / La mia stanza chiusa, la mia alcova velata, il mio silenzio duro: la parola alle carte, ai testi / Per ciò credo alla futura e eterna grande Felicità.” Si pensi, ancora, alla splendida “After Hours” dei Velvet Underground in cui la solitudine diventa virtù dell’outsider.
Giusta è l’attenzione alla collettività come opportunità per ridurre l’impatto antropologico della società post-industriale, come nel caso dei progetti presentati da Brasile e Portogallo in merito alla riqualificazione di aree popolari dismesse come occasione per ricreare un sentimento di appartenenza alle comunità locali. Allo stesso tempo, però, l’enfasi sulla tematica della socialità e della collettività è anche figlia di una realtà in cui la dimensione intima e quella pubblica dell’individuo si accavallano costantemente nella proiezione digitale dell’ego. Il rischio è dunque quello di confondere l’inclinazione dell’uomo a una perpetua socializzazione wireless (tanto in termini informali che di telelavoro), con una sua predisposizione a fare ciò anche nella vita reale.
La crescente alienazione da social media ha, infatti, contribuito alla creazione di una società – soprattutto in Occidente – sempre più egoriferita. Un pattern sociale che se sommato al forte individualismo di matrice tardo capitalista della stessa mette in luce condizioni critiche per una coesistenza armoniosa tra individui, ancor di più se provenienti da background culturali e geografici distanti tra loro.
Emblematico è uno studio pubblicato sul Journal of College and University Student Housing (Mollina & Co., 2015) in cui si mette in luce la difficoltà nello stabilire un rapporto positivo con il proprio coinquilino nei dormitori universitari in tempi di aumento esponenziale dell’individualismo e uso dei social media.
Diversi sono poi gli studi (Alex Duell su Philosophy Now, Maggio 2021; Zhu et al. Sull'International Journal of Affective Disorders, Febbraio 2021; Rowe et al. Sull’European Journal of Tracing Systems, Luglio 2020) che stanno mettendo in luce la crescente incompatibilità dell’uomo con la vita comunitaria in seguito ai sentimenti di alienazione e disordine da stress post traumatico influenzati dall’attuazione delle norme anti-Covid, come il distanziamento sociale o le tracking app.
Dinamiche che, se accostate alla refrattarietà alla costituzione di nuclei familiari da parte dei più giovani, ci lasciano con domande aperte anziché con risposte chiare sui nuovi scenari comunitari. Andremo incontro a macrocomunità di nomadi digitali alle prese con una socialità ed una solidarietà da ricostruire o riusciremo, specialmente in Occidente, a promuovere un’integrazione tra comunità capace di far sviluppare la civilizzazione in armonia con il territorio?
Altre domande che sorgono spontanee riguardano l’educazione civica a modelli di vita comunitari e autosostenibili. Siamo, infatti, davvero sicuri di essere forniti – egualmente in tutte le nazioni – di un’educazione civica necessaria al successo duraturo dei progetti proposti alla Biennale?
Si pensi, per esempio, al fallimento di programmi di sharing, come le biciclette puntualmente rubate o vandalizzate, o al tema della sicurezza dell’utente con servizi quali Bla Bla Car o Uber. O, ancora, a come l’uso deregolamentato dei monopattini elettrici, anziché instaurare un modello di mobilità virtuosa, si trasformi spesso in un problema tanto di decoro urbano quanto di barriere architettoniche. Si può pensare di condividere spazi se manca un senso di attaccamento alla comunità necessario per il di esso mantenimento? La proiezione di una società e di una cultura globalizzata non va forse a scontrarsi con quella solidarietà comunitaria che ancora si riscontra in piccole sacche rurali – presto destinate a scomparire – parzialmente toccate dal capitalismo più vorace?
Ecco perché le fascinazioni di molti curatori sembrano soffrire di un approccio utopistico al tema. Non che ciò sia da ritenersi sbagliato – anzi, legittima è la speranza nella creazione di un futuro più inclusivo – ma, allo stesso tempo, non si può negarne una natura naif. Basti vedere come l’approccio a diverse tematiche – dall'ecologismo alle migrazioni – sembri essere rimasto schiavo di una rappresentazione ancora figlia del Novecento. Lampante è il caso di soluzioni abitative extraterrestri che vengono proposte con un immaginario proprio della cultura Space Age degli anni Sessanta del secolo scorso, stile “2001: Odissea nello Spazio”.
L’ossessione all’alimentare quella che Luc Boltanski definisce come “la grande classe media” che il capitalismo ha generato a partire dagli anni ‘80 – quando il concetto di “esclusione/inclusione” ha sostituito il dibattito sulle classi sociali – si rispecchia in una Biennale che prova a dialogare con tutti per non convincere nessuno. La smania di una collettività coatta e omologatrice ha così finito per trasformare i giardini della Biennale in un parco tematico per turisti spaesati desiderosi di stimoli interattivi, come in un parco giochi o acquatico qualsiasi.
La tematica di una nuova collettività come necessità per l’urbanizzazione del futuro ricorda il caso di Brasilia, pensata appunto come modello di città del futuro in quella sbronza di ottimismo e fiducia massima nelle tecnologie umane che furono gli anni della corsa allo spazio.
Sulla nuova capitale amministrativa brasiliana, su Domus n.434 del Gennaio 1966 Cesare Casati scriveva di come le sue ‘Super-Quadra’ (“piccoli paesi nella città”) ambissero a “essere delle vere comunità sociali, complete, dove non c’è nessuna distinzione di ubicazione fra casa economica e casa di lusso, ma distinzione del tipo di alloggio solo secondo la professione, il reddito o lo stato di famiglia degli abitanti”. Un concept entusiasmante e – per l’epoca rivoluzionario – che allo stesso tempo lasciava l’autore con un interrogativo su Brasilia, città “con le sue possibilità di sviluppo o di autodistruzione ancora aperte”. Una frase che, alla luce della mancata capacità di Brasilia di incarnare un modello longevo e virtuoso di vita urbana collettiva, suona oggi come campanello d’allarme.
“Ho sempre pensato che la natura fosse anche il suono delle case” recita l’artista cross-mediale piemontese Giacomo Laser nel suo recente video presentato al Pesaro Film Festival. La riflessione suggerisce, dunque, uno spunto sull’importanza che deve essere assegnata all’armonia – sia materiale che spirituale – tra l’uomo e lo spazio in cui si inserisce la sua esistenza, prima ancora che all’uomo necessariamente inteso come elemento di una comunità o di un ambiente condiviso.
Emerge legittima la rivendicazione di spazi individuali, non per strafottenza nei confronti delle tematiche essenziali di cui sopra, ma come condizione necessaria a molti individui. Venga lodato chi, nella società dell’ostentazione di una solidarietà di circostanza e di una collettività social, sa ancora fare ammissione della propria misantropia, o comunque, reclama la necessità all’intimità.
Ironico svetta, così, tra i viali dei giardini della Biennale il padiglione, chiuso, della Iugoslavia, monito di un socialismo che poco ha a che spartire con quel champagne socialism che permea troppi dei progetti presentati
Immagine di apertura: Il padiglione del Belgio alla XVII Biennale di Architettura di Venezia. Foto: Giulia Di Lenarda, Giorgio De Vecchi.