Trump Revolution: Climate Crisis è un pungente atto d’accusa all’operato del presidente americano Donald Trump durante i quattro anni della sua amministrazione, ma un’accusa ben circostanziata, indipendente dalla gestione della cosa pubblica durante la crisi legata al coronavirus. Contro la crisi climatica, infatti, non c’è lock down che tenga, e a causa della pandemia che ha monopolizzato l’informazione, problemi come il riscaldamento globale e l’inquinamento atmosferico sono passati in secondo piano ma non sono certo scomparsi.
È quindi molto importate che la mostra attualmente in corso al Bronx Documentary Center, anche se per ora visitabile solo online, riaccenda l’interesse per l’argomento: curata dalla coordinatrice dei progetti espositivi Cynthia Rivera e dal direttore esecutivo del centro Michael Kamber, Trump Revolution: Climate Crisis è la seconda mostra dedicata alla realtà americana e globale durante l’amministrazione Trump. Se infatti non può essere ritenuto responsabile dello stato di salute del pianeta, è indubbio che Trump non abbia fatto nulla per cambiare il corso delle cose e si sia anzi impegnato, a vario titolo, per minacciare se non smontare dalla base ogni tentativo di riconfigurazione del pensiero e dell’atteggiamento degli americani nei confronti della questione climatica.
L’accusa passa stavolta dal lavoro di sei fotografi da sempre impegnati sul fronte della consapevolezza e della denuncia, che attraverso sguardi diversi — ma accomunati dallo stesso spirito di partecipazione per le realtà documentate — su diversi luoghi — a loro volta sfaccettature diverse di un problema comune — restituiscono un quadro complesso e polimorfico che riattiva la sensibilità sul dramma in corso.
In Cancer Alley, Stacy Kranitz visita le coste iper–industrializzate del Mississippi tra Baton Rouge e New Orleans, dove le comunità meno abbienti, in prevalenza afroamericane, hanno visto negli anni crescere a dismisura il tasso di mortalità dovuto a patologie correlate all’inquinamento. Katie Orlinsky punta invece sull’Alaska, definita dagli scienziati il “Ground Zero” dei cambiamenti climatici: il suo Chasing Winter rappresenta quindi il tentativo di preconizzare un destino di portata planetaria attraverso un caso di studio noto ma sempre attualissimo. The Sea in the Darkness Calls, di Bryan Thomas, si focalizza invece sull’erosione delle coste in Florida, dove l’innalzamento del livello del mare rischia di mettere in crisi un’economia prevalentemente basata sul turismo balneare e con essa quindi la vita di gran parte della popolazione. Dal Sunshine State al Golden State guidati invece da Marcus Yam, che con California Burning mette il dito in una delle piaghe più dolorose della recente storia americana: quella degli incendi dolosi, la cui “stagione” dura ormai tutto l’anno e ha destabilizzato l’equilibrio ecologico di uno dei luoghi — almeno fino ad ora — più vivibili del mondo. In mostra anche il pluripremiato Arctic: The New Frontier, lavoro a quattro mani del danese Kadir van Lohuizen e del russo Yuri Kozyrev, che hanno attraversato simultaneamente il circolo artico, uno dal lato occidentale e l’altro da quello orientale, documentando i diversi aspetti legati allo scioglimento dei ghiacci: un evento lento e inesorabile che cambierà per sempre, ancora una volta, l’aspetto del mondo.