Giorni lunghi, lenti, infiniti, sempre gli stessi, dentro la pace buia delle nostre case, stesi sopra la comodità sospesa del nostro divano, stanchi, impauriti e soli. Soli con il nostro Io e con il pensiero di ciò che verrà, che durante quei giorni, quelli caldi della pandemia, sembrava ancor più misterioso e indecifrabile del solito.
Sin dagli albori della civiltà, gli uomini hanno scandito il loro tempo in un numero variabile di giorni, una scansione numerico-simbolica che si basava sull’astrologia e sull’influsso delle sfere planetarie sul mondo. Nell’Iliade, le Horai scandiscono il ritmo delle attività umane, descritte come una personificazione dell’umidità del cielo e delle forze cosmiche. Nella Genesi l’alternarsi del giorno e della notte cadenzano la nascita del mondo. Sei momenti, al quale poi il Creatore ne aggiunge uno di riposo che chiama Domenica, “il giorno del Signore”.
Come nella letteratura, anche l’arte interpreta a suo modo il giorno e le sue fasi. La più nota delle rappresentazioni è quella di Michelangelo, nella sagrestia Nuova di San Lorenzo a Firenze, dove suddivide le giornate con delle sculture magnificenti: Aurora, Giorno, Crepuscolo e Notte. Esse vengono rappresentate in maniera allegorica e collocate in una fascia mediana tra un mondo sotterraneo, rappresentato dai fiumi infernali, e il mondo celeste, descritto nelle lunette superiori con le sfere planetarie. Erwin Panofsky, in Studi di Iconologia, sottolinea come questa posizione intermedia rifletta la funzione di disegnare la potenza distruttiva del tempo all’interno del mondo sublunare. Sulla volta del grande ambiente centrale di Palazzo Rospigliosi Pallavicini, Guido Reni dipinge l’Aurora: il sorgere del sole dal mare preceduto da Aurora, che avvolta da leggeri veli, sparge fiori librandosi nell’aria cacciando verso destra l’oscurità. Accanto a lei Fosforo, la prima stella del mattino, mentre Apollo sul suo carro, trainato da quattro cavalli dal manto di diversi colori, a indicare proprio i gradi di luce che precedono l’arrivo del Sole, è in testa fra tutti e siede sulla sua quadriga circondato dalle Ore. Con il suo mantello ampio e roteante che manifesta la sua corsa e al tempo stesso lo proclama come protagonista di una scena che si chiude in un drappeggio di nubi, che come una quinta leggera, scende sul blu della notte: “Febo, avvolto in una veste di porpora, sedeva su un trono rilucente di fulgidi smeraldi. Ai suoi lati stavano il Giorno, il Mese, l’Anno, i Secoli, le Ore, disposte a intervalli uguali.” (Ovidio, Metamorfosi)
Alla metà del 500, Giovan Battista Dossi, dipinge l’allegoria della notte, anch’egli, come molti dei suoi colleghi passati e futuri, trae ispirazione da un passo delle Metamorfosi (XI, 592) in cui viene descritta la casa del sonno. Una fanciulla viene addormentata dal dio nel suo antro buio, affollato da creature fantastiche, mentre sullo sfondo si vede un paesaggio notturno illuminato da luci e fiamme che si specchiano in un fiume. La luna, nell’angolo a destra, piatta e ferma, porta un raggio di luce calda che illumina in diagonale la civetta e la fanciulla. La notte è descritta come un confine tra sonno e sogno, una realtà, seppur in bilico tra l’irreale e la coscienza, dove l’assenza di luce genera immagini oniriche che al tempo stesso evocano pericolo. Così da una cesta esce un piccolo esercito di mostri immaginari, che richiamano la cultura fiamminga, piccoli incubi rinchiusi nel buio della coscienza, una strana lotta che, silenziosa, si svolge proprio in quel confine tra veglia e sonno, dove la luce rappresenta la fine, il risveglio.
Il tempo, le ore, il giorno e le sue fasi. Torna il tempo e tornerà la normalità, che non somiglia per nulla a quella di oggi ma che è molto più simile a quella di ieri
Circa due secoli più avanti Johann Heinrich Füssli, affronta il tema del notturno attraverso la sua opera più nota: L’incubo. “Così nel suo Incubo attraverso la nebbia serale Si scaglia il grassoccio Fied o’er fen, e il lago e la palude; Cerca una ragazza da amare oppressa dal sonno, Posandosi, e ghignando sopra il suo seno” (Erasmus Darwin, Night-Mare) La notte, è spesso rappresentata dal sogno, e qui l’artista entra ancor più nell’intimo. Ancora una donna, ancora dei mostri: l’irreale. Se il giorno è il momento del fare, la notte dà luogo al silenzio, alla solitudine e alla pausa. L’incubo è ammiccante allo spettatore e completamente padrone della scena, annullando tutto il resto, persino l’unico elemento reale che è la fanciulla, dipinta in una posizione che ricorda quasi un cadavere. La notte è la morte, la fine del giorno, l’inizio del domani.
Le fasi del giorno, le ore. Edward Burne-Jones, ultimo dei Pre-Raffaelliti e primo dei simbolisti, tra il 1870 ed il 1882, descrive le ore come sei donne: una tela perfettamente suddivisa da tre figure sul lato destro e tre su quello sinistro, che senza troppe interpretazioni o simbologie si raccontano nei loro ruoli. La prima a destra è il risveglio, in un movimento seducente e lento si raccoglie i capelli, andando avanti vediamo le ore del fare, dove due, di quelle donne, si accingono al lavoro, la casa, il filare (tipico lavoro femminile), il cibo, la cucina, la musica, a simboleggiare il momento di svago e del riposo e l’ultima, ritratta già dormiente, rappresenta la notte.
Il tempo, le ore, il giorno e le sue fasi. Torna il tempo e tornerà la normalità, che non somiglia per nulla a quella di oggi ma che è molto più simile a quella di ieri. Diceva Gandhi: “Voi occidentali, avete l’ora ma non avete il tempo”.
Immagine di apertura: Guido Reni, L’Aurora, 1612-1614. Palazzo Rospigliosi Pallavicini