L’autoritratto

Chi sono io? A partire dal mito di Narciso, la rappresentazione di se stessi attraversa tutta l’arte e la cultura occidentale, raggiungendo un punto straordinario in Van Gogh.

Si riparte, in una qualche maniera, forse diversa, strana, ma si torna alla vita a cui siamo abituati.

Ci siamo lamentati, a ragione, della mancanza di affetti, lavoro, abitudini, luoghi e spazi comuni, abitudini varie in cui “l’altro” era fondamentale, senza pensare, che forse, sarebbe stato questo il momento o l’occasione per fermarci e tornare a noi, al nostro io.

Nella dinamica dell’arte, non si attivano sentimenti o movimenti differenti da quelli umani bensì si riconoscono. L’arte è un fenomeno umano e i suoi eventi sono caratterizzati da episodi esaltanti, eccitanti, sentimentali, prove e rivelazioni comuni. L’arte non è un passatempo da salotto, né un lusso da gallerie, tantomeno un fenomeno da élite: essa è vita, vita comune, immagini reali, attimi vissuti e riconoscimento. 

Parmigianino, Autoritratto entro uno specchio convesso, 1524, Kunsthistorisches Museum di Vienna

Tra le diverse tematiche artistiche, la ritrattistica è quella più introspettiva, quella che risponde alla domanda che in ogni uomo, fin da bambino, nasce: “Chi sono io?”

Il ritratto non è l’autoritratto. Il rappresentare il proprio volto, scandagliato attraverso linee e colori è altro, un’indagine più profonda e dolorosa, tanto lontana quanto vicina, un passaggio dal tuo al mio: un IO.

L’autoritratto è per il pittore un percorso ricco d’insidie, un momento delicato in cui lo specchio ritrae se stesso e il proprio io, c’è uno sdoppiamento della propria figura, egli è al tempo stesso soggetto agente e oggetto paziente, è modello ed esecutore.

L’arte è un fenomeno umano e i suoi eventi sono caratterizzati da episodi esaltanti, eccitanti, sentimentali, prove e rivelazioni comuni

L’occhio di Dio, quello onniveggente, in un uomo di fede, poteva rappresentare l’unico sguardo che l’osservava e giudicava, anche se ci si trovava tra una moltitudine di sguardi. In questa prospettiva invece, l’unico occhio che indaga è quello del pittore, che inevitabilmente si giudica e si osserva, mentre nel ritratto ci si affida a un occhio sconosciuto e quest’affidarsi è sempre colmo di aspettative, con un punto di vista diverso ma sicuramente colmo di vanità.

A chi dovremmo far risalire quindi l’origine dell’autoritratto se non a Narciso? Colui che ha consegnato, in una qualche maniera, lo specchio a noi come eredità? Egli paga a caro prezzo la conoscenza di se stesso.

Johannes Gumpp, Doppio autoritratto allo specchio, 1646, versione rotonda, Corridoio Vasariano, Firenze

Uno degli autoritratti più esemplificativi ed affascinanti è quello di Johannes Gumpp, dove l’artista si mostra in triplice copia, ma egli, nella sua figura, si ritrae di spalle, per poi lasciarsi indagare allo specchio sino ad arrivare sulla tela. Gummp ricrea in quel dipinto una vera introspezione individuale, dove egli è uno e trino, un’esaltazione del proprio io che si guarda, allo specchio, e ci guarda dalla tela, il tutto racchiuso in un tondo, simbolo per eccellenza della perfezione e dell’infinito. Egli si mostra e si svela attraverso la sua figura, così celebrata, attraverso un cartiglio che pende da un angolo della tela, raffigurato all’interno dell’opera, dove leggiamo: “Johanes Gumpp / mi 20 Jare / 1646”.

Van Gogh non poteva di certo sapere che più di un secolo dopo, l’intera umanità avrebbe visto come lui la propria abitazione come banale e meschina, essendosi ritrovata a vivere i propri appartamenti come una prigione, uno stato fisico e psicologico duro

Rimaniamo nel percorso della perfezione, e quindi del tondo: L’Autoritratto allo specchio del Parmigianino. Un’immagine perfettamente descritta, anche se deformata dallo specchio convesso, la prospettiva indagatoria, lo sguardo fisso e sicuro, la stanza alle sue spalle spoglia e vuota poiché il vero ed unico soggetto è lui: il pittore, il maestro, l’uomo. Un aspetto androgino, elegante, una casacca raffinata si vede sbucare dalla manica, bianca e plissettata che non fa altro che evidenziare la sua mano, quella che dipinge, quella di un grande maestro.

Arnold Böcklin, nel 1872, si ritrae in veste diverse, più umane e meno gloriose, con la morte alle sue spalle, nostra compagna beffarda e fedele, con la quale lui istaura un dialogo audace e sfrontato. Il pennello si alterna sulla tavolozza dipinta e sulla tela così come l’archetto batte sulle corde del violino della morte. Due strumenti di due diverse figure: il pennello crea, l’archetto ed il violino, alle spalle dell’artista, vengono descritti in una linea temporale, dove fugge il tempo e dimora la morte. Un duetto, un gioco, un ritmo dissonante tra i colori ed il macabro, dove l’incarnato del soggetto, e quindi dell’artista, dai colori vivi e la gagliardia del suo pennello vanno di contro ai colori lividi della morte.

Arnold Böcklin, Autoritratto con la Morte che suona il violino, 1872, Alte Nationalgalerie di Berlino

Ma andiamo avanti nei secoli, arriviamo a noi. In un’immagine armonica, fatta di gialli ed azzurri attraverso una materia corposa, Vincent Van Gogh si descrive: indossa un cappello di feltro, un colletto rigido e la giacca blu, tipica dei parigini, si fa leggere come un profeta, modellato dal solo colore che ha un’intensità espressiva che porta al punto focale, irradiato con vigore, a cui gira intorno l’intera composizione: il suo Io. Dal centro si dipartono, a raggiera, tasselli materici che compongono i tratti di un volto dalle forme quasi feline. Scrisse al fratello Theo: “Dietro la testa, invece di definire il muro banale del meschino appartamento, dipingo l’infinito, faccio un fondo semplice con il blu più intenso che posso confezionare, e per questa semplice combinazione testa bionda illuminata su questo fondo blu ricco ottiene un effetto misterioso come la stella nell’azzurro profondo”.

Van Gogh non poteva di certo sapere che più di un secolo dopo, l’intera umanità avrebbe visto come lui la propria abitazione come banale e meschina, essendosi ritrovata a vivere i propri appartamenti come una prigione, uno stato fisico e psicologico duro. Lui era arrivato prima a capire quale sarebbe stata l’importanza dell’indagine introspettiva. Una chance, una richiesta, forse anche un’esigenza. E noi? Siamo riusciti a farne tesoro? A cogliere questa unica e preziosa possibilità? “Conosci te stesso” (“Gnōthi seautón”). Questa è la scritta che campeggiava sul tempio del Dio Apollo a Delfi e che per secoli ha influenzato i più importanti pensatori della cultura occidentale: da Socrate a Platone, da Kant a Nietzsche. Ci siamo guardati allo specchio chiedendoci chi siamo?

Immagine di apertura: Vincent van Gogh, Autoritratto con cappello di feltro grigio,  1887/88. Van Gogh Museum, Amsterdam

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