La tempesta perfetta. L’epidemia di Coronavirus ha colpito un sistema che sembrava invincibile, il capitalismo globalizzato che negli ultimi venticinque anni aveva reso tutto lucido, pacifico, programmato. Invece, tutto è caduto in un attimo. Offerta e domanda, beni e servizi, sanità e globalizzazione, confini e intelligence. Ma soprattutto cultura e progetti artistici.
È la fine della mano invisibile del mercato? Di certo è il ritorno di quella ben più visibile dello Stato, che nella forma dell’intervento pubblico è entrato ovunque concentrando i suoi aiuti in ogni forma e settore, cercando coerenza tra i comportamenti delle imprese e tenendo in considerazione nuovi obiettivi sanitari, sociali, ambientali. E l’arte?
L’arte appare la grande dimenticata, o meglio rimossa. Perché musei, cinema e teatri sono settori di grande produzione economica, che spesso si dimentica ma muovono un indotto gigantesco e che oggi sembrano all’ultimo posto dell’attenzione. Forse tutto accade per la difficoltà di pensarli in era post Covid-19, perché in quanto attività pubbliche richiamano assembramenti. O forse perché al contrario ritenuti per pochi, per l’élite.
Comunque sia, oggi le casse dei musei si svuotano e quelle del cinema o dei teatri vedono lontana la possibilità di riempirsi. Due soli esempi. Mentre tre settimane fa il Whitney Museum, se non il più ricco, uno dei più ricchi al mondo, ha licenziato l’intera comunità di operatori che da anni ne costituivano l’educational side, è notizia recente che il Metropolitan Museum prevede un “buco” di 150 milioni di dollari e per la prima volta nella sua storia. Cosi, pur di recuperare denaro, ha chiesto il nulla osta della Association of Art Museum Directors per prepararsi alla vendita di opere per sostenere bilanci ormai in profondo rosso.
Ma i teatri? E i cinema? Che ne sarà di attori, scenografi, registi, costumisti e tutto il mondo che ruota intorno alla scena? Come potranno sostenersi senza la presenza di beni rifugio, di cui invece sono in possesso i musei, o che comunque, essendo dei luoghi reali, possono in una qualche maniera, tornare a vivere?
La risosta è difficile ma l’arte aiuta a quando meno a formularla.
L’arte appare la grande dimenticata, o meglio rimossa. Perché musei, cinema e teatri sono settori di grande produzione economica, che spesso si dimentica ma muovono un indotto gigantesco e che oggi sembrano all’ultimo posto dell’attenzione
Il rapporto tra pittura e teatro, infatti, e anche tra pittura e cinema è sempre stato molto stretto. Scenografia e pittura da cavalletto nascono come binomio inscindibile e ancora oggi lo sono. Nel XIX secolo, gli artisti-scenografi hanno già dimestichezza con l’illuminazione a gas, sanno e riescono ad adattare la loro tecnica pittorica in modo da ottenere i migliori risultati possibili. Colori brillanti, prospettive adattate che descrivono le scene con maggior profondità ed effetti speciali che risultano più credibili nelle opere prodotte. Le opere rappresentate con successo all’Opéra di Parigi vengono infatti portate in scena in altri teatri francesi e stranieri, garantendo così la diffusione delle creazioni degli scenografi parigini, la stessa Opera deciderà poi di pubblicare libretti dedicati all’allestimento, come cataloghi di opere, che oggi troviamo in vendita in librerie e bookshop dei musei, con l’intento di diffondere anche questa nuova avanguardia pittorica.
Pittore par excellence, definito “teatrale”, raffinato interprete del mondo della danza è Edgard Degas, che rivoluziona la raffigurazione pittorica teatrale, spostando la visione dalla “messa in scena” alla rappresentazione di ciò che avviene “dietro le quinte”, in platea o nei palchi. A questa rivoluzione dei contenuti corrisponde un profondo sovvertimento del linguaggio pittorico, abbandonando il punto di vista frontale, mutuato dal teatro, per adottare prospettive oblique e punti di vista decentrati.
L’interpretazione innovativa di Degas trova però un immediato precedente nell’opera di Honoré Daumier, che in alcune litografie, aveva rivolto il suo occhio lucido ed impietoso di caricaturista al mondo teatrale. Un tratto incisivo coglieva gli aspetti grotteschi della scena, l’espressività violenta dei protagonisti o del pubblico stesso, utilizzando anche lui prospettive distorte, e forti contrasti di luce per rivelare la fisionomia degli attori deformata dai riflettori.
Questi due grandi artisti influenzeranno profondamente i tanti pittori che producevano in quel momento di passaggio tra realismo ed impressionismo. Fra questi impossibile dimenticare Henry de Toulouse-Lautrec, che più di ogni altro riuscì ad indagare la realtà dietro i bagliori della vita teatrale e dei cabaret, e Felix Vallotton, per il quale lo spostamento dalla scena alla platea è l’unica via percorribile per una pittura che si rivolge alla cronaca della realtà contemporanea.
La rappresentazione della vita a teatro diventa così, come spiega bene Ann Dumas, “una commedia della vita moderna”. Nei musei di tutto il mondo, troviamo esposte opere che in realtà sono dei meravigliosi bozzetti di scenografie o racconti della vita teatrale ed in fondo tutti noi siamo attori, come ricordava William Shakespeare. “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori: essi hanno le loro uscite e le loro entrate; e una stessa persona, nella sua vita, rappresenta diverse parti”.
Aspettiamo, dunque. Di tornare anche a questa vita, che siamo certi ci sarà anche dopo il Coronavirus. E probabilmente, anche noi come Degas, rivoluzioneremo il nostro modo di andare al teatro, al cinema, al museo perché prima abbiamo rivoluzionato il nostro modo di vedere, vivere questo mondo nuovo coperto da maschere. Anzi, mascherine.
Immagine di apertura: Edouard Despléchin, Bozzetto per Mosè, atto III, 1863